Lo sport al femminile nella società moderna

Enciclopedia dello Sport (2003)

Lo sport al femminile nella società moderna

Roberta Sassatelli

Sport e genere

Lo sport ‒ sia esso professionale o amatoriale ‒ è un fenomeno che coinvolge, per lo meno in tutto il mondo occidentale, uomini e donne. La storia dello sport tuttavia è stata a lungo caratterizzata da una netta predominanza maschile e il campo delle attività sportive è, a tutt'oggi, segnato da profonde differenze di genere: gli uomini partecipano più delle donne alla pratica sportiva e, al contempo, gli sport maschili sono più rilevanti sia economicamente sia culturalmente.

Nonostante queste evidenti differenze, per molto tempo le scienze sociali non si sono interrogate sulle disuguaglianze di genere in relazione alla pratica sportiva. Questo, in parte, è dovuto al fatto che la ricerca sociale sullo sport è stata fortemente influenzata da concezioni idealiste, che tendevano a sottolineare il carattere gratuito e ludico delle attività sportive, considerandole quindi come una sfera di azione in cui l'attore sociale entrava liberamente, senza imposizioni di sorta, esprimendo piuttosto sé stesso, i propri desideri e la propria autonomia. Le differenze tra il coinvolgimento maschile e quello femminile nello sport venivano quindi riportate a differenze originarie e naturali fra maschi e femmine: forti, competitivi e attivi i primi; deboli, remissive e passive le seconde. In altri termini, sportivi i primi, sedentarie le seconde. L'argomentazione che gli sport sono un terreno naturale per i maschi, date le loro caratteristiche fisiche, è ancora ampiamente condivisa nelle nostre società, così come il determinismo biologico è stato a lungo dominante anche nel discorso sportivo accademico e l'ideologia della radicale differenza tra i sessi è stata ed è ancora convalidata dalla medicina sportiva.

Ricondotti dunque a differenze naturali, i diversi livelli di coinvolgimento di uomini e donne nello sport per molto tempo non sono stati considerati un oggetto degno di approfondite analisi storiche e sociologiche. Anche quando, grazie a studiosi come Allen Guttman e Johann Huizinga, è fiorita tutta una serie di approcci critici all'attività sportiva, che hanno rilevato come il consolidamento dello sport in quanto sfera d'azione specifica e relativamente separata abbia coinciso con l'avanzare della modernità e quindi con la burocratizzazione di comportamenti prima spontanei e ludici, raramente ci si è soffermati sulle divisioni e i confini interni allo sport stesso, soprattutto quelli fra uomini e donne. Nonostante la scarsa attenzione alle distinzioni di genere, questi approcci hanno tuttavia evidenziato che lo sport ha una funzione sia integrativa, cioè di riproduzione dell'ordine sociale, sia dialettica, ovvero di riproposizione dei conflitti, anche latenti, fra gruppi e categorie di persone e dei confini simbolici che li sostengono. In quest'ottica il consolidamento dello sport moderno, il suo essere sempre più mediato da forme di commercializzazione, è stato posto in relazione alla necessità di incorporare le classi subalterne all'interno del sistema capitalistico, offrendo loro svaghi funzionali alla riproduzione e legittimazione di valori come la competizione e l'individualismo (Gruneau 1983). Anche nella riflessione sullo sport, e in linea con la più generale evoluzione del pensiero storico-sociale, lper i confini e le distinzioni sociali si è progressivamente orientata sempre meno verso la classe sociale e sempre più verso il genere. Nell'ambito della sociologia e della storia dello sport, le differenze di genere vengono oggi dunque considerate come alcune delle relazioni di potere che innervano il campo sportivo e ne fanno una sfera di conflitto sociale più o meno sotterraneo.

Al prepotente ingresso del genere negli studi sullo sport ha ovviamente contribuito anche il pensiero femminista insistendo sul fatto che le differenze tra uomini e donne, che strutturano alcune fra le più importanti distinzioni all'interno dell'universo sportivo, sono socialmente costruite. Più in generale, sin dal suo emergere il pensiero femminista ha concepito il corpo femminile come uno dei luoghi chiave dell'oppressione subita dalla donna. Le prime femministe-socialiste cercavano di controbilanciare l'insensibilità al genere di gran parte della scienza sociale classica mostrando le connessioni fra capitalismo e patriarcato, analizzando cioè la divisione sessuale del lavoro e le ideologie che sottostanno al confinamento della donna nella sfera domestica. Negli studi sullo sport il femminismo si è inizialmente espresso mediante una serie di ricerche che hanno voluto mostrare la discriminazione cui sono soggette le donne anche nella sfera sportiva e del tempo libero (Deem 1986; Hargreaves 1994). Si è in effetti rilevato che il tempo libero delle donne, lungi dall'essere un'area di libera espressione, è costruito in funzione delle relazioni dominanti fra i sessi, a loro volta definite dalle vestigia del sistema patriarcale (Green-Hebron-Woodward 1990). Le opere più recenti tendenzialmente affrontano la questione del corpo in modo più diretto, tematizzando la costruzione sociale del femminile (Piccone Stella-Saraceno 1996), esaminando le prassi minute e ordinarie che confinano le donne a una vita incentrata o, comunque, fortemente improntata, sulla cura e l'abbellimento del corpo (Bordo 1997). Si tratta di pratiche relative alla presentazione del corpo (dal trucco all'acconciatura dei capelli) che vengono poste in atto anche dalle atlete professioniste impegnate ai più alti livelli in sport ritenuti 'maschili' come per es. la corsa o il bodybuilding (Heywood 1998; Lowe 1998). Anzi tali pratiche sono di grande rilevanza per mantenere una distinzione binaria maschio/femmina, proprio nel momento in cui le donne si stanno minacciosamente affermando in universi tradizionalmente maschili, come appunto quelli dello sport agonistico e professionistico, mediante prestazioni atletiche in vertiginosa crescita in tutti i campi.

Inizialmente il pensiero femminista distingueva il genere dal sesso, riferendo il primo alle differenze di ordine simbolico sovrapposte alle differenze biologiche derivanti dal secondo. In tal modo, il primo femminismo naturalizzava il sesso come differenza biologica data, destoricizzata. Con la svolta costruttivista, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, la precedente distinzione sesso/genere è stata sottoposta a critica e si è cominciato a definire il genere non come la rappresentazione culturale di un dato biologico, ma come quel processo culturale che produce in un corpo la possibilità di realizzarsi in due sessi distinti. Secondo questa linea di pensiero il fondamento biologico è solo in apparenza ovvio e ben delineato: il genere dei corpi è una costruzione culturale instabile, il cui scopo è delimitare e contenere la minacciosa assenza di confini fra i corpi e fra le pratiche del corpo che altrimenti farebbe esplodere le strutture istituzionali e organizzative delle ideologie sociali (Epstein-Straub 1991). In quest'ottica anche l'esistenza di due sessi nettamente distinti è stata messa in discussione da alcuni studi femministi di storia e sociologia della scienza che hanno documentato il variare delle dottrine scientifiche sui sessi, sotto l'influenza sia della struttura sociale di una data epoca sia delle esigenze retoriche e istituzionali interne al sistema della scienza medica (Hubbard 1990). Allo stesso tempo, i corpi, sia quello femminile sia quello maschile, sono apparsi come un terreno di lotta e di potere, non solo perché si è visto quanto essi fossero vincolati dalle regole morali e modellati dagli imperativi produttivi o sportivi, ma anche perché la loro 'naturalità', così come era stata fissata dal discorso medico dominante, a sua volta filtrato nei discorsi e nelle pratiche della medicina sportiva, è stata ricondotta a pretese di verità che riflettono differenze e gerarchie di potere. È così fiorita la critica alle dicotomie cultura/natura, mente/corpo, genere/sesso, maschio/femmina (Butler 1997) e la natura è parsa essa stessa come qualcosa di simbolicamente costruito ‒ di mediato dai simboli e dai segni che utilizziamo per definirla, descriverla e spiegarla ‒ e allo stesso tempo come qualcosa di cui simbolicamente ci serviamo per ordinare la nostra esperienza (Haraway 1995).

Analogamente negli studi sullo sport e sulla storia dello sport si è teso sempre più a mostrare come le differenze 'naturali' fra uomini e donne siano in realtà state iscritte nei corpi anche mediante la pratica sportiva, attraverso, per es., la canonizzazione di regole differenti per le versioni femminili degli sport più tradizionalmente maschili e lo sviluppo di attività sportive femminili, tese a sottolineare e a riprodurre caratteristiche fisiche più tipicamente associate alla femminilità, come grazia, armoniosità dei movimenti, leggerezza ecc. Così, studiosi come S.K. Cahn, J. Hargreaves, J.A. Mangan, J. McKay, M.A. Messner e D. Sabo sono passati dal prendere in considerazione e analizzare la pratica sportiva relativamente alle sole esperienze maschili, al riconoscimento del ruolo delle donne nello sport e della necessità dunque di dedicare loro uno spazio specifico, concentrandosi spesso solo sugli sport al femminile e riconoscendo che occorre andare oltre le differenze tra uomini e donne, occupandosi invece delle relazioni di potere che strutturano le definizioni stesse di maschilità e femminilità.

Sottolineare il carattere costruito e relazionale del genere, anche nello sport, non vuole dire ovviamente che i soggetti possano liberamente, agevolmente e indifferentemente agire ora da donna ora da uomo o che, poste a gareggiare fra uomini in attività pensate al maschile, le donne avrebbero le stesse chances. Come ha scritto recentemente il sociologo francese Pierre Bourdieu (1998), il genere non può venire ridotto a un atto volontaristico, essendo consolidato sia in dati materiali ‒ il portamento, l'atteggiamento, la dimensione ecc. ‒ sia in simboli ‒ classificazioni e categorie ‒ che parlano del soggetto. Non è quindi facile violare i confini culturali del genere e in particolare sfidare l'immagine egemonica della femminilità e della maschilità (Connell 1987). Anzi la femminilità stessa delle atlete che maggiormente sfidano i confini simbolici del genere, praticando attività tipicamente maschili, nelle quali bisogna avere corpi particolarmente muscolosi, grandi, forti ecc. ‒ le lanciatrici del peso per es. ‒ viene spesso messa in discussione, così come, peraltro, stentano ad affermarsi versioni maschili di sport come il nuoto sincronizzato che richiedono caratteristiche ‒ grazia e leggerezza ‒ antinomiche rispetto alla maschilità tradizionale. Si tratta però anche in questo caso di distinzioni tanto salde e radicate quanto sociali e convenzionali, legate fra l'altro alla specifica storia del complesso delle attività sportive in ciascun paese. Ciò è ben illustrato, per es., dal fatto che uno sport come il calcio femminile possa oggi godere di una forte popolarità negli Stati Uniti, dove esiste una scarsissima tradizione al maschile, e invece stenti ad affermarsi in Europa, tradizionale culla del calcio maschile, dove calcio e immagini di maschilità sono appunto fortemente associate.

Vi è dunque una forte consapevolezza del fatto che lo sport propaghi e rafforzi gli orientamenti e le categorie che definiscono culturalmente e praticamente ciò che è appropriato e naturale per un maschio e per una femmina. L'organizzazione sociale dello sport fornisce, mediante le sue immagini, ideologie e strutture, un meccanismo atto a mantenere e a legittimare nella società una particolare organizzazione del rapporto fra i sessi, tendendo a rafforzare la stratificazione sociale basata sul genere (Murphy 1988). Se per i giovani maschi lo sport costituisce ancora un rito di passaggio quasi obbligato, incarnando caratteristiche maschili idealizzate come la competizione, l'aggressività e la lealtà, tradizionalmente, e ancora fino al secondo dopoguerra, l'attività fisica e sportiva era considerata nemica della femminilità: agli occhi della maggior parte delle popolazioni occidentali, le donne atlete sono apparse a lungo come una deviazione dalla femminilità, una virilizzazione anomala, tanto che persino la correttezza dei loro orientamenti sessuali è stata messa in discussione. Lo stereotipo negativo riguardante le donne impegnate in attività sportive in effetti arriva a interessare la loro sessualità, e l'omofobia che ne consegue sembra limitare le possibilità di solidarietà fra donne. L'idea che l'attività sportiva potesse peggiorare e mascolinizzare l'aspetto delle donne praticanti e quindi intaccare il giusto rapporto fra i sessi, soprattutto nella sfera sessuale ‒ promuovendo appunto tendenze omosessuali ‒ si è sicuramente configurata come uno dei principali deterrenti alla diffusione dello sport femminile con cui molte atlete si trovano spesso a dover negoziare (Cahn 1994). Indubbiamente all'interno della sfera sportiva, nelle diverse strutture, nei club che organizzano attività agonistiche e non, si è a lungo annidato un certo sessismo: persino negli Stati Uniti, dove pure tanto si è fatto per promuovere lo sport femminile, ancora a metà degli anni Settanta, un celebre allenatore di football poteva liquidare lo sport femminile come foriero di omosessualità cui opporsi con risolutezza (Shinabargar 1995). Anche se non si può non ammettere che vi è stata, nel 20° secolo e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, una crescente 'femminilizzazione' dello sport, che ha implicato una sempre maggiore partecipazione femminile, una progressiva riduzione degli sport riservati solo agli uomini, lo sviluppo di sport femminili anche a livello olimpico ecc., tuttavia ancora adesso sono pochissime le attività sportive (come per es. la vela), in cui non esistono categorie distinte per genere, e gli atleti maschi e gli sport maschili sono tuttora al vertice delle gerarchie che strutturano il campo sportivo.

In questo quadro non stupisce il fatto che la letteratura recente su genere e sport sia ormai assai ampia. Si tratta di un campo di studi in forte espansione che spazia da lavori descrittivi e quantitativi che documentano i differenti tassi di partecipazione di donne e uomini alle diverse attività sportive, a lavori più teorici e qualitativi che si preoccupano di mostrare come lo sport contribuisca a stabilizzare, ma anche, in certi casi, a rovesciare, le nozioni di maschile e femminile più consolidate. A tutto ciò si aggiungono ovviamente le ricostruzioni storiche nonché l'analisi delle barriere economico-sociali e istituzionali relative alla partecipazione femminile all'attività sportiva, lo studio di un'immagine ideale sempre più consolidata di atleta maschio intrecciata al nazionalismo e ad accentuazioni del fattore della razza, l'analisi dei diversi spazi concessi nei media agli sport maschili rispetto a quelli concessi agli sport femminili ecc. In effetti, ogni aspetto dell'attività sportiva ‒ dalla sua organizzazione interna alla rappresentazione mediatica degli atleti ‒ è oggi sempre più reinterpretato in chiave di differenze di genere.

Una partecipazione crescente

Poiché il corpo è il più evidente simbolo della differenza tra uomini e donne e lo sport è un'arena in cui esso viene messo in gioco in modo specifico, lo sviluppo dell'attività sportiva fra le donne è indubbiamente un importante segnale di emancipazione femminile. Laddove lo sforzo atletico, tradizionalmente associato alla virilità, diviene a poco a poco disponibile anche alle donne, queste sembrano sottrarsi alla femminilità più tradizionale che le voleva passive e sedentarie, e sembrano poter godere di nuovi spazi per la sperimentazione di un diverso uso del corpo e la costruzione di nuove forme di identità (Salvini 1982). Certo, lo sviluppo dello sport femminile deve fare i conti con diffusi atteggiamenti che considerano le attività fisico-sportive come essenzialmente e naturalmente domini maschili. Esperita come un'idea ovvia e di senso comune, la nozione che esistano delle innate differenze biologiche e psicologiche fra i sessi, unita allo stereotipo, incoraggiato dalla professione medica, della fragilità e delicatezza fisica femminile si configura come una forma di sessismo che limita fortemente la partecipazione femminile alle attività sportive e fisico-ricreative (Vertinsky 1990). Per le specifiche caratteristiche corporee, legate in modo particolare al loro ruolo nella riproduzione umana, e quindi alla gestazione e all'allattamento, le donne sono state considerate inadatte alle attività fisiche che richiedono un certo impegno. Ancora ai primi del Novecento, la maternità, concepita come la funzione più naturale e moralmente adeguata per le donne, è vista come alternativa alle attività fisiche sportive. I passatempi delle donne di classe media tendono a essere quindi passivi ‒ lo shopping, i giochi di società ‒ o, se esplicati mediante attività fisica, estremamente blandi e tipicamente cerimoniali.

Nonostante ciò, con il consolidamento dello sport moderno le donne iniziano la propria ascesa, prima incerta e poi sempre più vistosa, nell'universo sportivo. Benché nell'Ottocento le prime femministe non prendano in considerazione lo sport nelle loro attività e riflessioni a favore delle donne, a partire dagli ultimi due decenni del secolo si registrano alcuni importanti sviluppi. Si diffondono forme leggere e contenute di esercizio, quali le varie declinazioni della ginnastica svedese, e la medicina comincia a considerare che alcune forme controllate e moderate di esercizio fisico possano sortire risultati benefici anche e soprattutto per le donne, favorendone persino la capacità riproduttiva. Verso la fine dell'Ottocento, per es., vi è in Inghilterra una vera e propria esplosione non solo di cliniche e terme ma anche di palestre rivolte alle donne di classe media dove, accanto a massaggi e diete, si possono praticare alcune forme di ginnastica medica (Duffin 1978). Contemporaneamente comincia a diffondersi negli stessi ambienti il croquet, un'attività sportiva fisicamente poco impegnativa e profondamente cerimoniale e cerimoniosa (Jewell 1977).

Se lo sport moderno si consolida nelle scuole private inglesi maschili, dove le attività ludiche tradizionali vengono organizzate in attività sportive competitive dotate di regolamenti formali, la graduale estensione dell'educazione superiore alle donne, spesso in istituzioni specifiche a loro dedicate, fa sì che anche lo sport femminile cominci a diffondersi sia pure fra mille difficoltà (Guttman 1991). L'opinione medica gradualmente inizia a prendere in considerazione forme di esercizio più energiche e alcuni medici sostengono che il curriculum scolastico debba comprendere anche per le donne l'educazione fisica, che appare in grado di rispondere direttamente a due esigenze contraddittorie relative alle giovani: essere donne e madri e, allo stesso tempo, sviluppare le proprie doti personali. L'educazione fisica e la ginnastica hanno un ruolo ambiguo rispetto all'emancipazione femminile e alla partecipazione femminile alle attività sportive: esse si configurano indubbiamente come occasioni di sviluppo fisico e mentale per la donna, e tuttavia la assoggettano a una disciplina rigida e non competitiva che incorpora idee tradizionali su ciò che è appropriato per una signora, sull'autocontrollo, la modestia, il decoro e la morale.

In generale, le forme di ginnastica che si sviluppano nell'Ottocento, sia in Europa sia negli Stati Uniti, tendono ad accrescere l'utilità del corpo, a migliorarne l'igiene, nel tentativo di temprare la morale pubblica e di forgiare cittadini migliori. La ginnastica organizzata direttamente dallo Stato o da élite filantropiche come forma di educazione, mira soprattutto a preparare le classi meno abbienti a prendere il proprio posto nell'ordine sociale, come lavoratori, soldati e infine come madri (Vigarello 1988; Park 1994). Non sempre a una capillare diffusione di società ginnastiche corrisponde però un'ampia diffusione dell'attività ginnica nella popolazione, soprattutto fra le donne. In Italia per es., tra fine Ottocento e inizi Novecento, si fa molta propaganda della ginnastica ma si pratica ben poca attività fisica: né la riforma De Sanctis del 1878, che rende obbligatoria l'educazione ginnica nelle scuole, né la riforma Gentile del 1923, che istituisce l'Ente nazionale per l'educazione fisica a sostegno anche economico della ginnastica scolastica, sortiscono effetti concreti (Bonetta 1990).

La genesi storica della ginnastica si differenzia dunque fortemente da quella degli sport in senso stretto. Molti sport, sia di squadra, come il rugby o il calcio, sia individuali, come l'atletica leggera, si sono andati differenziando dalle attività fisiche popolari nelle scuole riservate alle élite borghesi, dove hanno spesso avuto la funzione di forgiare il carattere dei futuri leader politici ed economici, educandoli a un'etica del fair play tra eguali, del governo di sé e del comando e promuovendo valori come la competizione, la forza e l'aggressività (Bourdieu 1978; Elias e Dunning 1986; Defrance 1995). Nella storia della partecipazione femminile allo sport, la ginnastica e l'educazione fisica hanno un peso molto rilevante perché è attraverso la mediazione, anche contraddittoria, di queste forme di attività fisica legate a finalità salutiste, piuttosto che ludiche o competitive, che le donne si preparano ad avvicinarsi, sia pur lentamente, allo sport in senso stretto.

Anche nel caso della storia dello sport femminile però si registrano marcate differenze tra classi sociali, per certi versi analoghe a quelle che strutturano la storia dello sport maschile. Lo sport competitivo vero e proprio si diffonde più rapidamente fra le élite e le classi più favorite: sport all'aria aperta come il croquet, il tennis, l'equitazione e il nuoto permettono alle donne di buona famiglia non solo di fare attività fisica, ma anche e soprattutto di mostrare maniere ed equipaggiamenti adeguati unitamente alla propria disponibilità di tempo libero. L'idea che le donne raffinate pratichino attività altrettanto raffinate ha quindi l'effetto di proteggere le prime sportive dall'infrangere i confini simbolici della femminilità e, allo stesso tempo, contribuisce a riprodurre la distinzione di classe che sottolinea la volgarità dei passatempi più popolari (Cahn 1994).

Varie forme di ginnastica svedese con la loro enfasi sulla salute, la cura del corpo e la disciplina e la loro assenza di competizione e rivalità atletica, hanno grande diffusione nelle scuole e nei collegi femminili di tutta Europa. Esse si propongono come attività legittime proprio in quanto tendono a desessualizzare il corpo femminile, sono volte a migliorare la salute delle future mogli e madri e sono quindi funzionali alla riproduzione dell'ordine sociale costituito e al controllo della capacità riproduttiva femminile (Cahn 1994). L'educazione fisica e la ginnastica svedese si consolidano ulteriormente, guadagnandosi una certa legittimità anche rispetto alla medicina, grazie allo sviluppo di vere e proprie scuole professionali per la formazione di insegnanti, il che non fa che riprodurre le differenze tra le classi sociali. Queste attività, rivelandosi adatte ai grandi numeri e fortemente disciplinanti, poiché permettono di educare e promuovere l'efficienza fisica, la capacità di svolgere compiti ripetitivi e precisi, nonché l'attitudine all'obbedienza delle classi lavoratrici, sono fortemente sostenute dai gruppi sociali dominanti in molti paesi europei: ben si adattano a quella filosofia darwinista che collega il miglioramento della razza umana all'accrescimento della salute e della fibra morale delle donne cui spetta il fondamentale compito riproduttivo (Hargreaves 1994). Estremamente seria e controllata, la ginnastica svedese e le sue declinazioni si propongono quindi come l'antitesi del gioco e come forme razionalizzate di movimento strumentale: si tratta di attività ascetiche che sottolineano gli sforzi, i sacrifici e la rettitudine morale, piuttosto che di attività edonistiche o ludiche che enfatizzano l'espressione e la libertà del corpo o il piacere della socialità. Eppure, nonostante la sua ambivalenza e il suo rifiuto della competizione, l'educazione fisica femminile a partire dalle ultime due decadi dell'Ottocento si configura per lo più come un prerequisito per la diffusione dell'attività sportiva fra le donne, soprattutto in Europa (Guttmann 1991). La maggioranza degli sport femminili, nelle loro forme istituzionali, si sviluppa infatti nelle scuole e nei collegi femminili, e gli insegnanti di educazione fisica svolgono, a volte consapevolmente a volte loro malgrado, un ruolo importante per rendere accessibile l'attività sportiva alle donne.

La diffusione degli sport femminili è segnata, soprattutto sul finire dell'Ottocento e ancora nei primi decenni del Novecento, da quel riduzionismo biologistico che dipinge le donne come fisicamente fragili. Gli sport che si sviluppano per primi fra le donne, in Inghilterra, culla dello sport moderno, sono quindi non solo quelli diffusi tra l'aristocrazia, ma anche quelli che non entrano in diretto conflitto con l'immagine vittoriana della femminilità: il tiro con l'arco, per es., che pur essendo un'attività competitiva, viene svolto in occasioni fortemente cerimoniali, che non richiedono un dispendio di energia cospicuo, né abiti particolarmente succinti. Lo sviluppo delle attività sportive fra le donne è del resto in larga misura facilitato dal graduale mutamento della moda, che ne viene a sua volta influenzata, per cui cominciano a modificarsi le fogge degli abiti femminili. La diffusione della bicicletta a partire dall'ultimo scorcio dell'Ottocento, per es., si configura sia come un simbolo delle richieste di libertà delle donne sia come un'occasione per legittimare abiti meno formali, meno decorativi e più funzionali al movimento. I nuovi vestiti disegnati per la bicicletta ‒ gonne più corte e gonne pantaloni, l'inserimento di elastici e nastri per accorciare e fissare le gonne, ecc. ‒ concedono infatti alle donne una nuova libertà fisica e di movimento e delle donne simboleggiano le rivendicazioni di controllo sul proprio corpo e sui propri movimenti e la loro rivolta contro le restrizioni sociali. Allo stesso tempo, in questa prima fase di sviluppo dello sport femminile, i vestiti che lasciano più libero il corpo devono evitare di suggerire immagini di femminilità sessualmente troppo aggressive e libere: si propongono quindi fogge funzionali e modeste.

Il processo di diffusione dello sport fra le donne è segnato da una continua e difficile negoziazione con le barriere anche e soprattutto simboliche e culturali che relegano le donne nella sfera domestica, al ruolo di madri. In Italia, Francia e Germania, come pure in Inghilterra e negli Stati Uniti, si registrano numerosi e acrimoniosi dibattiti fra coloro che salutano con entusiasmo la prospettiva della diffusione delle attività sportive fra le donne e coloro che invece temono che le atlete agiscano come elementi di disordine sociale e decadenza morale e fisica nel paese (Guttmann 1991). Pur divenendo l'oggetto di una vera e propria moda e offrendo alle donne nuove possibilità di movimento, uno sport come la bicicletta, per es., non è immediatamente accolto né ha una rapida e indiscussa diffusione come attività competitiva. In Inghilterra già dal 1880, le donne sono ammesse nell'associazione nazionale di cicloturismo, ma è solo nel 1916 che tale associazione consente la prima gara di ciclismo femminile (McCrone 1988). Vicende e storie analoghe segnano lo sviluppo e la diffusione tra le donne del tennis, del golf e del nuoto (Guttmann 1991). Agli inizi del Novecento le donne di classe media e medio-alta iniziano sempre più spesso a partecipare alle attività sportive, ma lo fanno negoziando con l'immagine di femminilità tradizionalmente attribuita loro, e quindi con severe limitazioni rispetto al codice del vestire, alla durezza degli esercizi, e soprattutto all'etica della competizione, che per molto tempo viene considerata tipica del sesso forte (Hargreaves 1994).

Negli anni fra le due guerre mondiali, lo sport al femminile ha comunque un grande impulso e, tra mille difficoltà, la partecipazione delle donne ai Giochi Olimpici si fa più importante. Quando Pierre de Coubertin organizza le prime Olimpiadi moderne ha indubbiamente in mente una competizione fra soli uomini, dove essi possano dar prova, di fronte a un pubblico anche femminile, di forza, coraggio e atletismo. Eppure, nonostante l'opposizione di de Coubertin, le donne sono incluse, con il golf e il tennis, già alle Olimpiadi di Parigi del 1900 (Guttmann 1991; Hargreaves 1994). Occorre però aspettare il 1912, per vedere, fra non poche rimostranze, il nuoto femminile fare il proprio ingresso in ambito olimpico. Nonostante la discriminazione le donne continuano ad ampliare la propria presenza olimpica anche grazie alla pressione delle molte società sportive femminili europee. La partecipazione femminile ai Giochi Olimpici non offre tuttavia una indicazione inequivocabile del superamento di atteggiamenti tradizionalisti e sessisti. Le dichiarazioni della vincitrice dei 100 m dorso delle Olimpiadi del 1932 a Los Angeles, Heleanor Holm, mostrano bene tutta l'ambiguità di cui si fanno ancora interpreti anche le atlete di maggior successo: Holm dichiara infatti che rinuncerebbe immediatamente al nuoto se e quando i suoi muscoli cominciassero ad assumere un aspetto troppo maschile (Guttmann 1991).

I regimi totalitari che fioriscono tra le due guerre, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania in particolare, hanno anch'essi un atteggiamento ambivalente nei confronti della partecipazione femminile allo sport. Certo l'attività fisica sotto forma di ginnastica è chiaramente uno strumento in più per governare e disciplinare la popolazione e promuovere le proprie ideologie. Durante il fascismo, per es., viene istituita l'Opera Nazionale Balilla che arriva a esercitare un vero e proprio monopolio sulle attività ginnico-sportive. Accanto ai grandi saggi ginnici collettivi che impegnano più o meno direttamente tutti i giovani e le giovani italiane e che hanno un'ovvia funzione politico-propagandistica, le attività ginniche dei Balilla si diffondono capillarmente e nel 1936 coinvolgono quasi quattro milioni di iscritti, hanno luogo in oltre 5000 palestre e rispondono sempre più chiaramente non solo a ragioni igieniche, eugenetiche e morali, ma anche, per i ragazzi, a esigenze di preparazione premilitare (Ferrara 1992). Le giovani donne, dal canto loro, sono incoraggiate a svolgere anche attività propriamente sportive, come il nuoto, e a competere nel tiro con l'arco.

Il regime fascista rimane comunque tendenzialmente ostile alle competizioni atletiche femminili in pubblico: alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932, anche per l'opposizione di papa Pio XI, nella squadra nazionale italiana non figurano donne, laddove il team maschile miete numerosi e significativi successi. Le italiane si prendono la rivincita alle successive Olimpiadi di Berlino, dove l'unica medaglia d'oro di tutta la spedizione azzurra è vinta da Ondina Valla negli 80 m a ostacoli. Ponendosi non solo come un fiore all'occhiello del regime ma anche come una potenziale sfida alla supremazia maschile da esso promossa, lo stesso successo della Valla ottenne reazioni tutt'altro che univoche nei circoli fascisti (Gori 2003). In effetti, il fascismo, soprattutto una volta consolidato il suo potere e anche per rispondere ai severi moniti della Chiesa cattolica, tende ad avere un atteggiamento profondamente ambiguo rispetto allo sport femminile: alcune atlete eccezionali vengono incoraggiate poiché possono dar lustro al regime a livello internazionale, ma si ritiene che per la maggioranza delle donne possa bastare un'educazione fisica salutista, l'unica giudicata davvero compatibile con l'immagine relativamente tradizionalista della donna e delle sue funzioni che il regime sostiene.

Durante la Seconda guerra mondiale le donne devono spesso assumere ruoli precedentemente riservati solo agli uomini ‒ nella sfera sportiva rimane celebre l'esperienza del baseball femminile che raggiunge un'immensa, anche se breve, popolarità (Cahn 1994) ‒ma è soprattutto dopo gli anni Sessanta e grazie al movimento femminista che lo sport femminile si consolida e dà segnali di grande ascesa. Certo questa tendenza non va esagerata né può essere indicata, anche in questo caso, come parte di un progresso lineare: negli anni Cinquanta e Sessanta vi sono ancora numerosi oppositori dello sport femminile, che utilizzano non solo argomentazioni di carattere estetico, ma anche la classica antinomia maternità-sport. In breve tempo però ‒ anche grazie all'impulso dato allo sport femminile da alcune atlete, come per es. la tennista Billie Jean King sia con le sue numerose vittorie sia con le sue iniziative per lo sviluppo di una coscienza sportiva femminile e il consolidamento di organizzazioni internazionali di promozione dello sport fra le donne (Festle 1996) ‒ si assiste a un rapido cambiamento di orientamento: già nei primi anni Settanta oltre un quinto delle liceali americane dichiara che vorrebbe essere ricordata per i propri successi sportivi e nello stesso periodo diversi studi mostrano che, non solo fra i ragazzi, ma anche fra le ragazze, praticare attività fisica e sportiva favorisce popolarità e successo sociale (Guttmann 1991). Oggi molti studi confermano che le donne che svolgono un'attività fisica, anche non competitiva, tendono ad avere una maggiore stima di sé e a guardare al proprio corpo con accresciuta soddisfazione (Grogan 1999). A partire dagli anni Settanta e ancor più negli anni Ottanta, una simile tendenza è incoraggiata dalle politiche per le pari opportunità, che rendono legittimo e doveroso il coinvolgimento femminile nello sport nelle scuole. Negli Stati Uniti, per es., la legge federale che dal 1979 vieta la discriminazione basata sul sesso, in ogni programma o attività, a tutte le istituzioni educative che beneficiano di fondi federali, ha avuto una notevole importanza non solo nell'incentivare lo sport femminile nel paese, ma anche nell'ispirare le politiche antidiscriminatorie adottate in Gran Bretagna e in altri paesi europei negli anni Ottanta (Hargreaves 1994; Shinabargar 1995).

A partire dagli anni Settanta l'aspetto del corpo delle atlete di punta dello sport mondiale, soprattutto nell'atletica leggera, comincia a essere considerato in termini positivi. Anche la diffusione di attività fisiche non competitive come l'aerobica ‒ che, mescolando musica pop e movimenti ginnici sempre più energici, rivoluziona la vecchia ginnastica femminile salutista in direzione non solo più cosmetica ma anche più ludica ‒ tende a modificare l'ideale del corpo femminile: muscoli sodi e contorni ben definiti sono sempre più il segno di bellezza oltre che di forma fisica (Sassatelli 2000).

Un evento di grande impatto simbolico è, nel 1967, la partecipazione di Katherine Switzer alla Maratona di Boston: sino ad allora le donne erano escluse da questa gara, considerata un'attività troppo faticosa. Il caso della maratona illustra tuttavia molto bene il fatto che, quando le donne possono cimentarsi regolarmente nell'attività sportiva, presto raggiungono risultati sorprendenti. Nonostante esista ancora un certo divario tra i migliori tempi degli uomini e quelli delle donne, dagli anni Sessanta a oggi il record femminile di maratona è migliorato di oltre un'ora a fronte di un miglioramento del record maschile di 15 minuti circa. Rispetto a simili differenze nelle prestazioni si registrano, anche nell'ambito degli studi storico-sociali sullo sport, opinioni contrastanti. Per alcuni le diversità biologiche e fisiologiche sono fondamentali e insormontabili, per altri le prestazioni inferiori sono in larga parte dovute alla segregazione delle migliori atlete donne, costrette a gareggiare solo fra loro senza poter competere con i migliori atleti uomini. Anche volendo sposare il primo punto di vista occorre peraltro rilevare che non tutti gli stereotipi di genere possono essere sottoscritti: le differenze fisiologiche tra uomini e donne, in effetti, non sempre sono a favore dei primi. In particolare, gli uomini, grazie a una maggiore quantità di testosterone e di massa muscolare, tendono a essere favoriti nelle attività che richiedono forza esplosiva, mentre le donne, grazie al tipo di metabolismo e alla maggiore quantità di grasso, sono più agevolate nelle attività di resistenza estrema, come è dimostrato dai risultati nella corsa su lunga o lunghissima distanza (Sport science perspective for women 1988). Partendo da questi dati, alcune studiose femministe sostengono che le donne non dovrebbero competere con gli uomini in ambiti costruiti a misura della fisiologia maschile, ma piuttosto in quelle attività sportive che meglio sfruttano le caratteristiche del corpo femminile, dalla resistenza, all'elasticità, alla coordinazione (Hargreaves 1994; Murphy 1988).

I progressi e le restrizioni che caratterizzano la partecipazione delle donne alle Olimpiadi danno una indicazione chiara di come l'accesso delle donne allo sport sia ancora discriminato. Discipline che richiedono prove di forza e sforzi evidenti sono state inserite nel programma olimpico solo molto recentemente (per es. i 10.000 m piani nel 1988) e l'unico sport di contatto previsto per le donne rimane il judo, inserito nel 1992. Nonostante l'impressionante ascesa dello sport femminile, in termini sia di diffusione della pratica sportiva amatoriale sia di risultati a livello agonistico, esistono ancora, dunque, numerose barriere che in misura variabile e in modi diversi limitano la partecipazione delle donne all'intero spettro delle attività sportive, riducendone di conseguenza le possibilità di successo. A questo proposito si può osservare come le attività sportive e di educazione fisica sono tuttora fortemente differenziate per genere nei programmi scolastici della maggioranza dei paesi occidentali. Va sottolineato anche che le donne occupano ruoli secondari nelle organizzazioni e istituzioni sportive: sono spesso sottorappresentate nelle posizioni amministrative direttive; gli allenatori, anche di atlete donne, sono più frequentemente uomini; sono ancora prevalentemente maschili i vertici del Comitato olimpico internazionale, che decide quali sport ed eventi inserire nel programma olimpico, dei Comitati olimpici nazionali, che controllano gli sport olimpici nelle diverse nazioni ‒ come il CONI in Italia ‒, e della Federazione internazionale dello sport, che sottopone i nuovi sport olimpici (Gender power and culture 2001).

Si può poi notare come le stesse atlete professioniste siano meno pagate e meno visibili nei media rispetto ai loro corrispettivi maschili. Vi sono in realtà disparità anche grandi fra i vari sport: se per es. il tennis femminile è ampiamente accettato come attività consona alle donne e riesce ad attirare un folto pubblico di entrambi i sessi, in altre discipline, considerate più maschili, la partecipazione femminile tende a essere guardata con sospetto. È il caso, per es., di alcune specialità dell'atletica pesante (peso, disco, giavellotto), benché siano sport olimpici, e ancor di più del pugilato, ritenuto incompatibile con il carattere e, in generale, con l'aspetto femminile. Tuttavia si deve registrare un certo cambiamento di mentalità in proposito, con una maggiore accettazione di tutti gli sport al femminile e di forme di femminilità diversa: anche fra le donne che fanno sollevamento pesi, per es., è sempre meno diffusa l'impressione di essere considerate eccessivamente mascoline (Guttmann 1991). D'altro canto, la Carta olimpica contro la discriminazione nello sport condanna le discriminazioni non solo razziali, religiose e politiche, ma anche quelle legate al genere e al sesso (Gender power and culture 2001).

I dati statistici indicano, a partire dal secondo dopoguerra, una crescita sostenuta della quota femminile sul totale degli atleti: da poco più dell'8% nel 1948 a oltre il 20% nel 1976 sino a oltre il 36% nel 1996 (Hargreaves 1994; Gender power and culture 2001). In generale quindi, anche se lo sport professionale rimane in larga misura una riserva maschile, nell'ambito degli eventi sportivi internazionali la partecipazione delle donne è sempre più evidente e significativa. Si possono comunque segnalare forti variazioni nazionali. Vi sono ancora numerosi paesi, come l'Arabia Saudita, l'Iran e il Pakistan che, spesso per rispettare rigidi dettami religiosi, non permettono alle donne di partecipare alle gare internazionali, e altri, come la Cina o la Germania, le cui squadre olimpiche sono per oltre il 40% composte da donne (Hargreaves 1994). Differenze, sia pur più sfumate, si riscontrano anche fra le nazioni europee: nei paesi scandinavi, per es., lo sport femminile è ampiamente diffuso e guardato con approvazione, mentre nei paesi del Sud Europa, e anche in Italia, la storia dello sport femminile è assai più recente e si può dire che soltanto da poco sono divenuti prevalenti gli atteggiamenti largamente favorevoli. Se ancora sul finire degli anni Ottanta solo un 3,2% delle italiane sperava di diventare un'atleta di successo a fronte di un 8,3% dei ragazzi (IREF 1995), già uno studio su un campione di giovani atlete di tutta Italia degli inizi degli anni Ottanta ha mostrato che le ragazze non si sentivano particolarmente discriminate nell'esercizio dell'attività sportiva e che non la consideravano affatto una minaccia per la propria femminilità (Salvini 1982). Del resto fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta in Italia la pratica sportiva femminile è andata crescendo in maniera significativa soprattutto fra le giovani: la partecipazione femminile ai Giochi della Gioventù, per es., è stata di 179.000 ragazze nel 1969, di 288.777 nel 1975 e di 1.170.000 nel 1980 (Salvini 1982).

Attività sportiva e fisico-ricreativa

In generale le donne partecipano maggiormente ad attività non competitive che possono, eventualmente, essere svolte con altri membri della famiglia che non ad attività competitive e, soprattutto, a sport di contatto. Si registra tuttavia una certa tendenza verso la diffusione di attività sportive che possono coinvolgere nello stesso modo uomini e donne, confondendo caratteristiche tradizionalmente maschili con caratteristiche più tipicamente femminili. Ciò è particolarmente visibile negli sport ricreativi e salutisti, dal jogging alle varie forme di fitness in palestra che tendono sempre più a mescolare i due sessi, oltre che competizione, gioco e finalità estetiche (Sassatelli 2000).

La differente distribuzione della pratica sportiva fra uomini e donne va peraltro collocata sullo sfondo della progressiva crescita del tasso di sportività che si è registrata in tutto l'Occidente nel secondo dopoguerra in ogni fascia della popolazione, a causa dell'aumento del tempo libero e degli investimenti, anche pubblici, compiuti nel settore, nonché del sempre maggior consumo dei beni e servizi legati al miglioramento e alla trasformazione del corpo. Per quanto riguarda l'Italia, fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta si è assistito a un generale e accelerato incremento dei praticanti di attività sportive riconosciute dal CONI. Tuttavia se il tasso di sportività in complesso è passato dal 2,6% nel 1959 al 15,4% nel 1982 e al 22,9% nel 1989, ancora a metà degli anni Ottanta meno di una donna su due uomini si dedicava ad almeno una attività sportiva (CENSIS 1995; ISTAT 1994). Tale divario è successivamente diminuito ma non si è ancora colmato: la rilevazione sulla pratica sportiva, svolta dall'ISTAT nel dicembre del 2000 nell'ambito della ricerca sul tempo libero, indica infatti un tasso di sportività pari al 37,8% per gli uomini e solo al 22,6% per le donne.

A questi dati vanno aggiunti quelli forniti dal CONI (1998) in relazione all'attività fisica non competitiva e blanda. Aggiungendo al tasso di sportività quello di partecipazione ad attività più generalmente fisico-ricreative, già nel 1995 può considerarsi attivo il 61% della popolazione italiana. L'Italia si colloca così in posizione mediana fra gli altri paesi europei (Francia 47%; Danimarca 51%; Regno Unito 65%; Svezia 80%). Questo tipo di attività non propriamente sportive ha avuto un'impennata negli anni Novanta, evidenziando un dato interessante: a differenza della pratica sportiva vera e propria, nella partecipazione all'attività fisica generica, non competitiva, leggera e saltuaria le donne superano gli uomini, con un tasso di partecipazione del 33,6% a fronte di un 28,8%. Solo nella fascia d'età degli ultrasessantenni, le donne sono più sedentarie dei coetanei, testimoniando un chiaro effetto di generazione.

Un buon numero di italiani sembra dunque ormai coinvolto nel fare moto. è peraltro importante sottolineare che sono mutate, almeno in parte, le motivazioni che spingono alla pratica sportiva. In particolare, rispetto all'intento agonistico è cresciuta la domanda di sport volta al benessere fisico e al mantenimento della funzionalità corporea. Tale mutamento è spiegabile in funzione non solo dell'accresciuta età media della popolazione, ma anche della sempre maggiore partecipazione femminile. La cura del corpo e la ricerca del benessere psicofisico sono infatti motivazioni assai importanti per le donne e, in generale, per gli sportivi che hanno superato i trent'anni: in questo caso l'esercizio fisico sembra configurarsi come un investimento per il futuro e si scelgono spesso le attività che promettono il massimo dei benefici nel minor tempo possibile (IREF 1995). Secondo l'ISTAT, nel 2000 l'83% delle donne italiane che svolgeva attività sportiva o fisico-ricreativa sosteneva di farlo per mantenersi in forma e per il suo valore terapeutico, mentre adduceva motivazioni simili un assai più contenuto 53% di uomini. Le donne, secondo il medesimo rapporto, sembrerebbero ricorrere a impianti sportivi a pagamento molto più degli uomini (81,3% contro il 59,7%); gli uomini rivelerebbero maggiore propensione per gli sport all'aria aperta, utilizzando più delle donne anche spazi privi di impianti (17,9% contro il 6,3%). Lo sport femminile appare dunque più condizionato dagli aspetti economici.

Numerosi studi condotti in vari paesi occidentali hanno messo a fuoco la relazione tra tassi di partecipazione all'attività sportiva e disponibilità di risorse. In Italia, una ricerca realizzata nel 2000 per conto della Commissione olimpica del Dipartimento per le pari opportunità e condotta su oltre 400 atleti e atlete della squadra olimpica italiana ha rilevato che il 73% delle atlete riteneva di non avere le stesse opportunità e gli stessi incentivi economici dei loro corrispettivi maschi: i rimborsi spese, per es., vanno a buon fine per l'82% dei maschi, ma solo per il 76% delle femmine; inoltre pensavano di poter rimanere nel mondo dello sport al termine dell'attività agonistica il 65% degli uomini e solo il 54% delle atlete.

In generale si insiste sul fatto che per diffondere lo sport fra le donne è importante rendere accessibili e sicure le strutture sportive e per il tempo libero. Uno studio svolto dallo Sports Council britannico, per es., ha mostrato che problemi di trasporto, di orario e di costo sono fra i principali deterrenti alla partecipazione femminile allo sport e ha raccomandato l'offerta di attività rivolte solo alle donne, a costi contenuti, in un ambiente sicuro e non intimidatorio, magari fornendo alle madri la possibilità di praticare sport con i propri bambini o di usufruire di un servizio di baby sitting (Hargreaves 1994; IREF 1994). In linea generale, un crescente numero di ricerche femministe ha mostrato come l'accesso delle donne alle attività del tempo libero in generale, e allo sport in particolare, sia sempre mediato dalla classe sociale (Deem 1986; Green-Hebron-Woodward 1990). Nelle fasce meno abbienti la famiglia mononucleare moderna relega la donna a forme di lavoro domestico non retribuito, sicché la sua possibilità di svolgere attività nel tempo libero è fortemente limitata dalla cura dei figli e della casa. Sono dunque le donne che esercitano attività lavorative retribuite ad avere un tasso più alto di partecipazione alle attività sportive. Poiché l'attività sportiva al femminile ha più di quella maschile questo carattere di classe media, le politiche per la diffusione dello sport fra le donne devono essere più specificamente indirizzate a colmare non solo la differenza di genere ma anche quella di classe sociale.

Si è detto che la partecipazione ad attività fisico-ricreative non strettamente sportive o agonistiche può configurarsi come un terreno dove gli attributi di genere si mescolano e vengono in parte sovvertiti. Tuttavia perlopiù la scelta delle attività rispecchia ancora le peculiarità tradizionalmente associate ai concetti di uomo e di donna. In tutti i paesi occidentali i maschi si orientano verso sport che consentono loro di confrontarsi con gli altri, di appartenere a un gruppo e di ottenere prestazioni eclatanti; le donne invece preferiscono sport meno aggressivi. Per quanto riguarda l'Italia, la rilevazione sulla pratica sportiva svolta dall'ISTAT nel 2000 mostra che esiste ancora una marcata differenziazione di genere nelle attività sportive: la ginnastica, l'attrezzistica e la danza risultano più diffuse tra le donne (42,8% rispetto al 10,7% fra gli uomini), così come il nuoto (28% rispetto al 17,2%) e la pallavolo (11,1% rispetto al 3,8%); tutte le altre attività hanno quote di partecipanti maschi prevalenti o largamente prevalenti. In particolare, alcuni sport si configurano come prettamente maschili: il calcio è, per es., praticato dal 41,4% dei maschi sportivi e solo dall'1,7% delle donne che fanno sport, e il ciclismo dal 9,8% dei maschi e solo dal 2,8% delle donne. Misurando questi dati relativi all'andamento della distribuzione di genere fra le attività sportive con quelli del 1995 non si rilevano grandi variazioni, anche se in questo intervallo di tempo le donne che praticano attività sportiva in modo costante o saltuario sono aumentate di 4 punti percentuali a fronte di una partecipazione maschile che è cresciuta solo del 2,8%.

Simili dati quantitativi vanno ovviamente letti sullo sfondo degli orientamenti culturali più diffusi rispetto al genere e allo sport. Come abbiamo visto, la storia dello sport femminile si caratterizza per una progressiva accettazione della donna atleta, soprattutto laddove essa si dedichi ad alcune, specifiche attività giudicate compatibili con il suo genere e quindi con le nozioni di femminilità dominanti (Sport, men and the gender order. Critical feminist perspective 1990; Hargreaves 1994). Secondo uno studio sugli adolescenti americani, la pratica di un'attività fisica appropriata per il proprio sesso dà ai giovani un certo status sociale, per cui le ragazze che praticano sport come la ginnastica e la pallavolo sono preferite dai ragazzi per uscire la sera e dalle ragazze stesse come amiche (Holland e Andre 1994). Ovviamente questi orientamenti rispetto allo sport operano anche nei confronti dei maschi, e quindi in qualche modo mediano e limitano la partecipazione maschile: nello stesso studio i ragazzi che fanno sport dichiaratamente maschili come il rugby risultano popolari sia fra le ragazze sia fra compagni coetanei, sportivi o meno.

La visione del maschile e del femminile nello sport

Prendere in considerazione la dimensione del genere nell'universo sportivo significa occuparsi non solo di come uomini e donne si distribuiscano al suo interno ‒ e quindi di quante e quali attività sportive pratichino ‒ ma anche del modo in cui la differenza di partecipazione contribuisca a consolidare differenti visioni del maschile e del femminile. In altri termini, se da un lato fra uomini e donne si evidenziano ancora tassi di sportività diversi e diversamente distribuiti, dall'altro ciò contribuisce a consolidare le differenze socialmente attribuite agli uomini e alle donne in quanto tali. Abbiamo più volte notato come la partecipazione all'attività sportiva sia fortemente mediata dal genere, anche se una volta entrati nel mondo dello sport questo, almeno formalmente, è retto da principi relativamente egualitari e universalistici. Ai lavori che documentano l'ineguale distribuzione di uomini e donne nello sport e la diversa importanza assegnata alle attività maschili e a quelle femminili si affiancano quindi le ricerche, spesso di matrice femminista, che considerano la sfera sportiva come un dominio di elezione per la costruzione di nozioni egemoniche di maschilità e femminilità.

Molte di queste analisi condotte sulla costruzione sociale del genere suggeriscono che gli uomini e le donne si trovano a subire una forte pressione sociale che li spinge a mantenere un'apparenza conforme ai concetti egemonici e dominanti. Gli uomini devono cioè apparire muscolosi, forti, freddi, privi di emozioni, competitivi, orientati in modo rigido alla vittoria a ogni costo ecc., mentre le donne devono mostrarsi disinteressate alla competizione e controbilanciare la partecipazione sportiva enfatizzando la propria femminilità (donde la necessità di vestire in colori sgargianti, portare i capelli lunghi, esibire lunghissime unghie finte ecc.). Emblematica al riguardo è la ricerca di D. Eder e S. Parker (1987) che mostra come tali differenze di genere si esplichino soprattutto durante l'adolescenza: studiando le attività sportive di giovani americani che frequentano la scuola superiore si rileva che se per i ragazzi le posizioni dominanti e di maggior successo sociale derivano dalle prestazioni atletiche, per le ragazze provengono piuttosto dall'attività di supporters e pon-pon girls a seguito delle squadre maschili, dove assume un'importanza centrale la cura dell'aspetto e dell'estetica. Del resto, il riprodursi nello sport delle differenze di genere è fenomeno che accompagna tutto il suo sviluppo storico (Cahn 1994; Guttmann 1991). Per molto tempo la partecipazione femminile, che pure si è connotata come un'esperienza di liberazione, è stata limitata e assoggettata a regole e principi basati sull'adattamento in forma ridotta delle regole valide negli sport maschili. Il mito della fragilità femminile è stato via via ritoccato, ma mai completamente eliminato.

Laddove i tradizionali ruoli maschili sono in crisi, lo sport, soprattutto se competitivo e carico di simboli di aggressività e violenza, può essere considerato, sia dagli atleti sia dagli spettatori, l'ultimo importante bastione del potere maschile contro l'ascesa delle donne e la femminilizzazione della società. Maschilità egemone e femminilità tradizionale si implicano a vicenda: le immagini di forza, aggressività, muscolarità e attività che lo sport contribuisce a legare al corpo maschile, risultano convincenti solo se possono opporsi a un'identità femminile associata a immagini di relativa fragilità, gentilezza e grazia. Tale sistema tuttavia può andare in crisi. Michael Messner (1988; Sport, men and the gender order. Critical feminist perspective 1990; Masculinities, gender relations and sport 2000), fondandosi su un'analisi gramsciana dell'universo sportivo, mostra come proprio lo sport possa offrire ai gruppi più svantaggiati (per genere, razza o etnia) l'occasione di sfidare l'ordine stabilito, migliorando il proprio status e talvolta sovvertendo gli stereotipi di cui sono vittime. Lo sport può essere cioè utilizzato, come una sorta di arena metaforica, per resistere alle forme di potere simbolico e diventare un vero e proprio campo di battaglia in cui vengono riscritte le classificazioni che fissano le gerarchie sociali. Gli uomini, guardiani del sistema di differenze di genere patriarcale, rischiano di diventare le prime vittime di tale riscrittura.

Lo sport, che appare uno dei principali ambiti dove i giovani, maschi e femmine, vengono socializzati secondo stereotipi di genere, potrebbe dunque divenire un importante terreno per la proposizione di nuove forme di maschilità e femminilità. Numerosi recenti studi rivelano come al riguardo vi siano atteggiamenti fortemente contraddittori: in alcuni casi si sottolinea come le attività sportive odierne siano luogo di resistenza rispetto alle visioni più tradizionali inerenti al ruolo di maschi e femmine, in altri casi si rileva piuttosto la persistenza dei soliti stereotipi. Le ricerche di M.J. Kane (1995), per es., insistono sulla possibilità che lo sport ha di trasformare l'opposizione fra maschile e femminile innanzitutto mediante l'idea stessa di competizione fra atleti, ponendo l'enfasi non sulle differenze ma sulla prestazione e sulla capacità di superare sé stessi e gli altri in condizioni di eguaglianza rigorosamente regolamentata. Al contrario N. Theberge (1997) in uno studio sull'hockey femminile nota che questo sport, pur segnando l'ingresso delle donne in un ambito eminentemente maschile, in ultima analisi rafforza la distinzione fra uomini e donne poiché il parametro di riferimento rimane la variante maschile; se dunque da un lato uno sport di grande fisicità e aggressivo come l'hockey ha aperto le porte alle donne, dall'altro esso viene concepito come una versione minore di quella maschile, costruita mediante misurate deroghe alle sue regole (riduzione dei tempi, delle distanze, e soprattutto, nel caso specifico, delle possibilità di contatto fra le giocatrici), ribadendo in sostanza una concezione del corpo femminile come diverso ma anche e soprattutto più debole rispetto al corpo maschile. In modo analogo, B. Wheaton e A. Tomlinson (1998; Wheaton 2002), analizzando i gruppi che praticano windsurf, hanno riscontrato come le donne, per quanto possano dedicarsi allo sviluppo non solo dei muscoli ma anche di quelle capacità fisiche considerate più tradizionalmente maschili, come la forza e il coraggio, continuino ad avere difficoltà nel superare le tradizionali distinzioni di genere, rimanendo ancorate a visioni dicotomiche dei due sessi, soprattutto nella sfera privata e personale.

Al perpetuarsi degli stereotipi di genere nello sport contribuisce il modo in cui esso viene presentato nei media. I giornali sportivi e i programmi televisivi di sport sono stati a lungo confezionati per un target maschile tendendo a essere imbevuti di nozioni tradizionaliste su ciò che è appropriatamente maschile e femminile. Così nel racconto dell'evento sportivo, spesso si è insistito più sull'aspetto fisico dell'atleta donna piuttosto che sulla sua prestazione. Studiando, per es., La Stampa e Tuttosport fra il 1968 e il 1978, A. Salvini (1982) ha riscontrato che pur esistendo un sensibile mutamento dell'immagine della donna sportiva, le atlete non venivano mai guardate prescindendo dal loro sesso, dalle loro vicende sentimentali, dal loro ruolo di mogli e madri: la loro prestazione atletica non era, come invece avveniva per gli atleti maschi, il solo elemento per cui essere valutate e giudicate. Ancora negli anni Ottanta prendendo in esame gli articoli pubblicati su Bild, il quotidiano tedesco più diffuso, M.L. Klein e G. Pfister (1985) hanno dimostrato che non solo oltre il 95% della copertura sportiva era dedicata agli sport maschili, al calcio in particolare, ma che in riferimento alle atlete donne venivano di preferenza menzionati con enfasi l'età e l'aspetto. Le immagini fotografiche delle atlete le mostravano sorridenti e sessualmente attraenti sottolineando spesso attributi convenzionalmente femminili come i capelli lunghi, laddove gli uomini venivano ripresi in momenti di fatica o in gesti atletici estremi che mettevano in risalto la muscolatura. Più recentemente, soprattutto nelle grandi occasioni internazionali, lo sport femminile ha indubbiamente attirato una sempre maggiore attenzione mediatica: già nel 1984, in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles, dove a fronte di 168 eventi maschili ne figuravano solo 73 femminili e 15 misti, il New York Times dedicava circa il 40% dello spazio riservato allo sport alle vicende e alle vittorie delle atlete donne (Guttmann 1991; Hargreaves 1994). Ancora adesso comunque le distinzioni e le gerarchie di genere sono spesso rafforzate dai commenti televisivi che tendono, mediante forme linguistiche scontate e ripetitive, a evidenziare la 'diversità' delle atlete, a sottovalutare la portata delle loro prestazioni, a infantilizzare e a ingentilire anche le atlete di maggior spessore e successo. Uno studio su alcuni eventi sportivi trasmessi sul finire degli anni Ottanta negli Stati Uniti ha rilevato che i commentatori per es. chiamavano la pallavolo maschile semplicemente pallavolo, mentre specificavano sempre 'pallavolo femminile', con l'effetto di farla apparire come una versione minore rispetto allo sport vero e proprio. Inoltre ci si riferiva alle atlete con gli appellativi di 'ragazza' o 'donna', indicandone spesso anche il nome proprio e non solo il cognome, rendendole così più accessibili e meno 'eroiche' dei loro corrispettivi maschili (Messner-Duncan-Jensen 1993).

Un'analisi della programmazione televisiva negli USA in occasione delle Olimpiadi di Atlanta mostra che, ancora nel 1996, lo spazio assegnato allo sport femminile era fortemente colorato di nozioni tradizionali di genere e femminilità (Andrews 1998). Per attirare l'audience femminile, la stazione NBC, per es., dava grande spazio alle atlete e alle loro gare e celebrava apertamente la partecipazione femminile alle Olimpiadi, producendo tuttavia, paradossalmente, uno spettacolo intriso di tutti gli stereotipi più vieti, privilegiando gli sport ritenuti più popolari fra le spettatrici perché incorporavano tratti fisici come la grazia e l'espressività e dando spazio ad atlete, come la ginnasta Shannon Miller o la nuotatrice Janet Evans, che potevano mostrare i corpi più belli e femminili. Questi dati spiegano in qualche modo perché la fama accompagni ancora soprattutto le star dello sport maschile, mentre per le atlete le prestazioni atletiche e la capacità di competere e ottenere successi passano più spesso inosservate e vengono più facilmente ricordate le caratteristiche fisiche (Lines 2002).

Nella costruzione del genere attraverso lo sport gioca un ruolo importante il diverso rapporto che uomini e donne intrattengono culturalmente con la competitività, l'aggressività e la violenza (Masculinities, gender relations and sport 2000). Si è visto come la competitività, atteggiamento fondamentale nella società moderna che premia il merito personale e la ricerca del successo ma non è immune da valenze negative, come la produzione delle diseguaglianze, dell'esclusione e dell'egoismo, è tradizionalmente riservata agli uomini e scoraggiata fra le donne che invece dovrebbero farsi carico di limitare e controbilanciare gli effetti negativi della competizione maschile. Le donne si sono così trovate specularmente affrancate ed escluse dall'obbligo della competizione, almeno in alcune sfere della vita, fra cui quello lavorativo e per estensione sportivo. Numerose ricerche di psicologia mostrano che le motivazioni al successo sono in genere inibite nelle donne da fattori come il timore di affermarsi, il conflitto tra le aspettative connesse al ruolo femminile e la piena realizzazione personale, la scarsa propensione ad affrontare rischi, la disistima e, in generale, la mancanza di incentivi sociali. Le ragazze insomma si impegnano più per essere accettate, per realizzare condizioni esteticamente piacevoli e per trovare un proprio stile, che per avere successo rispetto ad altri concorrenti, e hanno quindi una diversa visione della prestazione (Salvini 1982).

Data questa configurazione storico-sociale non stupisce che la ricerca sull'identità maschile nello sport si sia spesso focalizzata sulla questione della violenza (Masculinities, gender relations and sport 2000). La socializzazione dei maschi, sia dentro sia fuori dalla sfera sportiva, li porta ad avere atteggiamenti di apprezzamento della durezza e della forza fisica che li spingono più facilmente verso gli sport di contatto, potenzialmente pericolosi e aggressivi. Al contempo, la partecipazione a tali sport non solo rafforza l'impressione che gli uomini siano naturalmente più violenti, ma si associa effettivamente a un più disinvolto uso della violenza anche fuori dalla sfera sportiva. Uno studio condotto negli Stati Uniti mostra un legame fra la violenza domestica sulle donne e la forte partecipazione al fenomeno del tifo sportivo (Sabo-Gray-Moore 2000), mentre una ricerca su giovani americani e americane delle scuole superiori ha riscontrato come la partecipazione a sport di contatto tendeva ad aumentare i livelli di aggressività in entrambi i sessi, ma nei maschi risultava maggiormente associata all'uso della violenza e dell'aggressività nella vita quotidiana (Nixon 1996).

In generale l'aggressività e la violenza, soprattutto fra i partecipanti e gli spettatori maschi, si combinano con forti atteggiamenti omofobici (Masculinities, gender relations and sport 2000; Sport, men and the gender order. Critical feminist perspectives 1990), evidenziando l'intreccio del genere con la dimensione della sessualità. Il rapporto fra genere, sesso e sessualità appare infatti cruciale nella nostra cultura in cui vige un particolare allineamento normativo fra le tre categorie: il sesso è l'insieme di criteri cosiddetti biologici in base ai quali le persone vengono ascritte a categorie distinte; il genere è il complesso degli attributi personali, culturalmente stabilizzati, che rispondono a cosa ci si aspetta da persone di sesso diverso; la sessualità si riferisce ai modi di vivere e gestire il desiderio erotico. Tale rapporto si esprime essenzialmente nel tentativo di mantenere un rigido allineamento fra visione dicotomica degli attributi sessuali, complementarità delle caratteristiche di genere maschili e femminili ed eterosessualità dei comportamenti erotici. Se le donne sportive possono suscitare dubbi sulla propria femminilità ed eterosessualità per via dei loro atteggiamenti aggressivi, anche se questi sono richiesti dalla disciplina praticata, gli atleti maschi, mostrandosi aggressivi, possono invece tener lontano lo spettro dell'omosessualità che sempre incombe in ambiti, come lo sport, dove i due sessi sono tendenzialmente segregati.

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