Drammatica, letteratura

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Drammatica, letteratura

Antonio Audino

Chi voglia affrontare il discorso sulla scrittura drammatica come genere o indicarne le modalità costruttive ed espressive si trova di fronte a un compito arduo poiché la frattura beckettiana, prodottasi nel corso del 20° sec., si è rivelata, con il trascorrere degli anni, sempre più insanabile. Da S. Beckett (1906-1989) derivano, infatti, i segni che, per negazioni, definiscono la scena contemporanea: la dissoluzione del personaggio nella sua consistenza interiore ed esteriore, la fine della consequenzialità dell'azione e della linearità narrativa, la scomparsa di qualunque coordinata temporale e spaziale. Venuto meno tutto questo armamentario tradizionale, rivelatosi basilare per la drammaturgia fino all'inizio del Novecento, sono andate in pezzi tutte le altre componenti dell'ideazione dello spettacolo.

Sulla linea evolutiva di matrice beckettiana non sono mancati grandi esempi di scrittura drammatica: si pensi all'inglese H. Pinter (n. 1930) o al francese B.-M. Koltès (1948-1989), autori che, pur muovendosi nel vuoto orizzonte definito dal grande autore irlandese, hanno costruito opere per la scena fortemente indicative della condizione di sbandamento interiore e del disagio esistenziale dell'uomo contemporaneo, obbligato a vivere a stretto contatto con le violenze e le durezze della civiltà postindustriale e reso ancor più incerto dalla perdita di quegli strumenti di interpretazione della realtà che un tempo erano offerti dalle ideologie. Tuttavia almeno uno dei temi di fondo della rivoluzione iniziata da Beckett sembra essersi esaurito. Nella l. d. degli ultimi anni l'incomunicabilità non è più al centro dello scambio verbale che avviene in scena. Il mondo si è fatto infinitamente più complesso: si tratta di capire quale comunicazione sia possibile in questa eccessiva proliferazione di canali relazionali, reali e virtuali, cosa si possa dire, o cosa valga la pena di dire ancora. Rassegnati ormai nella certezza wittgensteiniana della lingua come nomenclatura, come valore dminimo per comunicare significati comprensibili in un ambito ristretto, dove li si adopera in un senso preciso, chi scrive per il teatro sembra voler indagare intorno agli ultimi brandelli di una possibile relazionalità dialogica. A questo fa pensare la nitidezza espressiva di certi autori nordici come gli svedesi P.O. Enquist (n. 1934) e L. Norén (n. 1944), dai quali un clima da tragedia classica viene trascritto con una definizione estrema di contorni e con un'acuta attenzione alla contemporaneità. Quella che sembra definitivamente superata è comunque la dimensione di una lingua di scena che espone soltanto sé stessa. Semmai l'esplosione dei valori e delle modalità di costruzione del teatro ha comportato cambiamenti più radicali. Con la frattura degli schemi teatrali e il mescolarsi delle varie discipline (teatro, danza, musica, arti figurative), la costruzione dell'evento scenico si è fatta più articolata e con essa sono divenute più complesse le figure degli autori dello spettacolo. Prodotto creato appositamente per il palcoscenico, questo nuovo tipo di rappresentazione può prendere le mosse da un testo scritto, drammaturgico o latamente letterario, può contenere parti di dialogo o scene, può basarsi su un'azione e su attori recitanti, ma questi elementi di enunciazione verbale costituiscono, comunque, soltanto una parte del prodotto artistico, che nasce invece dalla combinazione di diversi fattori - movimento, suono, spazio scenico -, con la presenza di interpreti che sono contemporaneamente attori e danzatori, o mescolano in maniera ancora più sottile recitazione, movimento, musica o canto, spesso integrando il loro lavoro con proiezioni video. Per definire il processo creativo alla base di queste complesse operazioni si è usato il termine di scrittura scenica e spesso anche di drammaturgia, intesa nel senso di una vera e propria strutturazione di parti, che, se pur articolate con strumenti spettacolari diversi, si compongono in uno sviluppo dell'agire in palcoscenico. Il termine appare appropriato, giacché per drammaturgia si è sempre intesa la costruzione dell'azione drammatica, che prevede lo svolgimento degli accadimenti narrati e il loro modo di disporsi in scena. È il comporsi di questo svolgimento che non può più essere considerato come un fatto legato esclusivamente all'uso della parola. Anche perché il procedimento creativo appare rovesciato, e laddove l'autore drammatico scriveva a tavolino un'opera che poi qualcuno avrebbe trasposto in scena, l'intera immaginazione dello spettacolo viene concepita dall'artista che la crea e che ne prevede, con i suoi collaboratori, tutta la costruzione, spesso componendo il testo in funzione dello sviluppo visivo e formale dell'opera, o comunque legandolo alle altre componenti come uno degli elementi necessari per la creazione del fatto spettacolare. In questi casi la parola appare inscindibile dagli altri elementi, essendo nata all'interno di un lavoro di fantasia artistica che non procede con un assemblaggio, ma pensa già lo spettacolo come una fusione di elementi necessari e imprescindibili.

È evidente che il termine drammaturgia fornisce a questa creazione scenica una caratura tutta teatrale, poiché ne mette in luce il procedimento temporale, ravvisando nel fatto spettacolare la persistenza di un andamento lineare nel tempo, che necessita, quindi, della costruzione di un'azione, non più di un'azione della storia raccontata, ma di un'azione dello stesso agire scenico. Lo spettacolo potrebbe non avere lo scopo di una narrazione consequenziale. Ciò non toglie che lo stesso spettacolo, comunque, sia un'azione in divenire e necessiti quindi che quel 'dramma' abbia una sua precisa scansione. Proprio questa individuazione di una corrente temporale di successione di eventi sembra essere l'unico segno che differenzia certe espressioni del palcoscenico da alcune pratiche dell'arte, che giocano ancora, nella maggior parte dei casi, su momenti fissi, o non prevedono un'attenzione prolungata che segua l'evolversi del prodotto proposto allo spettatore. Il teatro è dunque ancora teatro e il dramma è ancora dramma, in quanto si realizza la coincidenza di due coordinate spazio-temporali davanti allo sguardo di qualcuno su ciò che sta accadendo in quel momento.

È difficile quindi comporre un catalogo ragionato della l. d. contemporanea, proprio perché non si tratta più di elencare una serie di testi poi proposti in una sala teatrale, quanto piuttosto di indicare una lista di opere realizzate in scena, delle quali la sola trascrizione delle parti verbali diventa un lacerto inutile di un corpo ben più vivo e articolato. Molte delle migliori creazioni teatrali degli ultimi decenni del 20° sec. sono appunto scrittura scenica e non più un rapporto dialettico fra testo e messa in scena. Questo vale sia per l'Italia sia per altri Paesi, sia per nomi ormai consolidati dello spettacolo internazionale sia per giovani emergenti.

Questa pratica operativa è riscontrabile nei due nuclei più vivaci e interessanti della scrittura scenica, diametralmente opposti e collocati agli estremi di un teatro di matrice letteraria e di stampo naturalistico, ormai decisamente in disarmo.

Da un lato si trova la scrittura dei giovani narratori, autori della storia che raccontano e interpreti e registi di sé stessi, per i quali il testo verbale appare la linea di forza della creazione, ma risulta estremamente chiaro che esso sia modellato su colui che lo ha inventato e su chi lo porterà in scena. Anche in questo caso non esiste un personaggio unico, ma la narrazione contempla continui cambiamenti di inquadratura, voci diverse, momenti documentari e inserzioni fantastiche, battute in prima persona e narrazioni oggettive, dialoghi. Il segno più forte di tale atteggiamento creativo e di un nuovo rapporto con la scrittura s'incontra nel lavoro di A. Celestini (n. 1972), o in quello di colleghi di poco più anziani come M. Paolini (n. 1956), M. Baliani (n. 1950), G. Vacis (n. 1955) e L. Curino (n. 1956). L'immediata vastissima diffusione del teatro di narrazione si deve certo alla forza di questi interpreti e alla loro capacità di riportare l'idea di teatro al suo segno più scarno ma anche più efficace, quello di una comunicazione diretta fra individui. L'ulteriore elemento che ha decretato il successo di questa linea di racconto scenico è l'aver lavorato quasi esclusivamente sulle immagini sbiadite della memoria collettiva, ricostruendo fatti tragici della storia del Paese, andando a recuperare documentazioni e testimonianze del lavoro in fabbrica o delle vicende belliche e postbelliche, degli accadimenti più cruenti della politica e delle tensioni sociali degli anni più recenti, delle catastrofi e delle tragedie di massa, restituendo contorni più nitidi ad avvenimenti apparentemente conosciuti da tutti ma fissati, in realtà, nell'immaginario comune in maniera labile e per larghe approssimazioni. Questo elemento chiude il cerchio di una dimensione teatrale del tutto nuova collegandola con tradizioni di racconto e di memoria tipiche della cultura popolare italiana.

Al punto opposto si pone un teatro di invenzione scenica più complessa, con differenti presenze attoriali, basato su un movimento e un'immagine quanto mai articolati. In questo caso la creatività si volge verso una traccia testuale che gioca sui rispecchiamenti e i rimandi con tutti gli altri elementi. Dunque si deve parlare di scrittura scenica e di drammaturgia per i lavori di J. Fabre (n. 1958), dove la parola appare raramente, o per quelli di R. García (n. 1964), dove lunghi monologhi si intervallano alle azioni sceniche. In Italia appare singolare il lavoro dell'autrice e regista E. Dante (n. 1967), che ha costruito i suoi spettacoli ragionando per immagini e su suggestioni della quotidianità della sua terra d'origine, la Sicilia, montando piccoli quadri con microcosmi sociali attraversati da superstizione e comicità, da fatalismo e da affetto familiare, e dando alla parola il senso di un'evocazione profonda delle modalità di relazione e degli strappi di queste, di comunicazioni sincere e di difficoltà espressive.

Altro caso è quello di R. Castellucci (n. 1960) e della sua compagnia, la Societas Raffaello Sanzio; nei lavori di questo gruppo, superata la fase di attraversamento dei classici greci e di W. Shakespeare, la rinuncia alla parola si è rivelata pressoché totale, ma proprio il baratro del silenzio, entro il quale vengono costruite le potenti immagini degli spettacoli, suona come la forte evocazione di un'assenza, voluta e insistita. Quando, poi, la parola riappare recupera tutta la sua forza sonora e assume un valore poetico purissimo, come per una preghiera laica. Di grande suggestione verbale e di altissima caratura poetica è la scrittura di M. Gualtieri (n. 1951), un tracciato di riflessioni che si trasferisce in scena nelle allucinate strutture creative di C. Ronconi (n. 1951) e della compagnia del Teatro della Valdoca. Questi esempi indicano che il lavoro centrale del teatro, nelle sue affermazioni più innovative e nelle linee più serie della ricerca, consiste innanzitutto nella capacità di porre in atto una funzione immaginativa e creativa, di aprire un canale comunicativo, di mettere in moto un linguaggio che trovi il suo momento di vita in palcoscenico, con mezzi ed elementi diversi, ma tutti riconducibili alla dimensione scenica.

In entrambi i casi indicati, cioè sia nel teatro di narrazione sia in quello costruito su una più complessa visione scenica, la parola, quando viene utilizzata, si impone come una presenza decisiva e incisiva. Non più costretta nei confini dell'uso comune, diventa lingua di invenzione poetica, creazione autonoma che ribadisce un suo valore fortemente teatrale, sia nel senso di una comunicazione diretta e non mediata, da individuo a individuo, da artista a collettività presente, sia in quanto dotata di quella forza particolare che sola può conferirle credibilità sulla scena, restando comunque lontana dalla scrittura letteraria e dalle espressioni consunte della comunicazione di massa. Dunque proprio questo diverso uso della parola in scena, centrale o marginale che sia, sottolinea la necessità della presenza verbale in teatro, ne rivela la sua forza unica, ne riabilita il carattere insostituibile come primo elemento di interazione fra individui. Ciò non toglie che esista ancora una scrittura creata per una successiva realizzazione in scena e che certe opere, seppur nate in determinati contesti o a stretto contatto con compagnie o luoghi particolari di creatività teatrale, non abbiano poi una loro esportabilità e una solidità che ne rende possibile la trasposizione su altri palcoscenici e in altre lingue.

Certamente uno dei passaggi più rimarchevoli della produzione drammaturgica è la giovane scrittura inglese fra gli anni Ottanta e Novanta, una produzione vivacissima che ha condizionato la scrittura teatrale di molti Paesi, compresa l'Italia. Questa linea creativa, nata molto spesso intorno all'attività di una sala londinese, luogo di punta di una nuova generazione di artisti, il Royal Court Theatre, ha portato in scena la reazione e il disagio giovanili, condizionati dalle strettoie economiche e sociali dell'era thatcheriana. La scrittura della nuova drammaturgia inglese è infatti aspra, violenta, amara, dolorosamente orientata a una visione della quotidianità sprofondata in una disperata disillusione. Esempio lampante ne è l'opera di S. Kane (1971-1999), una delle autrici più rappresentate in tutto il mondo, morta suicida a ventotto anni. La sua scrittura si fonda su un'acutissima sensibilità in urto con il mondo circostante, che sfocia in un linguaggio disarticolato, irto di schegge linguistiche acuminate e taglienti, provenienti dal lessico più brutalmente quotidiano riportato in un vorticoso procedere di pensieri vicini al delirio, tanto da condurre l'autrice a trattare nel suo ultimo scritto, 4:48 Psychosis, rappresentato postumo, il tema stesso del suicidio.

Sulla medesima linea vanno ricordati M. Ravenhill (n. 1966) e M. Crimp (n. 1956), appartenenti a una generazione per la quale è stata coniata la definizione di New angry young men, con un rimando alla forza e all'amarezza del gruppo di drammaturghi capeggiati da J. Osborne (1929-1994) negli anni Cinquanta del 20° secolo. Ma, in questi ultimi casi, la dimensione del disagio e del conflitto trova la sua immediata trascrizione nell'uso di parole comuni, spesso violente ed estreme, inserite in dialoghi fratturati e in iperboli dolorose. Dove, appunto, appare labile la definizione di un'identità precisa di un qualche personaggio in scena e dove, invece, conta la dimensione, tutta verbale, di un'esplosione di violenza. Il vero segno di disperazione sta nel fatto che questi autori hanno rinunciato all'impegno, a fare dello strumento comunicativo del teatro un mezzo di denuncia, non riuscendo più a intravedere i termini di un possibile riscatto, di una opportunità di rovesciamento personale e collettivo della situazione, con una totale abiura di qualsiasi utopia politica. Si tratta, dunque, di una scrittura che non sfugge all'attualità, anzi la affronta e ne stigmatizza le assurdità, e insieme registra l'impotenza e l'assenza di prospettive delle nuove generazioni, mettendo in campo temi come la disoccupazione, la guerra, la violenza, la droga, la miseria.

Anche in Italia la scrittura dei più giovani ha registrato il disagio dell'epoca contemporanea su linee espressive di decisa durezza. È il caso di F. Paravidino (n. 1976), in contatto con il Royal Court, e attento sia a temi contemporanei quali guerre e conflitti sociali, sia ai microcosmi familiari, dove la possibilità di relazione agisce su linee frammentate delineando tracciati incerti e dai risvolti acidi e violenti. In termini più generali va detto che in Italia si lamenta un lungo momento di crisi della drammaturgia nazionale. Causa di un'apparente scarsa vitalità è sicuramente l'assenza di una politica relativa allo sviluppo e al sostegno della scrittura scenica. Per quanto lo statuto dei teatri stabili indichi la promozione della scrittura italiana, molto spesso questa indicazione viene trascurata o attuata soltanto per ciò che riguarda la messa in scena di opere di grandi classici dei secoli trascorsi, innanzitutto di L. Pirandello. Vero è che poco spazio viene dedicato, nella programmazione di compagnie private e di istituzioni pubbliche, a quanto di nuovo avviene nell'ambito della scrittura per la scena, ed è altrettanto vero che proprio questo è il motivo che ostacola l'emergere di nuovi drammaturghi e di nuove linee di scrittura, rafforzando così il sospetto che, se pur ci fosse una certa vitalità creativa, difficilmente questa riuscirebbe a venire allo scoperto.

Ciononostante un rapido elenco di nomi nuovi e fortunati della scrittura drammatica italiana appare possibile. Vanno citate le opere di U. Chiti (n. 1943), realizzate in stretto contatto con la compagnia da lui fondata, l'Arca azzurra. Questo autore conserva modi e qualità della drammaturgia di tradizione, pur facendovi scorrere i succhi di una riflessione tutta contemporanea. Partito da una ricognizione delle memorie partigiane di area toscana, Chiti ha allargato poi la visuale a più libere narrazioni o alla ricostruzione di accadimenti storici più lontani nel tempo, giovandosi di una scrittura che, pur in modi e strutture d'impianto tradizionale, riesce a farsi strumento acutissimo e preciso di osservazione della quotidianità. Così si potrebbe dire anche di A. Ruccello, nato nel 1956 e immaturamente scomparso all'età di trent'anni, il quale ha lasciato un corpus di testi dotati di una grande forza espressiva, capaci di attraversare situazioni drammatiche e di mettere in campo coloriture ironiche, e rilevando, in un gioco di sapiente costruzione narrativa e linguistica, gli spazi smarginati della nostra individualità in rapporto con la passione amorosa, con il desiderio e la necessità della relazione umana. Più vicino agli smarrimenti beckettiani è S. Scimone (n. 1964) con le sue scarne figure sceniche, con i suoi duetti nitidi e astratti, i suoi personaggi indefiniti. Alcuni dei migliori esempi di nuova scrittura per la scena nascono in una matrice linguistica dialettale, come la produzione intensamente poetica del siciliano F. Scaldati (n. 1943), attento alla realtà popolare della natia Palermo, trascritta in azioni tra il quotidiano e il visionario in una lingua ricchissima e composita di grande suggestione e di straordinaria forza evocativa. Questi quattro autori hanno messo in scena come registi i propri lavori, e sia Ruccello sia Scimone e Scaldati li hanno anche interpretati, il che non dimostra soltanto la linea di continuità con i grandi autori che hanno scritto a diretto contatto con il palcoscenico o pensando alla propria presenza attoriale, ma si pone anche quale ulteriore dimostrazione di quello stretto collegamento fra idea di scrittura e messa in scena che, come si è detto, è andata caratterizzando la creatività drammaturgica.

Bibliografia

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M. Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino 2003.

Harold Pinter, a cura di A. Serra, in Il teatro, 29° vol., Milano 2003.

U. Chiti, La recita del popolo fantastico, Milano 2004.

A Celestini, Radio clandestina: memoria delle Fosse ardeatine, Roma 2005.

A. Celestini, Storie di uno scemo di guerra: Roma, 4 giugno 1944, Torino 2005.

A. Ruccello, Teatro, Milano 2005.

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