LETTERATURA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Letteratura

Tullio Kezich

Il rapporto tra letteratura e cinema

Sui rapporti fra l. e cinema esistono da sempre due modi opposti di considerare il problema. Per alcuni il cinema, sotto l'aspetto narrativo, nasce addirittura da una costola della l. passando talvolta attraverso il teatro. Altri invece sostengono che il cinema, quando assume le autentiche caratteristiche di un'arte nuova, deve totalmente affrancarsi dalla l. e affermare i propri valori solo con opere originali, formulate attraverso lo specifico linguaggio delle immagini e dei suoni. Resta comunque imponente la percentuale di film derivati da precedenti di carta stampata: romanzi, racconti e pubblicazioni d'ogni genere. Donde l'opportunità di vagliare quanto il cinema è stato e continua a essere tributario della narrativa, ma anche quanto la narrativa del 20° sec. è stata influenzata dalla 'settima arte'. Chiunque abbia praticato la l., il cinema o entrambi, sa che sui collegamenti fra questi opposti versanti dell'espressione artistica esiste una bibliografia sterminata: di taglio storico-critico, teorico o ispirato a curiosità varie. Si può rilevare dal numero delle volte in cui un romanzo è stato portato sullo schermo, dalla fedeltà maggiore o minore degli adattamenti, dall'operosità degli scrittori nel campo della sceneggiatura o della critica e altri interessi incrociati. Accade spesso di imbattersi, sui giornali e altrove, nella ricorrente deplorazione che sempre più film derivano dalla l., un atteggiamento radicato in un purismo cinefilo insofferente di dover riconoscere i debiti della pellicola verso la pagina scritta. Tant'è vero che film tratti da libri anche notissimi vengono annunciati e addirittura recensiti senza neppure menzionare l'autore dell'opera originaria, con il titolo accompagnato da un semplice 'di', seguito dal nome del regista. Si scrive I promessi sposi (1941) 'di' Mario Camerini senza citare Alessandro Manzoni.

La storia delle rivendicazioni del 'cinema cinematografico' contro il 'cinema letterario' è antica quanto la settima arte. Delle polemiche nate da tale contrapposizione se ne potrebbero rispolverare a dozzine, costantemente ancorate alle due posizioni contrapposte: quella di chi considera la l. come un indispensabile punto d'appoggio del cinema e quella di chi rivendica la specificità dell'arte del film condannando i cosiddetti letterati al cinema. E vale la pena di sottolineare che nella critica letteraria l'aggettivo cinematografico (in un'accezione quale 'questo libro è un po' cinematografico') assume una valenza almeno altrettanto negativa di quella che ha l'aggettivo letterario nella critica cinematografica ('questo film è un po' letterario'). Come si vede l'argomento 'cinema e letteratura' è pericolosamente situato al crocevia della banalità: arrivando da opposti sentieri, vi si incontrano senza salutarsi letterati che non sanno e non vogliono sapere niente di cinema con assoluti sostenitori del fotogramma per i quali al di fuori del cinema non esiste niente.

A proposito dell'idiosincrasia dei cinefili per la l., si può considerarla una delle cause che hanno favorito, o almeno accompagnato, la sempre più totalizzante dittatura dell'immagine nel tentativo di scavalcare e rendere inutile la parola scritta. Quasi auspicando e preparando quel mondo nuovo in cui, stando alle previsioni più pessimistiche, nessuno leggerà più né libri né giornali. Sull'avversione dei letterati di tradizione per il cinema, vale la pena di considerare come tipica, e in qualche modo estrema, la situazione che emerge dal panorama storico italiano. Dall'atteggiamento negativo degli intellettuali nostrani verso l'arte del film si salvano, nei primi decenni del secolo, i due grandi, Gabriele D'Annunzio e Luigi Pirandello. Il primo accettò infatti nel 1914 di 'tradurre in dannunziano' le didascalie del kolossal Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone; e in una lettera espresse la convinzione che "nei trucchi sta la potenza vera e inimitabile del cine", anticipando di molti decenni il primato degli effetti speciali. Quasi coeva fu l'apparizione (1916) del romanzo pirandelliano Si gira… (poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore), il primo che osò affrontare le complesse tematiche inerenti al mezzo espressivo. Però l'esempio dei due maestri non fece proseliti; e furono invece numerosi i letterati che per decenni perseguirono il tentativo di togliersi dai piedi l'ingombrante e degradante decima Musa. Agghiacciante la dichiarazione di un intellettuale dell'autorevolezza di E. Montale, che in un'inchiesta giornalistica apparsa nel 1961 sul "Corriere della Sera" si espresse così: "Il cinema è fonte inevitabile di prostituzione e delinquenza". Né si possono dimenticare le stroncature del cinema in generale e dei suoi artisti maggiori da parte di grandi firme della l.: G. Ungaretti paragonò Charlie Chaplin al drammaturgo G. Rovetta (in G. Viazzi, Chaplin e la critica, 1955), R. Bazlen (in Scritti, 1984) scrisse che Ladri di biciclette (1948, di Vittorio De Sica) era "il punto più basso in cui è caduta l'Italia" e irrise al capolavoro di Robert Bresson Un condamné à mort s'est échappé (1956; Un condannato a morte è fuggito). Non si devono certo confondere i singoli giudizi su artisti o opere, sempre legittimi anche se sgradevoli e petulanti, con il rifiuto totale del cinema. Ma come non accorgersi che stroncature scaturivano il più delle volte da un preconcetto atteggiamento di ostilità? E ci si potrebbe soffermare a psicoanalizzare il caso di Mario Soldati, autore di oltre trenta film, tra i quali uno dei più alti esempi di cinema tratto dalla l. come Piccolo mondo antico (1941), il quale affermò sempre di aver fatto il regista obtorto collo considerando il cinema un'arte minore, anzi minima, perché ha bisogno di tutte le altre.

È bene tuttavia ricordare i non pochi uomini di penna che accolsero il cinema con immediato interesse, a cominciare dai futuristi (v. futurismo). Intelligente e spregiudicato fu l'atteggiamento di Emilio Cecchi, che non si limitò a dedicare alla cinematografia un'assidua attenzione critica, ma la trasformò in una partecipazione operativa imprimendo un taglio particolare alla produzione della Cines nella prima metà degli anni Trenta. Perfino pleonastico è menzionare nomi di scrittori divenuti sceneggiatori a tempo pieno come Cesare Zavattini, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano e altri, tran-sfughi volontari (sia pure con qualche resipiscenza) dalla l. nel cinema, dove hanno lasciato impronte notevoli. Sempre guardando al panorama italiano si possono poi ricordare le sporadiche sortite registiche di letterati, come per es. Curzio Malaparte (Il Cristo proibito, 1951), Luigi Malerba (Donne e soldati, 1954), Indro Montanelli (I sogni muoiono all'alba, 1961), Enzo Siciliano (La coppia, 1969), Dacia Maraini (L'amore coniugale, 1970); e ripercorrere gli itinerari professionali, a cavallo delle due attività, di Pier Paolo Pasolini, Nelo Risi, Fabio Carpi, Alberto Bevilacqua e altri. Fra i letterati più spontaneamente accorsi al richiamo dell''arte muta' si collocò l'esule irlandese James Joyce che, nel 1904, avendo scoperto a Trieste il cinematografo si lanciò addirittura nell'impresa di importarlo nella sua Dublino con risultati catastrofici; e, sempre a Trieste, il poeta Umberto Saba fu per un certo periodo direttore di una modesta sala di seconda visione, il Cinema Italia, che gli ispirò i versi di Il canto dell'amore ‒ Una domenica dopopranzo al cinematografo. Va poi dato atto a Cesare Pavese di aver coraggiosamente affermato, sul finire degli anni Quaranta, che il miglior narratore italiano del momento era Vittorio De Sica; e che dire di Alberto Moravia, oltre che fornitore con la sua opera di trame e spunti per molti film, impegnato senza interruzione per mezzo secolo a scrivere settimanalmente sui film che apparivano sugli schermi? E sarebbe ingiusto dimenticare i contributi di un critico del valore di Giacomo Debenedetti, del poeta Mario Luzi, di Italo Calvino e di altri.

Figlio 'bastardo' dell'unione fra la scrittura e le arti della figurazione, il cinema si può considerare il fratello cadetto del teatro che a un certo punto è fuggito di casa e mantiene un atteggiamento a volte umile, a volte irrispettoso e a volte nostalgico verso la famiglia letteraria d'origine. Eppure, paradossalmente ma non troppo, sarebbe legittimo sostenere che non esiste cinema senza un sia pur minimo precedente di scrittura. Per orientare e determinare ogni metro di pellicola che si gira c'è sempre un testo a monte. Magari manoscritto, tirato via, scribacchiato. Magari 'imbastito alla brava' sulla prosetta arida e incontrollata di molti trattamenti, sceneggiature e altri tipi di falsariga predisposti per avviare il progetto alla sua naturale destinazione visiva. Qualsiasi film, da quando esiste il cinema, comincia nello stesso identico modo, con un tavolo, una risma di carta e qualcuno con la penna, la macchina per scrivere o il computer. Neppure gli esempi più tipici di cinema extraletterario, come il documentario o il film d'avanguardia, si possono del tutto escludere da questa regola. È difficile negare che Robert J. Flaherty si muovesse fra i ghiacci e i pescatori impellicciati di Nanook of the North (1922; Nanouk o Nanuk l'eschimese) senza avere in tasca un appunto preso la sera prima; e Dziga Vertov assorto nei suoi stravaganti montaggi di immagini avrà pur avuto, accanto alla moviola, una 'scaletta' o un promemoria scritto. Troppo poco? Ma per contenere L'infinito di G. Leopardi è sufficiente una paginetta, e per un haiku giapponese basta anche meno. Insomma, a ogni livello di espressione qualsiasi film viene prima scritto (talvolta male, di corsa, a grandi linee) e poi girato. Chi ha pratica di set sa del resto dove collocare la leggenda dei registi grandi improvvisatori. Nessun cineasta è mai andato a girare senza portarsi dietro la penna e qualcosa per scriverci su, fosse pure il retro di una busta. Ne consegue che nel cinema il testo ha sempre un valore fondamentale.

Sui film che apertamente si ispirano a un testo letterario si è scritto molto. Forse vale anche per la traduzione di un fatto letterario in spettacolo la nota formula di B. Croce sulla traduzione in genere, che può essere "brutta e fedele o bella e infedele". L'arco storico di questo procedimento si può dividere in due epoche, la prima legata alla suggestione, alla presa in prestito di un brandello di trama, all'utilizzazione di temi e personaggi spesso spinti molto lontano dalla loro impostazione originaria. Merita ricordare che Orson Welles apprese per la prima volta l'esistenza di un certo libro assistendo da bambino al film Moby Dick (1930; Moby Dick, il mostro bianco) di Lloyd Bacon, dove alla fine John Barrymore, ovvero il capitano Ahab, non viene trascinato negli abissi dalla diabolica balena e invece si sposa. Una trasposizione ridicola, un insulto a un capolavoro della letteratura? Però fu proprio la suggestione di quella rozza favola marinara a far innamorare per sempre Welles di H. Melville, inducendolo a mettere in scena Moby Dick in un singolare spettacolo teatrale e a pronunciare la predica iniziale del film diretto da John Huston (Moby Dick, 1956, Moby Dick, la balena bianca). Il caso Welles-Melville illumina bene il contributo che il cinema diede e continua a dare alla conoscenza e alla divulgazione della letteratura.

Un approccio diverso della decima Musa a un fatto letterario si verificò dalla seconda metà del Novecento in poi, quando il cinema si venne rivelando una sorta di strumento aggiunto ai tradizionali metodi della critica letteraria, un modo nuovo e diverso di affrontare i libri, spiegarli, illuminarli dall'interno. In fondo l'adattatore e il regista sono obbligati a fornire un'interpretazione del testo che espressa in forma saggistica sarebbe presa in considerazione dagli accademici. Mentre quasi nessuno si prende la responsabilità di farlo, perché pochi sanno analizzare lo spettacolo nelle sue componenti e l'operazione si configura troppo complessa: in genere chi sa leggere il cinema non sa leggere i libri e viceversa. È questa un'operazione culturale che attende ancora, pur nella fitta congerie di studi e saggi esistenti, un'analisi sistematica; e soprattutto l'inclusione nelle storie della critica, dove spesso l'adattamento cinematografico (o teatrale) di un classico oppure quello di un contemporaneo risulterebbero magari più utili e chiarificatori di un intero corso universitario.

Qui non si pretende, ovviamente, di ricostruire anche per grandi linee una storia dell'adattamento critico, anche perché sarebbe ben difficile individuare i momenti iniziali di tale raggiunta consapevolezza, ma solo fornire alcuni riferimenti tra i più evidenti. Classici della l. o libri di successo sono stati utilizzati dal cinema fin dalle origini. Il record quantitativo è stabilito da G. Simenon, i cui romanzi e racconti trasferiti sullo schermo dal 1932 in poi superano i sessanta film (tra i quali spiccano quelli dedicati al personaggio del commissario Maigret). Anche fra i classici, però, gli adattamenti sono innumerevoli. Solo per citare pochi nomi fra i più celebri e una manciata di titoli, di A. Dumas si sono susseguite senza posa le versioni di Les trois mousquetaires e Le comte de Monte-Cristo; V. Hugo è spesso stato presente sullo schermo soprattutto con Notre-Dame de Paris e i Misérables; Ch. Dickens ha fornito gli intrighi e i personaggi di Oliver Twist, David Copperfield, A tale of two cities, Great expectations; J. Verne ha avuto adattamenti da Vingt-mille lieues sous les mers, Le tour du monde en quatre-vingts jours e Michel Strogoff. Particolarmente numerosi i film tratti dalle opere di R.L. Stevenson soprattutto per ciò che riguarda Treasure island e The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde. Attrici famose si sono ritagliate dalle pagine dei romanzi personaggi carismatici come Eugénie Grandet di H. de Balzac, Carmen di P. Mérimée, Madame Bovary di G. Flaubert, La Dame aux camélias di A. Dumas fils, Anna Karenina di L.N. Tolstoj, Lola Lola in Der blaue Engel di H. Mann, Scarlett O'Hara in Gone with the wind di M. Mitchell. Un elenco a parte riguarda gli eroi seriali dei romanzi polizieschi, da Fantomas di M. Allain a Rouletabille di G. Leroux, dal mitico Sherlock Holmes di Sir A. Conan Doyle alla folta schiera dei suoi epigoni: Philo Vance di S.S. Van Dine, Hercule Poirot e Miss Marple di A. Christie, il detective cinese Charlie Chan di E. Derr Biggers, la coppia Nick e Nora protagonista di The thin man di D. Hammett, l'agente segreto James Bond alias 007 di I. Fleming. Un modello discutibile ma persistente di evocazione della romanità è stato codificato dai film derivanti da romanzi ottocenteschi come Fabiola di N.P. Wiseman, Ben Hur di L. Wallace, Quo vadis? di H. Sienkiewicz; mentre i film medievali si ispirano volentieri ai testi di Sir W. Scott come Ivanhoe. In Italia operazioni prestigiose e corrette di illustrazione dei classici sono state compiute da registi come Alessandro Blasetti (1860, 1933, da G.C. Abba), Mario Camerini (I promessi sposi da A. Manzoni), Mario Soldati (Piccolo mondo antico; Malombra, 1942; Daniele Cortis, 1947, tutti da A. Fogazzaro); Alberto Lattuada (Il delitto di Giovanni Episcopo, 1947, da G. D'Annunzio; Il mulino del Po, 1949, da R. Bacchelli); Mauro Bolognini (Il bell'Antonio, 1960, da V. Brancati; La viaccia, 1961, da M. Pratesi; Senilità, 1962, da I. Svevo; Agostino, 1962, da A. Moravia; Metello, 1970, da V. Pratolini); Luchino Visconti (Morte a Venezia, 1971, da Th. Mann); Francesco Rosi (Uomini contro, 1970, da Un anno sull'altipiano di E. Lussu; Cadaveri eccellenti, 1976, da Il contesto di L. Sciascia; Cristo si è fermato a Eboli, 1979, da C. Levi; La tregua, 1997, da P. Levi); Vittorio De Sica (Il giardino dei Finzi Contini, 1970, da G. Bassani); Ermanno Olmi (La leggenda del santo bevitore, 1988, da J. Roth), Paolo e Vittorio Taviani (Kaos, 1984, e Tu ridi, 1998, da L. Pirandello; Il sole anche di notte, 1990 e il film televisivo Resurrezione, 2002, da L.N. Tolstoj; Le affinità elettive, 1996, da J.W. Goethe); Roberto Benigni (2002, Pinocchio, da C. Collodi).Oltre ad alcuni fra i film menzionati, ce ne sono altri contraddistinti da un sincero e profondo interesse per l'opera scelta ai fini dell'adattamento. Nella filmografia di Stanley Kubrick spiccano fra gli altri titoli di testi letterari: Lolita (1962) da V. Nabokov; 2001: a space odissey (1968; 2001: Odissea nello spazio) da A.C. Clarke; Barry Lyndon (1975) da W.M. Thackeray. Un regista che ha messo a frutto nella sua filmografia una passione letteraria non occasionale è James Ivory, il cui autore di riferimento sembra essere H. James con adattamenti da The Europeans e The Bostonians.

Di particolare interesse le trasposizioni che, per verificarne la pregnanza di attualità, situano gli spunti libreschi in epoche e contesti diversi. Valgano come esempi il racconto Boule de suif di G. de Maupassant spostato nel Far West di Stagecoach (1939; Ombre rosse) di John Ford tramite una variazione letteraria di E. Haycox; il romanzo The postman always rings twice di J.M. Cain ricollocato nelle cornici della provincia francese in Le dernier tournant (1939) di Pierre Chenal e del Polesine in Ossessione (1943) di Visconti; Il cappotto (1952) da N.V. Gogol′ ambientato da Lattuada a Pavia; la novella Il divino e l'umano di Tolstoj trasferita fra gli anarchici italiani dell'Ottocento in San Michele aveva un gallo (1973) dei fratelli Taviani; Heart of darkness di J. Conrad spostato nel Vietnam di Apocalypse now (1979) di Francis Ford Coppola; Eyes wide shut (1999) di Stanley Kubrick che trasferisce l'azione dalla Vienna del racconto di Traumnovelle di A. Schnitzler all'America contemporanea.

Scrittori illustri o meno hanno spesso accettato di lavorare direttamente per il cinema. A Hollywood sono stati sotto contratto in qualità di sceneggiatori Francis Scott Fitzgerald (che sull'esperienza californiana ha scritto il suo ultimo romanzo incompiuto, The last tycoon), William Faulkner, Aldous Huxley. In Italia molti letterati hanno collaborato a sceneggiature, da Moravia a Pratolini, da Brancati a Bassani. Una forma aberrante di rapporto fra cinema e l. è la cosiddetta novelisation ovvero il romanzo tratto dalla sceneggiatura del film e venduto sulla sua scia come merchandise. Si potrebbe infine osservare, come ultima nota curiosa, che qualsiasi film, immancabilmente nato da una pagina scritta, ritorna altrettanto puntuale alla pagina nelle descrizioni dei critici, dei saggisti e degli storici: non è anche la critica un'espressione letteraria? Se ne può quindi concludere che la l. precede, segue, circonda, sostiene e anima il cinema e le arti dello spettacolo in genere.

Bibliografia

G. Nuvoli, Storie ricreate: dall'opera letteraria al film, Torino 1998.

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