LIRICA

Enciclopedia Italiana (1934)

LIRICA

Vittorio SANTOLI
Vittorio SANTOLI

Ciò che diciamo lirica fu in origine poesia destinata a essere cantata con l'accompagnamento d'uno strumento, e da uno strumento postomerico, la lira (λύρα), ha preso nome. Il termine di lirica è tardo, ellenistico, comparendo la prima volta nella Grammatica di Dionisio Trace; press'a poco contemporanea è la parola λυρικός, usata da Didimo nello scritto περὶ λυρικών, e passata quindi presto in latino. Fino all'età ellenistica i Greci dissero μέλη ciò che noi comprendiamo sotto il nome di lirica, la quale non costituì per loro un genere ben distinto: Aristotele non ne parla mai esplicitamente; Platone, accanto al genere espositivo e al mimetico, menziona un genere "misto", privo di carattere proprio, in cui rientrerebbero i carmi lirici; più tardi i grammatici revocarono in dubbio la distinzione del genere misto dall'espositivo, e intesero piuttosto farne un genere duplice, contrapposto al drammatico. Riferendoci alla Grecia dobbiamo, dunque, tener presente che le composizioni che noi diciamo liriche - e che derivarono le loro forme dall'epopea o da carmi popolari destinati al culto di dîvinità agresti quali Dioniso e Demetra - sono accompagnate da uno strumento, sia a corda (κίϑαρις, ϕόρμιγξ) sia a fiato (αὐλός), cantate o da uno solo o da un coro. A questi caratteri, che distinguono la lirica antica dalla moderna (destinata di solito alla lettura), si aggiunga l'altro, che la lirica antica ha un carattere prevalentemente dialogico, il quale l'avvicina alla forma drammatica; che in essa l'"individualità" del sentimento del poeta singolo è molto meno accentuata che nella lirica moderna.

I primi accenni a una determinazione del genere lirico sono, dunque, tardi, e a differenza dalle teorie dell'epopea e più ancora del dramma, poco importanti: bisogna scendere non tanto al Rinascimento quanto al Sei, al Sette e all'Ottocento per trovare, oltre all'uso corrente del termine lirica, degli elaborati tentativi di definire una classificazione, che, come tutte le classificazioni, se rende dei servigi nella pratica e aiuta alla descrizione, è inetta a costituire un concetto, ad assumere un valore scientifico, conoscitivo. In realtà, tutte le definizioni che sono state date della lirica peccano o di estrinsecità e d'insufficiente estensione oppure di genericità.

Il più rigoroso critico dei generi letterarî, B. Croce, ha trasportato il termine di lirica dalla classificazione empirica alla sintesi estetica: lirica è il motivo da cui sorge la poesia, "la passionalità, il sentimento, la personalità che si trovano in ogni arte".

Ai nostri giorni lirica serve nel discorso comune a designare da una parte ancora certe forme (come elegia, epigramma, poesia giambica, citaredica, melica, corale; canzone, sonetto, madrigale, strambotto, stornello, Lied, ecc.) usate in componimenti di solito brevi o brevissimi; dall'altra, psicologicamente, il prevalere, in un determinato componimento letterario (che può anche essere in "prosa") o in parti di esso, di un accento più direttamente affettivo, emotivo, sentimentale; l'espressione di un particolare, momentaneo stato d'animo colto in un certo tono o in una certa sfumatura di tono e reso, avendo riguardo a questa pura emozionalità, intimità e tonalità, servendosi al minimo di elementi e di mezzi di stile realistici, dissolvendo a ogni modo il realismo a essi inizialmente connesso; ricorrendo invece, in misura talvolta amplissima, a elementi musicali (non di rado calcolati direttamente in vista del canto e della musica), destinati a trasportare appunto in un'atmosfera "irreale" di pura soggettività. In questa moderna accezione psicologica il significato di genere letterario, inizialmente e per secoli connesso al termine di lirica, viene sostanzialmente infranto o, almeno, notevolmente alterato: rientrano nella lirica opere o parti di opere che formalmente ne sembrano lontanissime, mentre ne vanno esclusi moltissimi componimenti i quali, da un punto di vista meramente formale, sembrerebbero rientrarvi di diritto.

Antichità classica. - La lirica, come la musica greca, è di origine egea e minoica, e in Omero già si hanno cenni di canti lirici, peani in onore di Apollo, treni o lamentazioni funebri. E tra i più antichi generi di poesia lirica furono certo gl'inni agli dei, di cui abbiamo una notevole raccolta, di varî tempi, negl'Inni omerici, gl'imenei o canti nuziali, canti religiosi rustici, come gli "ailinoi" in cui si piangeva la morte di Lino ferito da Apollo.

Ma nell'età più antica gl'ingegni artistici piuttosto si volsero verso l'epopea che meglio corrispondeva allo spirito del tempo. Solo quando si fece più potente il senso dell'individualità ed ebbe inizio un'arte di carattere più soggettivo, degradando ormai gli sfondi grandiosi dell'epos, mentre d'altra parte sempre più si sviluppava e si organava la polis e cresceva il bisogno di dare esposizione artistica a determinati oggetti del culto o di solennità civiche, nel sec. VIII, prende forma artistica predominante la lirica. Le occasioni del lirismo divengono sempre più numerose, acquistano un valore non più solamente cittadino, ma panellenico (particolarmente con i giuochi atletici) e formano uno spirituale legame artistico e culturale fra le diverse stirpi e città. La musica si arricchisce e si perfeziona, si formano distinti tipi musicali e lirici.

La poesia lirica propriamente detta si designa con un nome comune, melica, da μέλος "canto", per opposizione al λόγος "linguaggio" espositivo non cantato. E la melica alla sua volta si distingue in due specie, corale e monodica, a seconda che viene cantata dal coro, per lo più con accompagnamento della danza, o da una sola voce.

Nella grandissima fioritura dei generi lirici che si ebbe in Grecia, il più antico è il nomos, di carattere religioso, cantato come a solo e che prese varie denominazioni e caratteri. Secondo la tradizione, lo portò a perfezione d'arte Terpandro. Altre forme liriche (oltre quelle impropriamente liriche, come l'elegia, il giambo, l'epigramma per cui vedi le voci relative) sono gli scolî, canti conviviali, l'imeneo, il treno, il peana, già ricordati, l'iporchema accompagnato da danze vivaci di tripudio, il ditirambo con coro circolare, destinato particolarmente al culto e alle feste dionisiache, l'encomio o canto del banchetto, che si viene poi a confondere con l'epinicio o ode trionfale, o con lo scolio, breve canto conviviale, il partenio, cantato da un coro di vergini, di origine eolica o dorica, ché in quelle stirpi la donna prende parte alle solennità civiche.

Poesia monodica. - Sorge in Lesbo e forse, in origine, dagli scolî di Terpandro. Ma i suoi veri maestri sono Saffo, Alceo, Anacreonte. Il lirismo di Alceo è franco, di accento robusto, impetuoso, lo vena qua e là la riflessione, ma d'una venatura leggiera; prorompe invece presto in impeto di passione e di ardire.

L'ode monodica ha metri meno vasti e complessi dell'ode corale; è monostrofica e talora tutta di un sol tipo di versi. Alcune strofe, l'alcaica e la saffica, come anche il verso che prese poi nome di asclepiadeo, ma che era già usato dai poeti lesbici, rimasero famose. Il dialetto è il lesbico, con qualche screziatura epica, semplice, vario di espressione e di musicalità. Saffo è la più ricca di questi temperamenti poetici, per la modernità del suo sentimento, per la mirabile virtù musicale del suo verso. Con Anacreonte la mollezza ionica prende il sopravvento. Anacreonte ha un carattere più mondano; è sensuale, malizioso, leggiero; senza però giungere mai al tono un poco frivolo e lezioso delle anacreontiche, poesie di età alessandrina e romana che ad Anacreonte furono poi falsamente attribuite.

Lirica corale. - La lirica corale si designa spesso come lirica dorica; ma, sebbene derivi massimamente dallo spirito dorico e sia stata per lo più composta per gente di stirpe dorica, è opera di poeti non dorici. Dorico è lo spirito di quest'arte che esalta sentimenti e solennità di carattere specificamente civico, e che si oppone allo spirito individualistico che si era già venuto svolgendo nella Ionia e tra gli Eoli. I Dori dovevano avere antichi canti religiosi, che si sono perduti; ma per corrispondere ai nuovi bisogni della nuova età essi chiamarono poeti e musici di altre genti che compensassero quella mancanza di fecondità artistica che era generale presso le stirpi doriche. Essi chiamarono (verso il 676) Terpandro, un lesbico di Antissa, che è il primo lirico corale di cui sia rimasto qualche frammento. Il dialetto delle sue poesie, come di tutta la lirica corale, è di tonalità dorica, ma si trovano degli eolismi e talora ionismi, ché eolico era stato l'inizio della poesia lirica, ed eolico era Terpandro, mentre poi la Ionia era stata la patria della grande poesia epica di cui tutta la poesia greca sente l'influsso. Altro straniero che poetò per i Dori è Alcmane di Sardi, del principio del sec. VII. La sua opera era ricca di tipi e di forme: inni, peani, iporchemi, scolî. Ma più celebrati erano i suoi partenî. A questo canto, grave e dolce insieme, ora solenne, ora di grazia sorridente e maliziosa, Alcmane diede un'arte mirabile che restò modello ai venturi. Arione invece è il maestro del ditirambo come Ibico dell'encomio, e Stesicoro sarà dell'inno eroico, nelle larghe forme triadiche della strofa, dell'antistrofe e dell'epodo. Ma soprattutto in Stesicoro è un nobile carattere mitico narrativo. Grandi maestri della lirica corale furono Simonide di Ceo, ionico, arguto, ricco di riflessioni ardite e di risalti passionali, grande celebratore di vittorie agonali, famoso pure per i suoi encomî e i suoi treni; e Pindaro, il rivale di Simonide, che è il massimo dei lirici greci e il solo di cui ci è rimasta una parte assai notevole dell'opera. La sua educazione fu prevalentemente di spirito dorico. Egli del dorismo sente le tradizioni più profonde e nel primo tempo dovette essere in antagonismo con lo spirito ionico-attico che cominciava la sua ascesa. Se a noi la tradizione romano-bizantina solamente conservò le odi agonistiche, quasi tutti i generi della lirica egli trattò e a tutti impresse l'impronta del suo genio molteplice e dominatore. Il suo lirismo è grave, religioso, ha un senso profondo e nobile della vita, dei suoi doveri, della sua grandezza e delle sue limitazioni. Però nei generi lirici più leggieri, come nello scolio, l'arte di Pindaro ha una freschezza mirabile. Meno grande e possente è il lirismo di Bacchilide, sebbene abbia una sua grazia adorna e delicata. Minori poeti sono Laso di Ermione, Corinna, Lamprocle. Nell'età attica prevale il ditirambo; tale genere poetico si svolse con un particolare virtuosismo musicale che sopraffece la parola, la quale diventa perciò secondaria. Poeti ditirambici sono specialmente Filosseno e Timoteo.

Lirica alessandrina e greco-romana. - Con l'età alessandrina incominciano a mancare quei motivi distinti, e per lo più civici, da cui era nata l'arte e la poesia. Questa prende carattere sempre più individuale e libresco. I generi letterarî si fondono fra loro (è per esempio assai significativo che Callimaco scriva in metro elegiaco l'epinicio per una vittoria agonale di Sosibio), sì che è difficile talora distinguere la lirica pura dall'epigramma, dalla bucolica, dal mimo, ecc. Purtroppo poi i documenti di questa lirica sono in massima parte perduti per noi. Lirici o melici sono detti poeti e poetesse, come Asclepiade, Anite, Miro e varî altri di cui a noi non sono rimasti che epigrammi (v. perciò epigramma). Poesie meliche composero i più grandi poeti di questa età, come Callimaco e Teocrito; ma di Callimaco sono rimasti solo frammenti di μέλη. Di Teocrito rimasero due canti melici amorosi, in dialetto e metro eolico. Essi, più che vere imitazioni di canti eolici di Alceo o di Saffo, sono ricreazioni, secondo lo spirito dei tempi nuovi, non senza grazia e penetrazione di sentimento. Ma non possono venire in competizione con i canti bucolici, con i suoi mimi rustici o borghesi, che, pur non appartenendo al genere melico, sono le creazioni più liriche e musicali della poesia alessandrina (vedi soprattutto il I, il II e l'XI idillio) e, per qualche rispetto, di ogni tempo. Inni composero Callimaco e Teocrito; quegli con un carattere più erudito, questi con più risalto drammatico ed efficacia narrativa. I minori lirici dell'età , Aessandrina, come Isillo d'Epidauro, Macedonio, Aristonoo, Filodamo, composero poesie rituali, gravi e opache di fattura e prive d'ispirazione. Un ottimo esempio di poesia rituale, ricca di bellezza, sia pure nella sua tonalità alessandrina, è invece il canto di Adone nelle Siracusane di Teocrito (idillio XV). Nella tarda età imperiale riprende qualche parvenza di vita la lirica filosofico-religiosa, con gl'inni di Sinesio e di Proclo, d'ispirazione neo-platonica o cristiana. Poesia lirica bizantino-cristiana è quella dei Melodi, fra cui particolarmente degno di nota è Romano.

Lirica latina. - Canti lirici di varia natura ebbe certo il popolo romano sin dalle origini, canti religiosi, nenie (canti funebri), canti conviviali. Lo spirito satirico del popolo si sfogò particolarmente nei carmi trionfali, o nei fescennini nuziali. Ma di tutti questi nulla, o quasi nulla, è rimasto. Il verso era per lo più il saturnio, che dominò fin che poi prevalse la ricca polimetria greca. Elementi lirici appaiono nella nuova letteratura ellenizzante, nei cantica della tragedia e della commedia. Particolarmente ricca è la polimetria di Plauto e vivaci e arguti i suoi cantici. Per la lirica religiosa abbiamo notizia di un inno scritto da Livio Andronico in onore di Giunone. Ma una lirica indipendente non sorge se non con i poeti nuovi della fine della repubblica. Essi riprendono il lirismo eolico classico e quello ellenistico con uno spirito nuovo; e, in Catullo con una intimità di vita, un impeto e una naturalezza passionale, una varietà di motivi, che fanno della poesia di Catullo la più moderna espressione dell'arte romana. L'imitazione greca comincia con Levio, poeta di canti d'amore su modello ellenistico, ma il circolo di Catullo è più artistico. Vi appartennero Valerio Catone, che fu il maestro di poesia di parecchi di questi giovani, Licinio Calvo, Elvio Cinna, Furio Bibaculo. Del solo Catullo è rimasta l'opera, forse quasi completa. Contiene brevi poesie (nugae) tra la lirica eolica e l'epigramma ellenistico, con predominio di metri cari ai poeti ellenistici. Piccole poesie del tipo catulliano sono nella Appendice virgiliana. Alla grande tradizione lirica e ai metri eolici si riattacca Orazio, per quanto con un'intonazione nuova. Ma con Orazio la grande lirica s'inizia e quasi si conclude. Nell'età imperiale prevale l'elegia, la satira e l'epigramma. Un puro nome si può dire è per noi Cesio Basso, lirico dell'età neroniana; poesie del tipo catulliano compose Plinio il Giovane, ma non ci sono giunte; mediocri sono le Selve di Stazio. Nuova ispirazione prende la lirica con il cristianesimo. Inni religiosi scrissero Ilario di Poitiers, S. Ambrogio, Prudenzio, Claudiano Mamerto e altri.

Edizioni e traduzioni: I frammenti della lirica greca furono raccolti da Th. Bergk, Poetae lyrici graeci, 4ª ed., Lipsia 1878, raccolta che non fu ancora rifatta interamente. In parte la sostituisce l'Anthologia Lyrica Graeca di E. Diehl, Lipsia 1922-1925. Per la poesia alessandrina v. anche Powell, Collectanea Alexandrina, Oxford 1925. Cfr. L. A. Michelangeli, Frammenti della melica greca da Terpandro a Bacchilide, Bologna 1889-1897. Una scelta con commento destinato alla scuola ne fece A. Taccone, Torino 1904, la più recente scelta è quella di B. Lavagnini, Nuova antologia dei frammenti della lirica greca, Torino 1932.

Bibl.: Per i frammenti dei lirici latini v. i Poetarum Romanorum fragmenta del Baehrens, rifatta, in parte, da W. Morel (Lipsia). V. anche la bibliografia dei singoli poeti (bacchilide; catullo; orazio; pindaro; ecc.).

Per le traduzioni v. G. Fraccaroli, I lirici greci, Torino 1910-1913, con introduzioni ai singoli autori e commenti. Una raccolta delle liriche d'amore tradotte è in E. Bignone, Eros, il libro d'amore della poesia greca, Torino 1921. E. Romagnoli ha tradotti con bella introduzione e commenti (Bologna 1932) i frammenti di Terpandro, Alceo, Saffo. E. Big.

Età moderna. - La prima grande lirica della nuova civiltà succeduta all'antica è la provenzale, la quale toccò motivi molteplici, ma venne poi restringendosi sempre più alla celebrazione della donna, all'espressione della passione amorosa intellettualizzata; e fu eminentemente culta, ambiziosissima di raffinatezze formali. Questa perfezione d'arte innalzò la provenzale a modello di tutta la lirica europea: Italiani, Catalani, Spagnoli scrissero in provenzale, tanto che in Catalogna fino alla metà del sec. XIII tutta la poesia fu provenzale, e della provenzale fu imitatrice la più antica lirica italiana; Dante stesso stette a lungo alla scuola dei maestri occitanici, l'influenza dei quali si estese fino ai paesi tedeschi del Reno e del Danubio: il Minnesang presuppone l'arte trobadorica. La quale "raccolse in sé, affinò con l'arte antica e sostituì, erigendosi a supremo modello" (B. Croce) quegli che fu chiamato il primo poeta moderno, F. Petrarca, nella cui poesia domina infatti il sentimento amoroso vissuto nei suoi varî e insieme congiunti aspetti di desiderio e fantasticheria, melanconia e tristezza: una forma di sentimento che fu fondamentalmente ignota agli antichi e corre invece, diversamente variata, attraverso tutta la poesia moderna. Per aver dato espressione a questo sentimento e per lo splendore di uno stile letterariamente elegantissimo, il Petrarca fu maestro di tutta l'Europa civile nella lirica d'arte per almeno tre secoli. In Italia, dove gli ultimi anni del Quattrocento avevano visto - per l'opera del Poliziano e del Magnifico - un innalzamento ad arte culta di forme popolari, lo studio della lirica petrarchesca divenne dominante, principalmente per l'influenza del Bembo, nel Cinquecento, mentre nella successiva età barocca trovarono largo svolgimento le sottigliezze intellettuali di quella lirica, la cui artistica compostezza attrasse d'altra parte nuovamente, nel sec. XIX, poeti quali Leopardi e Carducci.

Con l'umanesimo nacque, anche, in Italia una lirica in latino, la quale ebbe, come l'umanesimo, circolazione europea, fiorì nei Paesi Bassi e trovò larga imitazione in Germania. Essa fu poi sostituita da una lirica meramente di scuola.

La lirica barocca riflette - almeno in Italia, Spagna e Germania - i caratteri generali del gusto dell'epoca: la ricerca dell'ingegnoso e del sorprendente. All'ingegnosità barocca tenne poi dietro un movimento di ricercata semplicità, la sazietà dell'artificio generando il desiderio dell'ingenuo, il raffinamento arido portando a far vagheggiare il fanciullesco. Si ebbe così tra la fine del Seicento e fin dopo la metà del Settecento una fiorita di poesia idillica pastorale e galante (che in Italia prese il nome di Arcadia), fanciullezza senile di una civiltà poetica ormai esaurita, semplice scuola letteraria e giuoco di società. La dissoluzione della lirica "classica" fu proseguita, e l'introduzione di un nuovo contenuto affettivo-sentimentale effettuata, principalmente in Inghilterra e, quindi, negli altri paesi germanici (ma in parte sotto l'influenza del Rousseau), verso e dopo la metà del sec. XVIII, per opera di quei letterati che oggi diciamo "preromantici", presso i quali il gusto idillico della campagna, oppure quello nuovo della natura selvaggia e alpestre, l'esaltazione della vita semplice e delle virtù domestiche e civili, il vagheggiamento, avvolto di veli leggendarî e misteriosi, delle antiche memorie patrie, particolarmente medievali, della mitologia celtica e scandinava, dei modi popolari e popolareggianti, la superiorità accordata all'immediatezza di fronte alla riflessione e alla ragione si tradussero letterariamente in un lirismo approssimativo, nel quale i valori costruttivi e generalmente estetici scomparvero quasi sempre dinnanzi alla piena di un sentimento patetico e (come notava lo Schiller) tutt'altro che ingenuo, il quale si compiacque spesso melanconicamente del lugubre, dell'orrido e del funereo, si sentì a suo agio in mezzo alle tombe, alle tenebre e alla notte, e per questa sua artificiosità trapassò quasi sempre e senza sforzo alla riflessione moralizzante, tanto comune nel Settecento. Da questa artisticamente debole letteratura si distingue nettamente la grande lirica d'arte della successiva età romantica, in cui primeggiano Goethe e Foscolo, Manzoni e Leopardi, Coleridge e Wordsworth, Shelley e Keats, Hölderlin e Vigny, e altri loro affini, i quali nella loro opera si rifecero, sì, talvolta, per attingerne freschezza, a forme popolari, ma restaurarono un'arte che, almeno nei suoi momenti più alti, congiunse la spontaneità e la perfezione formale, e fu quindi insieme romantica e classica.

Liberazione della personalità, dell'individuo, e quindi epoca eminentemente lirica, fu il romanticismo, il quale costituisce, inteso largamente, l'ultima grande età letteraria dell'Occidente. Per il suo carattere e la sua ampiezza è impossibile enumerare, sia pure schematicamente, i varî toni e le forme della lirica romantica, la quale celebrò la libertà in tutti suoi aspetti (politici, sociali, morali), volle esprimere tutte le profondità e i misteri del sentimento, fu effusione dell'io (degenerata spesso nel sentimentalismo e, nel desiderio d'accostarsi al popolare, nell'informe e nell'approssimativo) aspirante a dissolversi nell'infinito oppure da esso, dalla natura e dal destino, penosamente limitato, dolorante del male e del dolore del mondo; ed espresse la compassione verso gli oppressi, assunse la difesa degli umili e dei poveri contro i privilegiati e i potenti, contemplò o sofferse l'opposizione del reale e dell'ideale, del momentaneo e dell'eterno, glorificò l'arte e la bellezza, cantò il fluire della vita del cosmo e il corso della storia sollevandosi talora, come nell'altissima poesia del Goethe (ma non in essa sola), a un'armoniosa concezione del Tutto, a percepire nel particolare il fluire della vita universa. La varietà della produzione e dei motivi e l'individualismo prevalente rendono impossibile, nonostante la fondamentale unità delle correnti letterarie in Europa (comprese la Russia e l'America), un'enumerazione un po' aderente delle tendenze affermatesi nel campo della lirica dopo il 1850-60.

Il sentimentalismo e l'oratoria che si ritrovano in una parte della poesia romantica, nascenti dalla fede (in gran parte eredità settecentesca) nella bontà, nella natura e nell'amore, se si mantennero in parte in paesi laterali, come gli scandinavi, caddero in dispregio, soprattutto in Francia (dove erano stati più forti), presso i maggiori poeti di questo periodo, e la nuova lirica - ora in maniera seria, tragica e sublime come nel Baudelaire, ora solenne e severa come nel Mallarmé, ora dilettantesca, coloristica o decadente come nel d'Annunzio - ricavò, disillusa, di preferenza la sua ispirazione dalla sfera non degl'ideali e dei sentimenti collettivi, ma da quella della sensualità che è insieme desiderio e tristezza, sofferenza e morte, dall'amore per ciò ch'è esotico, raro, splendido, coloristicamente luminoso, o dalla fine degl'ideali. I maggiori lirici, e le scuole poetiche che vanno sotto il nome di Parnasse, simbolismo, poesia pura, estetismo, tesero insieme appassionatamente a un'estrema perfezione formale, a riscattare e purificare il senso, la lussuria, il sentimento della vanità, in valori formali studiatissimi, e crearono un linguaggio aristocratico e raffinato, ricco di termini esotici, rari e dotti, di nomi proprî, lavorato in forme di fattura impeccabile, spingendosi taluni, come specialmente è il caso del Mallarmé, a coltivare e ricercare la parola per sé stessa, ad attribuirle un valore allegorico e simbolico. Ma accanto o sotto a questa lirica e a queste correnti poetiche antiintellettuali (via via impoveritesi) con esse talvolta più o meno intrecciandosi continuò a svolgersi la corrente romantico-realistica, che, meno curante della forma, rivolta a rendere la materia delle cose, ricorse spesso largamente a termini tecnici, alle lingue speciali, a parole dialettali, giungendo fino all'estremo dell'onomatopea e, nel futurismo, alla dissoluzione quasi completa della metrica e della sintassi. Sennonché qui siamo ormai al margine o fuori della lirica, quando non addirittura della poesia stessa. Da queste correnti e da questi modi poetici prevalenti si staccano poi variamente singole vigorose personalità, quali (tanto per fare un nome) il Carducci, un epico più che un lirico e legato per molti rispetti all'età del Risorgimento italiano.

Ma chi voglia intendere la temperie e i valori espressivi della lirica sorta e fiorita in Europa intorno e dopo il 1860, deve, come per la comprensione della lirica delle epoche precedenti, oltre a seguirne manifestazioni minori, volgere la sua attenzione al corso dell'intera letteratura già per il fatto stesso che molta della lirica migliore è da ricercarsi in opere che formalmente liriche non sono, quali la Gerusalemme e l'Aminta del Tasso, il Pastor fido del Guarini, il Werther del Goethe, i drammi del Manzoni, del d'Annunzio e del Hofmannsthal, molta prosa del Nietzsche, e così via.

Bibl.: Amplissime indicazioni dànno il Quadrio e il Sulzer (coi Litterarische Zusätze di F. von Blankenburg) e, modernamente, Ch. M. Gayley e B. P. Kurtz, Methods and materials of literary criticism, Boston 1920, pp. 3.422. Per la lirica greca: W. Schmid, Geschichte der griechischen Literatur, I, 1, Monaco 1929, pp. 13, 19 segg., 325 segg. Sulla teoria dei generi: E. Müller, Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten, Breslavia 1834-37; B. Croce, Estetica, 5ª ed., Bari 1922, pp. 490-504; C. Gallavotti, Sulle classificazioni dei generi letterari nell'estetica antica, in Athenaeum, n. s., VI (1928), pp. 356-66. Per la critica della teoria: B. Croce, Estetica cit., p. 40 segg.; id., Problemi di estetica, 2ª ed., Bari 1923, pp. 23 segg., 108 segg.; id., Nuovi saggi di estetica, 2ª ed., Bari 1926, p. 322 segg.; id., Conversazioni critiche, s. 2ª, 2ª ed., Bari 1924, p. 163 segg.; id., in La Critica, XXVIII (1930), p. 396. Le difficoltà intrinseche al tentativo di definire la lirica saltano particolamente all'occhio nei tentativi moderni: cfr., p. es., Ph. Witkop, Die neuere deutsche Lyrik, I, Lipsia-Berlino 1910, pp. 930, e, meglio, B. Markwardt, Lyrik, in Merker-Stammler, Reallexikon der deutschen Literaturgeschichte, II, pp. 310 e 23.