NEOLATINE, LINGUE

Enciclopedia Italiana (1934)

NEOLATINE, LINGUE

Carlo Tagliavini

Le lingue neolatine o romanze sono quelle che continuano direttamente il latino, cui la forza di espansione politica e militare di Roma diede la possibilità di estendersi su un territorio immenso. La conquista romana portò, in massima parte, anche la penetrazione linguistica e le regioni sottomesse a Roma furono acquistate non solo politicamente, ma anche linguisticamente. Dopo un periodo più o meno lungo di bilinguismo, la maggior parte delle regioni divenute politicamente romane abbandonarono le loro lingue e adottarono solo il latino. Certe regioni, peraltro, opposero maggior resistenza a questa penetrazione linguistica; la Grecia, p. es., fu romanizzata dal punto di vista militare e politico, ma non divenne mai romana per lingua; se anche i Greci, sudditi dell'impero romano, furono fieri di chiamarsi ‛Ρωματοι, continuarono a parlar greco (pur dando alla loro lingua il nome di ‛Ρωμαικὴ γλὧσσα). La civiltà greca era troppo antica e ancor troppo superiore alla romana per potersi piegare. Man mano che il latino guadagnava nuovi paesi e si stendeva su territorî sempre più vasti e lontani dal centro, l'unità linguistica tendeva a sgretolarsi; le differenze regionali si moltiplicavano. L'editto di Caracalla (202 d. C.) poteva dichiarare romani tutti i sudditi dell'impero: era un riconoscimento giuridico importante, ma non poteva fare diventare perfettamente romani di lingua e di sentimenti gli abitanti dell'Iberia, dell'Africa, ecc. Il latino parlato in Gallia non poteva essere identico a quello parlato in Iberia, ecc. Come con l'estendersi dell'impero di Alessandro Magno si era formata una κοινή greca, una specie di lingua comune che aveva per base l'attico, così con l'estendersi dell'impero romano si formò, pian piano, quella che il Valkhoff ha chiamata con ragione la κοινή latina (confrontare: Valkhoff, Latijn, Romaansch, Roemeensch, Amersfoort 1932). Da questa κοινή, che meno esattamente si è chiamata anche "latino volgare", si sono venute evolvendo le lingue neolatine.

Una gran parte della Románia, cioè del territorio sottomesso politicamente a Roma, è andata perduta per la romanità nel senso linguistico. La costa settentrionale dell'Africa non fu completamente romanizzata nel senso linguistico, perché l'ellenismo vi era troppo profondo, ma la Libia, il Marocco, ecc., erano completamente latini. Abbiamo infatti parecchi scrittori latini originarî dell'Africa settentrionale (Apuleio, Tertulliano, Sant'Agostino, ecc.) e abbiamo anche una serie ricchissima di iscrizioni latine dell'Africa. Ciò nonostante nessuna lingua neolatina si è formata sulla costa settentrionale dell'Africa; per studiare il latino dell'Africa non ci rimane che l'analisi delle iscrizioni e la ricerca dei "relitti" latini nelle lingue indigene della regione e specialmente nei dialetti berberi, parlati su tutta la costa e solo in seguito alla conquista araba respinti verso l'interno. Hugo Schuchardt ha dedicato a quest'argomento una importante monografia (Die romanischen Lehnwörter im Berberischen, Vienna 1918, in Sitz. d. k. Akad., 188,4); da questa vediamo che alcune voci latine molto rare e sconosciute al romanzo rimangono, come isolati relitti, nel berbero. Per es. il latino porrīgo, -ĭnis "tigna" (che mancava alla prima edizione del Romanisches Etymologisches Wörterbuch del Meyer-Lübke) non esiste in nessuna lingua romanza, ma si trova in berbero sotto la forma afuri (accanto a (t)ifuri) "Flechte" e nel mozarabo forrin. Sovente il latino d'Africa concorda con quello d'Italia; così la voce latina comune *retia (per rete cfr. W. Meyer-Lübke, Rom. etym. Wörterb., Heidelberg 1924, n. 7255) vive nell'italiano rezza "rete" e nel berbero tirešša "rete". Il lat. (morus) celsa (da cui l'ital. gelso) è conservato nel berbero tkilsa "Maulbeere" e la forma con k ci indica che la voce è entrata in epoca anteriore alla palatalizzazione romanza. Anche altri territorî perduti alla romanità linguistica c'indicano la persistenza di voci latine, perdute nel romanzo o limitate a regioni territorialmente lontane. In un celebre articolo Probleme der romanischen Nortgeographie (in Zeitschr. from. Phil., XXXIX, pp. 1-120) il linguista svizzero Jakob Jud ha dato parecchi esempî di questi relitti su territorio celtico e germanico; p. es., in cimrico (idioma celtico) si trova la parola plywf che risale al lat. plebs nel senso ecclesiastico (pieve); questa voce non esiste nel gallo-romanzo, ma la sua presenza nel cimrico dimostra che esisteva anche nel latino di Gallia, pur essendosi poi perduta; si vede così l'area compatta di questa voce ecclesiastica dall'Italia al nord della Gallia. Il tedesco Kessel risale, secondo J. Jud, al latino catillum (documento altresì nel basco katillu). Per designare il "granaio" le lingue romanze hanno continuazioni di granarium; le due voci latine horreum e spicarium non si conservano, ma la prima si continua nel nome della città di Oerri, presso Treviri in Germania, e la seconda è passata nell'ant. alto ted. spihhari (ted. mod. Speicher).

Per farci un'idea di questa κοινή latina abbiamo parecchi mezzi: 1. gli autori latini che hanno usato una lingua più vicina a quella del popolo; p. es. Plauto, ancora nell'epoca arcaica della letteratura latina, nelle sue commedie, usa una lingua che molte volte è più simile al latino comune e al romanzo di quello che non lo sia la lingua di autori cronologicamente più vicini a noi, perché fa parlare appunto il popolo e dà degli esempî di lingua parlata. Gli "scriptores rei rsticae", per la materia stessa che trattano, usano parecchi "volgarismi"; Petronio nel suo Satyricon ci dà un documento prezioso della vita romana nel primo secolo dopo Cristo e testimonianze importantissime della parlata popolare. Anche gli scrittori ecclesiastici, i quali piuttosto che alla forma guardavano alla sostanza e cercavano di farsi comprendere anche dai meno colti, sono fonti importantissime per la conoscenza del latino comunemente detto volgare; 2. i grammatici, specialmente quando parlano delle forme da evitare; 3. i lessicografi. P. es., quando l'Appendix Probi ci dice: "vetulus non veclus", ci indica che la gente incolta usava già la forma veclus, che è appunto alla base delle forme romanze (it. vecchio, rom. vechiu, ecc.); 4. le iscrizioni, dove, per causa dell'ignoranza degli scalpellini, troviamo parecchie testimonianze di fenomeni linguistici (p. es., la caduta di -m finale); 5. i manoscritti, con le incongruenze grafiche dovute ai copisti, sovente specchio di condizioni linguistiche diverse. Per es., il trovare padule accanto a palude(m), è più che una semplice svista; la forma padule esisteva già accanto a palude ed è affiorata alla mente del copista (da padule infatti deriva l'it. padule, il rom. pădure "bosco" ecc.); agustus per augustus c'indica una fase che sarà attestata poi da tutte le lingue romanze (it. agosto, fr. août, ecc.); 6. varie fonti diverse (note tironiane, diplomi, elementi latini passati in altre lingue, ecc.); 7. infine il vocabolario delle lingue romanze che ci permette di ricostruire, in molti casi, la fase precisa del latino comune, anche se essa non è attestata.

Un gran numero di parole erano usate tanto nel latino classico quanto in quello parlato (comune, volgare ecc.), con il medesimo senso; per es., canis, filius, mater. Ma accanto a questo gruppo di elementi immutati vi sono molti spostamenti. Per es., per "fuoco" il latino classico usava ignis, mentre focus significava "focolare". Il latino comune comincia a usare focus nel senso di ignis, e mentre ignis scompare dal vocabolario romanzo, focus rimane dovunque col nuovo senso acquistato (it. fuoco, rom. foc, fr. feu, sp. fuego, port. fogo). È impossibile determinare perché è scomparso ignis; ma in altri casi si possono fare delle illazioni. Tante volte la scomparsa di una voce è dovuta a ragioni di varia natura che si possono, con maggiore o minore probabilità, determinare. Per es., il latino conosceva la parola habena "redini"; essa è sconosciuta alle lingue neolatine, che sono invece d'accordo nel risalire a una base *retina (probabilmente formazione postverbale da retinēre): p. es., it. redini, a. fr. resne, fr. mod. rêne, sp. rienda ecc.). Perché habena è sparito? Probabilmente è scomparso perché la caduta di h e il passaggio postclassico di b intervocalico a v avevano trasformato habena in *avena, che veniva ad essere omofono con avena "avena". (parola rimasta nel romanzo: it. avena, fr. avoine, sp. avena, ecc.). L'omofonia era tanto più imbarazzante in quanto si trattava di due oggetti riferentisi ambedue al cavallo; uno dei due doveva scomparire ed è scomparso habena dinnanzi al nuovo termine *retina. Il problema della sostituzione delle parole è ora molto avanzato grazie ai metodi della geografia linguistica; J. Gilliéron (in collaborazione con J. Mongin) nel suo lavoro Scier dans la Gaule romane, Parigi 1905, giunge, p. es., alla conclusione che per "falciare" esisteva in Francia un'area compatta di tipo serrare, ma che questa è stata rotta in più parti e in molte regioni sostituita da continuazioni di secare, sectare, ecc., per causa dell'omofonia con serrare "chiudere".

Nella fonetica del latino comune e popolare si sono prodotti dei mutamenti di considerevole importanza. La quantità aveva per i Romani un valore capitale; la loro metrica era basata infatti sulla quantità; gli accenti avevano un valore secondario. In origine la differenza fra una vocale lunga e una vocale breve era probabilmente solo una questione di durata, ma più tardi le vocali lunghe cominciarono ad essere pronunziate come chiuse e le brevi come aperte; molti parlanti non sapevano più distinguere la quantità, p. es., quelli dell'Africa. Così a poco a poco il sistema delle vocali latine si riduce, in gran parte della Románia, come appare dal seguente schema:

Si è detto: in gran parte della Románia, e non in tutta, giacché p. es., il sardo conserva ancora la distinzione fra ē ed â e fra ō ed û, e il romeno e, in parte, l'antico dalmatico (nonché gli elementi latini dell'albanese), conservano la distinzione fra ō ed û (pur avendo ridotto â ed ). Delle nuove leggi di quantità si sovrappongono a quelle del latino classico; la posizione (sillaba chiusa) impedisce sovente il cammino di un'evoluzione fonetica; così, p. es., da parem (sillaba aperta o libera) l'ant. fr. ha per (con a > e), ma da partem (sillaba chiusa) > part, perché la posizione impedisce il mutamento a > e. Parimenti in italiano da ę, ǫ abbiamo i dittonghi ie, uo in sillaba libera, ma non in sillaba chiusa (piede, cuore, ma ferro, porta); tale principio non è generale perché la posizione che impedisce la dittongazione in italiano non la impedisce, p. es., in spagnolo (hierro, puerta).

Lo spostamento dell'accento provoca poi altri mutamenti; pe es. mulíerem del lat. class. diventa muli̯érem nel lat. volg. o parlato; i diventa dunque iod () e provoca nella maggior parte delle lingue romanze una speciale evoluzione del nesso li̯ (it. mogliera, romeno muiere, ecc.). Sovente uno, o una serie di mutamenti fonetici, provocano mutamenti morfologici e sintattici; così la caduta dello -m finale in tutta la Románia, e di -s in gran parte del dominio romano, provocava uno sfasciamento della declinazione. Il latino aveva una collocazione delle parole relativamente assai libera. Per es., il posto del soggetto non era necessariamente al principio della frase; si poteva dire tanto Petrus Paulum amat quanto Paulum Petrusamat; era impossibile scambiare il soggetto con l'oggetto per causa delle desinenze di declinazione. Ma quando queste scomparvero, la collocazione dovette divenire più rigida, i periodi più brevi, ecc. Nella morfologia scomparve la declinazione, di cui rimangono tracce solo in romeno e in antico francese e antico provenzale (in queste due ultime lingue la declinazione si era ridotta a bicasuale, nel romeno a tricasuale). Nel verbo i turbamenti sono anch'essi importanti; il passivo organico scompare ed è sostituito da forme perifrastiche (amor cede il posto ad amatus sum che perde il valore di perfetto e prende quello di presente), il futuro (cantabo) si perde e viene anch'esso formato perifrasticamente (cantare habeo, volo cantare, ecc.), ecc.

In conclusione, una gran parte dei mutamenti avvenuti nelle lingue romanze sono già attestati, per lo meno in germe, nel latino volgare. Abbiamo detto che le lingue neolatine sono quelle che continuano il latino (meno bene: derivano dal latino). Quali sono ora queste lingue?

Secondo F. Diez (v.), fondatore della linguistica romanza, avremmo solo sei lingue romanze e precisamente l'italiano e il valacco (= romeno) che formano la sezione orientale; il portoghese e lo spagnolo (sezione occidentale) e infine il provenzale e il francese (sezione di nord-ovest). Il catalano è riunito al provenzale. Il Diez considera unicamente le lingue che hanno avuto o hanno una letteratura; è un concetto piuttosto filologico che non può meravigliare data l'epoca. Più tardi Graziadio Isaia Ascoli (v.), nel primo volume dell'Archivio glottologico italiano (1873), ha cercato di fissare la posizione di un gruppo di parlate romanze che, secondo il suo parere, dovevano formare un' unità nel seno della Románia vogliamo dire il ladino. Ascoli riunisce sotto questo nome tre gruppi di dialetti separati geograficamente e cioè le parlate romancie dei Grigioni e dell'Engadina (che Diez conosceva col nome di Churwälsch), alcuni dialetti dell'Alto Adige e il friulano. Per fissare questa unità egli si è basato sulla presenza in tutti questi dialetti di un certo numero di fenomenti fonetici e morfologici che li separano e li caratterizzano dalle parlate vicine. Non è dunque più il concetto filologico della presenza o dell'assenza della letteratura, non è neppure il concetto, sempre piuttosto vago, della "coscienza dei parlanti" che induce alla formazione di un'unità linguistica, ma sono argomenti interni, esclusivamente glottologici. Qualche anno dopo, l'Ascoli ha anche tentato d'isolare un altro gruppo di parlate romanze: il franco-provenzale. Ascoli ha riunito in questo gruppo parecchi dialetti della Svizzera Romanda, della Francia orientale e della Val d'Aosta che non possono riunirsi né al francese né al provenzale, ma hanno caratteristiche proprie. È ben vero che contro l'indipendenza del ladino si sono elevati molti linguisti, specialmente italiani (C. Battisti, C. Salvioni, E. G. Parodi, C. Tagliavini, ecc.; v. ladini), e contro l'unità franco-provenzale P. Meyer; ma è altrettanto vero che il principio fissato dall'Ascoli s'impose e venne adottato anche in altri dominî linguistici, lontani da quello neolatino.

W. Meyer-Lübke, nella sua Einführung in das Studium der romanischen Sprachwissenschaft (3ª ed., Heidelberg 1920, p. 17), distingue 9 unità nella famiglia neolatina, che enumera seguendo l'ordine geografico da oriente a occidente: 1. romeno; 2. dalmatico; 3. retoromanzo; 4. italiano; 5. sardo; 6. provenzale; 7. francese; 8. spagnolo; 9. portoghese. Il catalano viene anche qui unito al provenzale, mentre vengono considerati come indipendenti il ladino (retoromanzo) sulle orme di Ascoli e Schneller, il dalmatico (la cui posizione era stata indicata dal Bartoli come intermedia fra l'italiano e il romeno) e il sardo. I criterî però non sono neppure qui positivi; ha, per es., il sardo sufficiente individualità per formare un gruppo a parte? E il dalmatico? La risposta a queste domande non può mai essere sicura. Infatti ogni classificazione è approssimativa e risponde piuttosto a un'esigenza del nostro spirito che a una realtà positiva (v. lingue, XXI, p. 203). Già H. Schuchardt in una sua lezione del 1870 (stampata solo nel 1900 col titolo: Über die Klassification der romanischen Mundarten) nega la possibilità di una classificazione del tutto scientifica dei dialetti romanzi. Anche basandoci sui criterî posti dall'Ascoli, e cioè su basi unicamente linguistiche, non arriviamo a segnare confini netti. Un confine sicuro non può essere che fra due lingue di carattere molto diverso; fra lingue appartenenti alla stessa famiglia, fra dialetti appartenenti allo stesso gruppo, il passaggio è, nella maggior parte dei casi, insensibile.

Le osservazioni dedotte in questi ultimi anni attraverso le ricerche di geografia linguistica, dimostrano che piuttosto che parlare di linee di demarcazione di un determinato fenomeno fonetico o morfologico si può parlare di "fasce" o "strisce" Per es., un esame delle carte dell'Atlante linguistico della Francia, condotto allo scopo di delimitare la zona in cui t diviene d e poi cade (caratteristica francese) o rimane d (caratteristica provenzale), ci mostra che nelle tre parole fr. roue: prov. roda; fr. couennem: prov. codena; fr. crier: prov. cridar, i punti non si ricoprono esattamente, quantunque le linee si dirigano nel medesimo senso e le variazioni siano limitate a un'esigua regione, ora più stretta ora più larga, che può essere appunto chiamata la "fascia di frontiera".

Senza voler pretendere di dare una nuova classificazione delle lingue romanze, che, date le premesse generali sopra esposte, avrebbe poi poca importanza metodica, possiamo dire che le lingue neolatine sono: 1. il romeno; 2. l'italiano (al quale si possono unire come unità minori coordinate, se pur non subordinate, il dalmatico, il ladino e il sardo); 3. il franco-provenzale; 4. il provenzale (ivi compreso il catalano); 5. il francese; 6. lo spagnolo; 7. il portoghese (ivi compreso il galiziano).

La materia con cui sono formate le lingue neolatine è principalmente latina perché, come si è detto, queste lingue non sono altro che la continuazione diretta del latino, in varie regioni dell'impero romano (e più tardi anche trasportate in altri luoghi, dall'espansione di nazioni parlanti lingue neolatine: per es., lo spagnolo e il portoghese in America, ecc.).

Il latino era una lingua giunta a un altissimo grado di perfezione per il merito dei suoi scrittori e perché rappresentava l'idioma di un popolo arrivato a un alto grado di civiltà; il suo vocabolario era così ricco come quello di poche altre lingue indoeuropee (eccettuati il sanscrito e il greco). Di questo grande tesoro di voci non tutte erano, come si è visto, popolari; molte sono scomparse senza lasciare traccia nelle lingue romanze. Ma d'altra parte il lessico del latino comune si arricchiva di molti altri elementi, sia formati con i suoi proprî mezzi, sia presi da lingue straniere. Ogni lingua ha in sé stessa i mezzi che le permettono di rinnovarsi e di evolversi; il latino e le lingue romanze hanno, in questo senso, una grande elasticità che permette loro un'infinità di formazioni nuove che arricchiscono il vocabolario. Le formazioni per mezzo di suffissi erano il principale mezzo di arricchimento del vocabolario; nella lingua familiare era frequente (come lo è anche ora, p. es., in italiano) l'uso di forme diminutive; e così genu ha lasciato il posto a genŏculus o genŭculus, ecc. Sulla base di parole aventi un determinato suffisso se ne formano infinite altre: p. es., su benevolentia, essentia, ecc., si formano *credentia, *sperantia, fragrantia, ecc.; con -ĕllus si formano porcellus, vitellus, ecc.; con -torium, -sorium si formano *caesorium, mensorium, missorium, oratorium, ecc. Per farci un'idea di questo progressivo arricchimento del lessico del latino parlato di fronte a quello del latino classico, basta studiare un determinato gruppo di concetti, cosa ormai agevole dati i numerosi lavori di onomasiologia che possediamo nel dominio romanzo. Prendiamo, p. es., le parole che designano il bambino, seguendo l'eccellente studio di Ivan Pauli, Enfant, garçon, fille dans les langues romanes (Lund 1919). Il latino conosceva le parole infans, puer, pupus (usato specialmente nella lingua infantile), pupillus, e raramente pusus, putus. Le lingue romanze hanno perduto solamente puer (del quale forse si conservano dei derivati diminutivi: puerulus nell'ital. burchio dato che l'etimo del Caix sia giusto, e puerunculus nel rom. prunc (secondo un'ipotesi molto attraente, ma difficilmente accettabile di S. Puscariu). Le forme delle lingue romanze, anche limitandoci esclusivamente a quelle che conservano la tradizione latina, sono molto più ricche e variate. Infans era usato in luogo di puer già da alcuni autori classici, p. es. Seneca, Dial., III, 13 "iracundissimi infantes senesque et aegri sunt"; è conservato nel dominio linguistico gallo-romanzo (fr. enfant), ibero-romanzo (sp. infante, infanta). In ital. infante è una voce dotta, ma fant, fante è comune a molti dialetti (fanciullo è probabilmente entrato nella lingua letteraria da una forma dialettale napoletana derivata dal diminutivo fanteolus).

Pupus, pupa era usato in latino abbastanza spesso per designare un bambino piccolo (Varrone dice "ac mammam lactis sugentem piscere pupum"); nelle lingue romanze troviamo pupa, tanto nel senso di "bambola" quanto di "bambina" su un territorio relativamente esteso che abbraccia quasi tutta l'Italia, la Rezia, il Giura bernese, la Lorena e la Vallonia; i derivati sono frequentissimi. Pupillus vive specialmente nell'Italia superiore (mil. pivell); pusus, che in latino significava "ragazzino" "nam vere pusus tu, tua amica senex" Varrone) non resterebbe che nel napoletano puse. Putus, che è un hapax del Catalepton di Virgilio ("me perdidit iste putus") si trova nel territorio italiano (putto, puttino, putel, ecc.). Ma accanto a questi nomi conservati più o meno nel loro senso primitivo, abbiamo una ricca serie di altri nomi pure di origine latina che designavano altre cose, ma hanno assunto il senso di "bambino": p. es. foetus designava solo il feto, ma in rom. făt, femm. fată "ragazzo, ragazza" il lat. fructus significava "frutto" (degli alberi, della terra ecc.) e solo per metafora il "piccolo" degli animali; in una parte del territorio romanzo ha preso il senso di "bambino" (friul. frut); creatus significava "procreato", ma in una piccola parte del territorio romanzo mostra il senso di "bambino" (p. es., comasco criat); musteus aveva il senso di "giovane, fresco" (cfr. la frase "utrum est melius virginem an viduam uxorem ducere? Virginem si mustea est") passa nello sp. mozo, port. moço "ragazzo". La creazione romanza è ancora più evidente nei casi seguenti: comel. reßu "bambino", da heredem, heres; familia in romeno passa a designare la donna (femeie; in origine la madre con i figli) e in albanese designa il bambino (fëmí, fumí, fmí). E questi esempî si potrebbero moltiplicare. Per designare l'alveare le lingue neolatine usano voci derivate da non meno di dodici basi (alveu, cavu, vasu, buttia, cupa, capsa, *rusca, cippu, apiariu, *captoria, ecc.). Questo c'indica una delle principali fonti di ricchezza del lessico delle lingue romanze.

Ma nel corso dei secoli il latino si è andato modificando e, per i rapporti avuti con molti altri popoli, ha assunto anche elementi nuovi. Del resto il latino medesimo, come ogni lingua, aveva già assimilato, nel corso del suo sviluppo storico, un certo numero di elementi stranieri. A parte quelli che erano entrati già in epoca antica e che erano divenuti pan-latini, è naturale che il latino delle singole regioni dell'impero non potesse esimersi dall'assumere elementi derivanti dalle lingue alle quali si veniva sovrapponendo. Nelle lingue romanze restano tracce di questi elementi dialettali, già assimilati dal latino, e restano anche tracce dell'influsso esercitato dalle lingue preesistenti.

I romanisti chiamano "influsso del sostrato" l'influsso derivante dalle lingue preromane sul latino e sul romanzo. G. I. Ascoli chiamò il fenomeno col nome di "reazioni etniche". Non è sempre facile scindere gli elementi preromanzi dagli altri; p. es., ogni osservatore superficiale potrebbe credere che il nome del Monte Rosa derivasse dal nome del colore "rosa" (tanto più perché abbiamo poco distante il Monte Bianco). P. E. Guarnerio ha potuto invece dimostrare che il nome del Monte Rosa non ha nulla a che vedere col nome del colore rosa, ma rispecchia una forma preromanza che vive nei dialetti franco-provenzali sotto le forme ruise, ruiza, reuse, rosa col senso di "ghiacciaio". È poi troppo vago designare con preromanzo ogni elemento anteriore alla conquista romana perché abbiamo a che fare con elementi molto diversi. Già l'Ascoli attirò l'attenzione dei dotti su alcune parole del lessico romanzo che presentavano caratteristiche fonetiche le quali escludevano senz'altro una provenienza latina (p. es. una f intervocalica). Tante volte abbiamo anche dei doppioni (allotropi): la forma dialettale italica vive nel latino stesso accanto alla voce veramente latina; così vive nel latino scrofa accanto a scroba. Il fatto stesso che scrofa si trova anche nel rom. scroafă, dimostra che questo elemento dialettale (già attestato presso Aulo Gellio) viveva nel latino già all'epoca in cui si è formata la latinità balcanica. Ma se noi troviamo nel friul. cufarsi e forme simili in altri dialetti italiani, dobbiamo ammettere l'esistenza nel latino, per lo meno d'Italia, di una forma dialettale italica *cufare, che deve aver vissuto accanto alla forma veramente latina cubare. Parimenti da sibilare, subilare, abbiamo il fr. ant. subler; ma il franc. mod. siffler, it. zufolare, sp. chiflar, ecc., risalgono a forme con f intervocalica (sifilare, sufilare). L'osco rispondeva a un nd del latino con nn (p. es. upsannam = operandam); i dialetti dell'Italia centro-meridionale presentano la stessa tendenza (monno - mondo); è possibile che si tratti di un influsso del sostrato; così pure l'aspirazione (gorgia) toscana potrebbe essere, con molta verosimiglianza, dovuta a un influsso del sostrato etrusco, tanto più che l'area della gorgia toscana corrisponde molto bene all'estensione territoriale etrusca. Parimenti molti linguisti hanno attribuito al sostrato celtico il passaggio di u in ü nel francese e nei dialetti gallo-italici. Ora vi sono parecchi glottologiche negano questi influssi del sostrato con varî argomenti. G. Rohlfs, p. es., respinge l'origine etrusca della gorgia toscana, adducendo l'argomento che se fosse un fenomeno etrusco dovrebbe essere anteriore alla palatalizzazione romanza e dovrebbe quindi esistere anche dinnanzi a vocali palatali (quindi nel toscano secondo il Rohlfs si dovrebbe trovare helo e non šelo da coelum); il Meyer-Lübke respinge l'origine celtica del passaggio di u in ü in base a molti argomenti, alcuni dei quali veramente probanti.

Ma anche non ammettendo la continuità di detti fenomeni (che per es. nel caso di u > ü si può quasi sicuramente escludere), la linguistica moderna ammette che vi sono certe tendenze, specialmente fonetiche, le quali si possono ereditare e ritornano a distanza di parecchie generazioni. Per es., noi sappiamo che i popoli romanzi hanno generalmente trasformato il nesso tl del latino (in generale frutto di una caduta di vocale atona) in cl, perché tale nesso era sgradito; p. es. vetulus è diventato vetlus e poi veclus (e di qui le forme romanze). Noi vediamo che tale tendenza, a distanza di molti secoli, si ripete negli elementi che il romeno ha preso dall'ungherese; hitlen dell'ungherese diventa viclean. Non si può poi negare l'influsso del sostrato nel lessico, specialmente in quella parte del vocabolario che si riferisce alla configurazione del terreno, nomi di piante, ecc., quella parte insomma che si riferisce a una vita primitiva e che più difficilmente cambia denominazione. Noi troviamo molte parole sicuramente preromanze in tutte le lingue neolatine (cfr. A. Bertoldi, Problèmes de substrat, in Bulletin della Société de linguistiqite de Paris, 1932, con bibl.; Cl. Merlo, Il sostrato nei dialetti italiani, in Italia dialettale, X, 1934, p. 1 segg.).

Un nucleo importante di voci entrarono nel lessico romanzo attraverso i numerosi rapporti coi popoli germanici.

La lotta del mondo romano con quello germanico è cominciata ben presto. La suprema aspirazione dei Germani era di costituire un impero germanico che avesse sostituito quello romano. Il re visigoto Ataulfo, secondo quanto affermava Paolo Orosio, diceva: "se imprimis ardenter inhiasse, ut obliterato Romano nomine, Romanorum omne solum Gothorum imperium et faceret et vocaret, essetque... Gothia quod Romania fuisset" (Hist. adv. paganos, VII, 43). I rapporti linguistici fra i Romani e i Germani erano cominciati però già molto tempo prima, sulle sponde del Reno, al tempo di Cesare. Ma i Germani, come popolo di cultura inferiore alla romana, avevano ricevuto ben più elementi latini di quanti elementi germanici avessero potuto dare. È solo più tardi che con la fusione dei Germani nell'impero romano, con la frequenza di Germani nell'esercito mercenario ormai arruolato dall'impero, ecc., le lingue germaniche cominciano a esercitare un influsso considerevole. Vi sono elementi germanici che entrano già nel latino, prima del quinto secolo (fra sicuri e dubbî circa 400); essi sono stati studiati da J. Brüch (Der Einfluss der germanischen Sprachen auf das Vulgärlatein, Heidelberg 1913); sono in parte attestati da scrittori latini e in parte attestabili con la ricostruzione linguistica; p. es., l'ital. uosa, sp. huesa, ant. fr. huese, ecc., devono risalire a un latino volgare hǫsa con ǫ aperta (che è attestato da Paolo Diacono); il gotico ha huzd e da un u non avremmo potuto avere in sp. ue, it. uo, ecc. Il romeno è la sola lingua romanza che non presenti degli elementi germanici antichi; parecchi studiosi (Löwe, Diculescu, ecc.) si sono provati a dimostrare la presenza di elementi germanici antichi anche in romeno, ma le loro argomentazioni sono state respinte. Lo spagnolo e il portoghese sono le lingue romanze occidentali che hanno meno elementi germanici, perché in Spagna non vi furono altro che i Visigoti e gli Svevi; la presenza di un elemento germanico nello spagnolo e nel portoghese dimostra dunque la relativa antichità di estensione di una parola germanica. Per il francese e per l'italiano il problema degli elementi germanici è complicato dalle differenti ondate di popoli germanici che vennero in Francia e in Italia e dai numerosi rapporti commerciali. Così per il francese abbiamo circa sei strati differenti: 1. parole entrate già in latino volgare (p. es. jante); 2. parole franche nel nord della Gallia (e visigote o burgunde nel centro); 3. parole antico-frisoni, antico-alto-tedesche (bord); 4. parole nordiche, anglo-sassoni e antico-olandesi; 5. parole medio-inglesi, medio-tedesche e medio-olandesi; 6. parole introdotte dopo il 1600. Per l'italiano abbiamo parecchi criterî che ci permettono di distinguere gli elementi gotici da quelli longobardi e franchi; p. es., l'it. palla col suo p- iniziale (cfr. invece fr. balle) dimostra una sicura origine longobarda; altrettanto l'it. bara col suo a (dal protogerm. ē; cfr. got. e).

Gli Arabi che entrarono in Spagna già nel sec. VIII e vi rimasero fino alla caduta di Granata, che conquistarono la Sicilia al principio del sec. IX e vi rimasero fino alla venuta dei Normanni, ebbero un notevole influsso sul lessico romanzo, come sulla cultura iberica e siciliana.

L'influsso arabo si è esercitato specialmente sul lessico; una gran parte degli elementi arabi sono limitati alla Penisola Iberica e anche quando li troviamo pure in francese e in italiano sono quivi passati dalle lingue della Penisola Iberica; nella fonetica mostrano, come ha messo in evidenza recentemente A. Steiger, un carattere che li ravvicina alle forme dei dialetti arabi magrebini. Fra gli elementi arabi proprî delle lingue della Penisola Iberica possiamo citare: sp. aceite "olio" 〈 ar. az-zait "olio, oliva"; sp. alcalde 〈 ar. al-qādi "giudice". Comuni anche all'italiano sono darsena (e sotto altra forma arsenale, ven. arzana) 〈 ar. dār aṣ-ṣināha "casa di costruzione"; avaria 〈 ar. ‛awar "vizio, difetto" (con aggiunta del suff. -ia dei nomi astratti). Risalgono poi all'arabo molte delle denominazioni riferentisi alla matematica e all'astronomia.

Una posizione tutta speciale nello svolgimento del lessico ha avuto il romeno, isolato nell'Oriente europeo; ivi non troviamo né elementi germanici, né arabi, ma molti elementi slavi, greci, turchi, ungheresi, neoellenici, ecc.

Bibl.: Fra i numerosi lavori dedicati ai principianti e destinati a dare una idea della linguistica neolatina sono specialmente raccomandabili: P. Savj-Lopez, Le origini neolatine, Milano 1920 (con bibl. fino al 1919); E. Bourciez, Éléments de linguistique romane, 2ª ed., Parigi 1923; A. Zauner, Romanische Sprachwissenschaft, Berlino-Lipsia 1921 (4ª ed.; esiste una trad. italiana di G. B. Festa sulla prima ed. tedesca: Glottologia romanza, Milano 1904); G. Bertoni, Programma di filologia romanza, Ginevra 1922; W. Meyer-Lübke, Einführung in das Studium der romanischen Sprachwissenschaft, 3ª ed., Heidelberg 1920 (importantissimo, ma non adatto ai principianti); Iorgu Iordan, Introducere în studiul limbilor romanice; evoluţia Şi starea actuală a linguisticii romanice, IaŞi 1932. Fra le grammatiche comparate delle lingue neolatine v.: F. Diez, Grammatik der romanischen Sprachen, voll. 3, 5ª ed., Bonn 1876-77 (i primi volumi hanno solo un interesse storico, essendo superati da ricerche ulteriori, il terzo deve essere consultato anche oggi); W. Meyer-Lübke, Gramatik der romanischen Sprachen, Lipsia 1890-1901 (fondamentale: esiste anche una traduzione francese sotto molti aspetti migliore dell'originale tedesco perché riveduta dall'autore e perché provvista di un indice di gran lunga più completo: Parigi 1891 segg.). Fra i dizionarî comparativi delle lingue romanze: F. Diez, Etymologisches Wörterbuch der romanischen Sprachen, 5ª ed., Bonn 1887 (con un indice di J. U. Jarník, Heilbronn 1889; per quanto in gran parte superato si deve consultare ancora); G. Körting, Lateinischromanisches Wörterbuch, 3ª ed., Paderbonn 1907 (superato); W. Meyer-Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1911-1920 (fondamentale, sta ora uscendo la terza edizione completamente rifatta, Heidelberg 1930 segg.). Fra le opere generali è indispensabile: Grundriss der romanischen Philologie, a cura di G. Gröber, I, 2ª ed., Strasburgo 1904-06, che contiene tutta una serie di preziose monografie. Molte riviste si dedicano alla filologia romanza; ricorderemo: Zeitschrift für romanische Philologie, fondata da G. Gröber (dal 1877); Archiv für das Studium der neueren Sprachen, fondato da L. Herrig e H. Viehoff (dal 1846); Archivum Romanicum (fondato e diretto da G. Bertoni: dal 1917); Romania, fondata da G. Paris e P. Meyer (dal 1872); Archivio glottologico italiano, fondato a G. I. Ascoli (dal 1873); Romanische Forschungen, fondate da K. Vollmöller (dal 1882); Revue de linguistique romane (dal 1925), ecc. Tutta la bibliografia della romanistica dal 1890 al 1913, si trova nel Kritischer Jahresbericht über die Fortschritte der romanischen Philologie, ed. da K. Vollmöller, 1890-1915, che la guerra mondiale ha interrotto. Per la bibliografia relativa alle singole lingue romanze vedi i relativi articoli dell'Enciclopedia Italiana.

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