Londra: quel che resta delle Olimpiadi

Il Libro dell Anno 2012

Alessio Altichieri

Londra: quel che resta delle Olimpiadi

La promessa di una ‘legacy’ olimpica sarà mantenuta? I Giochi londinesi hanno lasciato strutture utilizzabili dall’intera comunità, come il velodromo di Hopkins Architects, ma anche uno stadio inutile e ingombrante.

Dal 2005, quando Londra conquistò il diritto di ospitare le Olimpiadi del 2012, i governi britannici (Blair, poi Brown e Cameron) si sono sforzati di non fare della rara occasione uno spreco di denaro pubblico, come si sono rivelati i Giochi del 2004 ad Atene, né tanto meno, dopo lo spettacolare esempio di Pechino 2008, di competere con l’ostentazione di un regime autoritario. Giochi assennati, oculati, che lasciassero un’eredità alla città e alla nazione, dovevano essere quelli di Londra 2012.

E quindi la parola ‘legacy’, eredità, è stata fin da subito invocata sia da Sebastian Coe, l’ex mezzofondista divenuto presidente del Comitato organizzatore dei Giochi, sia dal governo, che in un documento del 2007, ‘Legacy Promises’, s’impegnava a fare della Gran Bretagna «una primaria nazione sportiva» (ma pure «creativa, inclusiva, ospitale»), a «spronare una generazione all’attività fisica, culturale e di volontariato», a «trasformare il cuore della Londra orientale», e a fare del futuro Olympic Park «un modello della convivenza sostenibile». Ridimensionate le promesse più retoriche, come quella di avviare allo sport un milione di giovani (solo 112.000 se ne contavano, a gennaio 2012), è rimasto il nocciolo: fare Giochi olimpici che avessero successo, a un prezzo ragionevole, e che consegnassero strutture utili in futuro. Esempi, a Londra, non mancano. Ma più che alle Olimpiadi passate, quelle del 1948, che si svolsero in un clima di austerità perfino maggiore di quello odierno, o all’edizione del 1908, che lasciò l’area brulla di White City, conveniva rifarsi al precedente della Grande Esposizione del 1851 –; che fruttò, nel nome del principe consorte della regina Vittoria, il monumentale quartiere di Albertopolis (l’area di South Kensington che conta grandi musei, l’Albert Hall e l’Imperial College) – o al Festival of Britain, indetto nel 1951 per riaffermare la ‘fede nel futuro’ dopo la guerra, che diede alla città la Festival Hall, attorno a cui sarebbe sorto il complesso teatrale ed espositivo di South Bank. Per questo 2012, la zona ove fare la nuova operazione urbanistica era già stata individuata a Stratford, un distretto orientale della città, dove industrie chimiche e metallurgiche, estinte nell’epoca post-manifatturiera, avevano lasciato un’area di quasi 130 ettari, incolta e avvelenata, attraversata da un fiumiciattolo, il Lea, che non aspettava altro che essere risanata, cioè sfruttata. Restava l’interrogativo: sarebbe riuscita Londra a creare un’eredità come South Bank, o avrebbe replicato l’insuccesso di White City? Vediamo. Al costo di 8,921 miliardi di sterline (sono stati risparmiati 377 milioni sul budget stanziato di 9,3 miliardi), la scena che s’è offerta al contribuente britannico e allo straniero giunti a Olympic Park, anche sul ‘treno giavellotto’ che corre dalla stazione di St Pancras, era quella di un ampio giardino ecologico, disegnato dall’architetto del paesaggio George Hargreaves, che, tra arcadici boschetti ed esplosioni di fiori, argini erbosi, canneti per le rane e ponti di ferro sul Lea disintossicato, ospitava gli impianti che per due settimane hanno accolto folle di spettatori: l’audace centro del nuoto disegnato dall’architetto iraniano Zaha Hadid nel suo stile espressionista, che sarà un gioiello quando perderà le tribune provvisorie che lo deturpano come enormi orecchie, lo splendido velodromo (Hopkins Architects) di cui Londra aveva davvero necessità, alcune strutture provvisorie per basket e sport minori, e naturalmente l’Olympic Stadium, opera degli specialisti Populous, che al costo di mezzo miliardo di sterline arricchisce Londra di uno stadio bello, funzionale, ma di cui non si sentiva alcun bisogno.

C’era già Wembley, appena rifatto da Richard Foster con le piste d’atletica, ma senza le necessarie aree di riscaldamento. In più, Wembley è lontanissimo dagli alloggi per 17.000 atleti, cioè l’Olimpic Village, che sorge, invece, proprio accanto all’Olympic Park.

Quale eredità, quindi? Per mantenere le promesse, è stata istituita la London Legacy Development Corp, al fine di trasformare il parco, dopo i giochi, in una zona viva della città intitolata a Elisabetta II, che ha celebrato il Diamond Jubilee (60 anni di regno) proprio nell’anno delle Olimpiadi. Se infatti il futuro dell’Olympic Village, quartiere residenziale creato dagli urbanisti Fletcher Priest, Arup e West 8, dominato dall’enorme scatola che ospita Westfield, il più grande centro commerciale d’Europa, è stato risolto vendendo il complesso (500 milioni di sterline) al fondo sovrano del Qatar, l’Olympic Park vero e proprio, che resta in mano pubblica, affronta un destino più incerto. Il giardino è piacevole, benché si snodi fra impianti chiusi da cancellate, ma non può essere un parco, di cui Londra è già ricca, il lascito memorabile. Piscine e velodromo, certo, troveranno impiego.

Ma l’ingombrante stadio, da affittare a lungo termine, è indigesto anche per una squadra di calcio come il West Ham. Eppure, se il Parco Olimpico non passerà alla storia dell’urbanistica come South Bank, almeno sarà novità gradita nel grigio East End, quando l’eredità sarà consegnata, fra mesi o anni.

Ma i tempi lunghi sono la norma nella vita di una città, come dimostra un altro grande progetto urbanistico di Londra, Canary Wharf, la città della finanza sorta nell’area fatiscente di Isle of Dogs, che fu decisa dal governo di Margaret Thatcher giusto trent’anni fa, nel 1982. Quell’‘isola dei cani’, dove le banchine in riva al Tamigi crollavano sotto il peso dell’abbandono, ha avuto vita difficile, compresa la bancarotta dell’originario costruttore, ma con le Olimpiadi Canary Wharf, ormai vecchia di una generazione, ha soppiantato la City come il più popoloso centro finanziario del Regno Unito, quindi d’Europa, ed è ormai uno dei simboli di Londra. Se il Queen Elizabeth Olympic Park avrà metà del suo successo, la promessa di una ‘legacy’ olimpica sarà stata mantenuta.

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