LONGOBARDI

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1996)

LONGOBARDI

E.A. Arslan

Popolazione germanica convenzionalmente accolta, sulla base della prevalente area di migrazione, nel novero dei Germani occidentali, insieme ad Alamanni, Bavari, Franchi.

Storia e archeologia

I L. avrebbero avuto origine, secondo la tradizione leggendaria (Origo Gentis Langobardorum), in Scandinavia e la prima fase di insediamento - alla foce dell'Elba, alla base della penisola dello Jutland - avrebbe avuto luogo tra l'ultimo trentennio del sec. 1° a.C e il 17 d.C. (Strabone, Geographia, VII, 1, 3; Tacito, Annales, II, 45-46; Germania, 40-41). Nel 489 i L. si trovavano nel Norico (Austria), a N del Danubio, a occupare il territorio dei Rugi (Procopio di Cesarea, De bello Gothico, I, 4); successivamente, nel 547-548 (Procopio di Cesarea, De bello Gothico, III, 33), Giustiniano consentì il loro stanziamento a S del Danubio, nell'Austria Inferiore e in Pannonia (Ungheria), da dove nel 568 scesero a invadere l'Italia.L'espansione dei L. avvenne sine aliquo obstaculo (Paolo Diacono, Hist. Lang., II, 9) nell'area subalpina e padana - dove a Ticinum (Pavia) venne stabilita la capitale regia - e lungo l'Appennino, fino al Sannio e a Benevento (570) con esclusione dello Stato della Chiesa, della Calabria e di parte della restante Italia meridionale. È proprio qui che, dopo la sconfitta inflitta loro da Carlo Magno nel 774 alle chiuse di Susa e nell'assedio di Pavia e la conseguente perdita delle regioni centrosettentrionali (la Langobardia Maior), i L. conservarono il loro ruolo di minoranza egemone fino all'invasione normanna, dando vita alla Langobardia Minor ed espandendosi con alterne vicende a spese del tema bizantino a partire da Benevento, divenuta la patria dei L. irredenti profughi dal Nord (e per questo denominata seconda Pavia), dal ducato di Salerno e da quello di Capua.

La 'questione longobarda' e la storia degli studi

I L., nonostante fossero stati preceduti da altri popoli germanici nell'occupare l'Italia, cioè il centro dell'Impero romano d'Occidente, diversamente dai loro predecessori, come soprattutto gli Ostrogoti di Teodorico, hanno ottenuto nella tradizione storiografica un giudizio prevalentemente negativo. Anche il loro storico nazionale, Paolo Diacono, in un controverso passo ("His diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt. Reliqui vero per hospites divisi, ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur"; Hist. Lang., II, 32), traccia un quadro di spossessamenti violenti delle proprietà della classe senatoria romana, sorpresa dall'invasione, che lascia immaginare un processo non più guidato, come in passato, dai funzionari imperiali nell'applicazione del diritto di hospitalitas, cioè nella cessione di un terzo delle terre agli invasori. Su questo passo in particolare si sono appuntate le attenzioni degli esegeti; di qui è sorta una linea interpretativa che attraversa tutta la storia degli studi, dando vita a una 'questione longobarda' largamente influenzata dalle contrapposte posizioni politiche dei diversi studiosi riguardo al tema del potere temporale della Chiesa e del suo ruolo nelle vicende della perdita dell'unità e dell'indipendenza nazionale.I L. sono presenti nella riflessione politica di Niccolò Machiavelli (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, del 1513-1519), che rimproverò allo Stato della Chiesa di aver frapposto ostacoli al tentativo dei L. di unificare il paese sotto il loro dominio e la colpa di aver suscitato l'intervento dei Franchi, che pose fine al loro regno nel 774, anno, invece, ritenuto felicissimo per la Chiesa di Roma da Cesare Baronio (Annales ecclesiastici, Roma 1588-1607). Benevolmente giudicati da Ludovico Antonio Muratori, primo editore della Hist. Lang. di Paolo Diacono (RIS, I, 1723), con Alessandro Manzoni i L. uscirono dall'ambito delle dispute erudite e si inserirono tra i grandi temi popolari: nelle note pagine dell'Adelchi (e nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, apparso a corollario dell'edizione del 1822 dell'Adelchi), con trasparente riferimento alle contemporanee vicende della lotta risorgimentale, viene attribuita ai L. la colpa di aver infranto l'unità del paese rendendo l'Italia "un volgo disperso che nome non ha" (Adelchi, atto III, coro, v. 66).La tesi manzoniana del totale asservimento della popolazione romanza durante il dominio longobardo di fatto divenne per tutto l'Ottocento il punto di riferimento del dibattito tra le due contrapposte scuole storiche neoguelfa e neoghibellina, l'una che poneva in forte risalto la ferocia repressiva degli invasori anche contro la fede e la gerarchia di Roma, l'altra che metteva in luce le responsabilità del papato nel contrastare l'unificazione d'Italia sotto i Longobardi. Al volgere di questo secolo, nel clima che precedette la prima guerra mondiale e tra questa e la seconda, la materia si caricò di ulteriori e non meno conflittuali contenuti ideologici (civiltà germanica contro civiltà romana) prima nella storiografia nazionalista di lingua tedesca dell'età guglielmina e poi con l'avvento del nazismo anche nella ricerca sul campo. Mentre in Italia il tema veniva affrontato quasi esclusivamente dagli storici del diritto e si incentrava nel commentario all'editto di Rotari o nell'esegesi della Hist. Lang. di Paolo Diacono per scorgervi la prova o la smentita della condizione di asservimento della popolazione romanza, nel frattempo in Germania si compivano campagne di scavo sull'Elba, zona indiziata come luogo di origine dei L., alla ricerca della preistoria delle stirpi germaniche; i principali specialisti dell'età delle Migrazioni barbariche, quali Peter Paulsen e Herbert Jahnkuhn, furono a capo di reparti speciali che, al seguito delle armate del Reich durante la seconda guerra mondiale, effettuarono ricerche archeologiche in Polonia e in Cecoslovacchia.Questa situazione, che vide la ricerca archeologica largamente egemonizzata da studiosi di lingua tedesca, mentre in Italia continuava a prevalere l'interesse degli storici del diritto per i quali lo studio dell'Alto Medioevo coincideva con l'indagine sui L., proseguì nel secondo dopoguerra. È anzi a uno di questi ultimi, Gian Piero Bognetti, poi seguito da Gina Fasoli e da Carlo Guido Mor, che è dovuto un particolare interesse per le fonti archeologiche, intese per il momento solo come reperti di necropoli, e per la possibilità da esse offerta di trovare risposta a interrogativi sorti in sede storiografica; allo stesso Bognetti si deve il merito di aver affidato a un'équipe di archeologi polacchi, a partire dal 1962, i primi scavi scientifici programmati, in area di abitato (Castelseprio, Torcello) e non più di necropoli. Prima di quella data, infatti, i trovamenti e le indagini si riferivano ai contesti sepolcrali, per lo più venuti in luce casualmente, con le estese sepolture disposte in fila, attestanti il costume separatista dei Germani e il loro uso di seppellire con oggetti di corredo, personali e di armi, uso nel frattempo attutitosi nel rituale delle popolazioni romanze per effetto della cristianizzazione.In Italia tra i primi trovamenti vanno ascritti quelli della necropoli di Cella a Cividale, esplorata da Michele Della Torre (1817-1824) ma non riconosciuta; chiaramente attribuite ai L. sono le necropoli di Cellore d'Illasi (prov. Verona), scavata nel 1881, quella di Testona nei pressi di Moncalieri (prov. Torino), esplorata nel 1883, alcune tombe con ricchi corredi da Civezzano (prov. Trento) venute alla luce nel 1886, la tomba detta di Gisulfo a Cividale, esplorata nel 1889: si tratta però di materiale disperso o di corredi smembrati (Melucco, 19882), editi con criteri non scientifici. Pertanto un momento significativo è costituito dalla scoperta e dall'edizione dei materiali rinvenuti nel 1885 a Castel Trosino (prov. Ascoli Piceno; Mengarelli, 1902), nel 1896-1898 a Nocera Umbra (prov. Perugia; Pasqui, Paribeni, 1918), nel 1907-1910 a Galli, presso Fiesole, e nel 1913-1914 nella necropoli dell'Arcisa a Chiusi (Hessen, 1971-1975). Si concluse così, all'inizio del secolo, una fortunata stagione di rinvenimenti, seguita da edizioni scientifiche dei reperti, dai quali dipende ancora in larga parte la conoscenza delle necropoli longobarde italiane e del ricco repertorio di oreficerie, di armi e di oggetti d'uso da esse restituito.In epoche successive la ricerca sul campo e l'edizione sistematica dei sepolcreti longobardi furono prerogativa della scuola preistorica germanica, che le organizzò secondo un approccio tipologico-descrittivo e con tentativi di dedurre, in modo talvolta assai meccanico e diretto, dalla composizione dei corredi (soprattutto maschili) la condizione del vivo e la stratificazione sociale. In questa produzione, cui va il merito di aver costituito un'ossatura di riferimento, anche cronologico, per i reperti longobardi all'interno della koinè merovingia (tradizione di studi esemplarmente rappresentata dalla collana Germanische Denkmäler der Völkerwanderungszeit), il modello interpretativo è stato quello dell'accentuazione della particolarità etnica e culturale, affidata all'indagine del rituale funebre, mentre non ha avuto adeguato risalto la discriminante profonda rappresentata dall'invasione dell'Italia; è stato inoltre sottovalutato l'inserimento di un popolo di cultura nomade entro ciò che restava dell'Italia tardoimperiale, la sua sostituzione agli strati egemoni delle classi senatorie e i processi d'assimilazione e d'acculturazione che ne derivarono.Un superamento dei precedenti indirizzi si è avuto solo negli ultimi due decenni, quando l'indagine sui L. è stata ricondotta alle metodologie e integrata negli orizzonti problematici dell'archeologia medievale: la ricerca sul territorio, sugli insediamenti rurali e sul livello di vita dei centri di antica origine in età postclassica ha, tra l'altro, consentito di superare la distorsione indotta dalla conoscenza fondata sulle sole necropoli, grazie alla consapevolezza che i reperti funerari non restituiscono uno specchio fedele della vita, ma sono filtrati e distorti dal rituale.

Il quadro degli insediamenti

In relazione alla trama storica schematicamente riassunta, la fase di insediamento alla base dello Jutland, attestata dagli storici dell'Impero romano al volgere del sec. 1°, è documentata in modo inadeguato attraverso vecchi rinvenimenti e scavi ispirati dall'archeologia razziale. Pertanto si preferisce oggi parlare di popoli germanici dell'Elba (Elbgermanen) piuttosto che ricercare l'identificazione dei L. nell'ambito di quei vasti sepolcreti caratterizzati in modo unitario dal rito dell'incinerazione e riconducibili all'orizzonte della cultura del Ferro di La Tène media e finale. Manca, anche nel sec. 5°, una sicura individuazione dei L. nell'ambito della egemone presenza dei Turingi, nei territori più a S, della Germania centrale (Magdeburgo); qui, nello stesso periodo, pur proseguendo l'incinerazione, si affermavano deposizioni di inumati che, nella presenza di ornamenti, oggetti personali e di corredo (inizia a essere attestata la fibula ad arco), armi, mostrano elementi comuni ai Germani occidentali. Tale possibilità manca anche in Boemia.Una più precisa individuazione dei L., nell'ambito dell'ormai matura cultura merovingia, grazie a ricognizioni e scavi sistematici austriaci e ungheresi di questo dopoguerra, è possibile, a partire dalla fase nord-danubiana (450-530 ca., attraverso i sepolcreti della Moravia e dell'Austria) e dal 510 con la fase pannonica (passaggio del Danubio e insediamento nell'Ungheria) fino all'invasione dell'Italia. Il rituale funerario era ormai definito: nei grandi sepolcreti di inumati, disposti in file orientate E-O (Reihengräberfelder); nelle tombe femminili, in cui sono presenti elementi del vestiario e dell'ornato muliebre, le fibule, in genere in coppia (ad arco e a uccello in argento dorato, a disco, a S decorate a cloisonné), la fuseruola, il coltellino, il coltello da tessitura (Webschwert), le collane in ambra e pasta vitrea, gli amuleti; in quelle maschili, connotate dalle armi e dal relativo sistema di cinture di sospensione con caratteristiche fibbie e placche, la spada lunga, la punta di lancia, lo scudo, i finimenti di cavallo in argento. Nel corredo sono più sensibili gli influssi dei commerci con le regioni dell'Impero: vetri, avori, bacili in bronzo, mentre la ceramica comprende residui, destinati a scomparire, delle produzioni protostoriche di impasto. La novità è rappresentata dalle serie da tavola in argilla depurata decorata a impressione, che giunse anche in Italia, a sua volta presto sostituita dalle produzioni mediterranee tardoimperiali. Negli ornamenti personali e nelle armi sono già presenti dalla fase pannonica la decorazione in stile policromo e l'ornamentazione astratta di I e II stile animalistico, elementi che segnano un legame con le fasi formative unitarie della cultura germanica; si infittiscono le evidenze, soprattutto monetali, dei rapporti consolidati con l'impero bizantino, di cui si ha notizia dagli storici proprio in coincidenza con l'insediamento dei L. lungo la direttrice danubiano-carpatica. Il quadro che emerge dalle ricerche archeologiche in Ungheria, particolarmente ricco, consente di ricostruire anche 'case della morte', lunghe costruzioni rettangolari con copertura sostenuta da pali, che verosimilmente riproducono tipologie abitative. Gli insediamenti avvenivano presso ville e castra romani e rispecchiavano la distribuzione del sistema viario ancora in uso. Dagli avanzi di pasto delle deposizioni emerge un'alimentazione basata su allevamento di bovini e di equini, che conferma il quadro offerto dalle fonti scritte. Questi dunque sono i connotati del popolo (trecentomila persone ca.) che, guidato da Alboino (m. nel 572) e organizzato in fare, cioè per gruppi di armati strutturati su base familiare, nella Pasqua del 568 dal Friuli iniziò la conquista d'Italia.Il quadro interpretativo, cui l'archeologia è chiamata a concorrere da questo cruciale momento in avanti, risponde prevalentemente a due ordini di quesiti, strettamente interconnessi: da un lato riguarda le modificazioni che intervennero presso i L. per effetto dell'inserimento nel nuovo contesto, per l'abbandono della cultura nomadica e della conseguente economia di rapina, per i processi d'acculturazione e d'assimilazione alla classe romana dirigente, cui essi si sostituirono; dall'altro tocca il problema dell'impatto dell'invasione in Italia, il suo effetto sui processi di continuità e di sopravvivenza del vecchio ordine tardoantico, problema rispecchiato nelle diverse ipotesi di periodizzazione dell'inizio del Medioevo, ovvero prima o dopo Carlo Magno. Rispetto al primo ambito problematico, le principali modificazioni del costume germanico consolidato - restituite dalle tombe maschili (comparsa del sax accanto alla spada, moltiplicazione e impreziosimento delle cinture di sospensione delle armi e comparsa di decorazioni sugli scudi, evidenziazione dell'armamento del cavaliere e dell'importanza del cavallo) e femminili (modifiche nell'uso delle fibule a staffa e a disco, introduzione nel mundus muliebris di gioielli di tradizione mediterranea quali anelli, orecchini, gemme incise) - mettono in crisi il modello interpretativo tradizionale dell'impermeabilità culturale, documentando, tra l'altro, l'assunzione da parte di re, duchi, persino gastaldi, di oggetti simbolici del potere romano, come le sellae plicatiles (da Nocera Umbra; Roma, Mus. dell'Alto Medioevo) o gli anuli sigillares (da Trezzo sull'Adda; Milano, Soprintendenza Archeologica della Lombardia), mentre l'accresciuto numero di oggetti suntuari accolti nel corredo, quali vetri, avori, vasellame in bronzo, ceramiche fini, attesta il nuovo impulso a una committenza di oggetti di lusso prodotti da officine italiane e mediterranee e distribuiti lungo le tradizionali vie del commercio a grande distanza.Anche la singolarità del seppellimento con ornamenti e corredo, a lungo contrapposta all'uso della deposizione nel solo sudario delle popolazioni romanze, viene contraddetta o, almeno, deve essere corretta sulla base di evidenze che attestano influssi reciproci ed effetti di attrazione, che si delineano fino alla scomparsa del corredo nel corso del sec. 8°, ma che andranno meglio analizzati per ambiti territoriali e in relazione alla stratificazione sociale. Si riteneva, tuttavia, che agli artigiani germanici, di cui fin dalla fase danubiana - come attestano i ritrovamenti nella tomba di Poysdorf in Austria Inferiore (Vienna, Naturhistorisches Mus.) - erano noti corredi con gli attrezzi dell'arte, fosse attribuito in esclusiva il compito di riprodurre gli oggetti più tradizionali del costume, nei quali si esibiva l'appartenenza tribale e razziale; i recenti trovamenti a Roma (crypta Balbi) di avanzi di lavorazione relativi proprio a questi manufatti gettano tuttavia una luce nuova su tutta la problematica. Vi erano in realtà ampi indizi in questa direzione: per es. nella riconosciuta matrice romanza delle decorazioni di scudi da parata (quindi già nella sfera dell'armamento dell'arimanno), negli ornati, ottenuti da modani commisti di decorazioni animalistiche e tardoantiche, presenti nelle crocette di lamina d'oro, poste a ornare i veli funebri. Non erano mancati tentativi di interpretare, invece che in senso meramente cronologico o come evidenza di scambi commerciali, la presenza di oreficerie tardoantiche nel sepolcreto di Castel Trosino o la diversa composizione dei corredi di Nocera Umbra come tracciante di processi di acculturazione. Tuttavia, sono ormai necessarie analisi specifiche. Il riesame critico della necropoli di Castel Trosino, appena compiuto, dimostra l'impossibilità di applicare al sepolcreto il modello interpretativo delle deposizioni familiari longobarde e di leggere le presenze alloctone come processi di acculturazione successivi all'invasione. Infatti le deposizioni di età longobarda si sovrappongono e alterano un precedente sepolcro di abitanti romanzi del castello bizantino. Il nuovo dato acquisito a Roma nel contesto dello scavo stratigrafico della crypta Balbi è quindi particolarmente significativo.Indagini in area urbana, condotte a Brescia, Milano, Pavia, Modena, Verona, Salerno, hanno confermato la continuità della vita urbana nei centri di antica origine, del resto desunta dal quadro storico: l'insediamento dei re longobardi nei palazzi teodoriciani di Pavia e di Verona, la presenza di sedi vescovili (talvolta anche di osservanza ariana) nelle principali città, l'insediamento nel sistema di castelli e fortificazioni, soprattutto in zona alpina. L'apporto dell'archeologia è ancora troppo parziale e discontinuo, ma il profilo qualitativo della maglia urbana che emerge dagli scavi è in genere molto basso: riuso di edifici preesistenti con frammentazioni di più ampie insulae romane, introduzione di strutture lignee, rarefazione dell'abitato con inserimento di spazi adibiti a uso agricolo. Il quadro economico, desumibile dallo studio delle ceramiche di importazione, segnala nel sec. 7° un'ulteriore rarefazione dei commerci transmarini attestata dal declino di presenze di contenitori anforici e ceramiche da mensa africani e orientali, più accentuata nelle aree interne, cui fanno riscontro una marcata regionalizzazione nelle produzioni italiane, una semplificazione di forme e una perdita di qualità tecnologiche.In questo scenario acquistano maggior risalto gli oggetti suntuari mediterranei attestati dai corredi, che segnalano il divario di ricchezza dei ceti dominanti. Nell'insieme non si percepisce la crisi violenta un tempo ipotizzata, ma la continuità nel segno dell'accentuarsi dei processi negativi, di depauperamento e frammentazione, in atto nella penisola dal 5° secolo. È però prematuro trarre deduzioni di valore generale dai limitati ambiti indagati; tanto più che nella seconda metà del sec. 7° e nell'8° si fanno più numerose le fondazioni regie, o di alti personaggi longobardi, di monasteri e chiese, di cui sopravvivono avanzi della decorazione pittorica o della suppellettile architettonica scolpita. In questi casi, come a Brescia, Pavia, Castelseprio, Spoleto, gli strati dominanti dei L. mostrano di aver attinto a scuole orientali, costantinopolitane; addirittura gli stucchi di S. Maria in Valle a Cividale mostrano precisi contatti con analoghe decorazioni dei castelli omayyadi siro-giordani. Non a caso la produzione artistica attivata da questa committenza regia longobarda del sec. 8° viene da alcuni attribuita all'età carolingia. Paradossalmente nel momento in cui una sorta di ripresa, ancora non chiarita nelle sue cause, parve consolidarsi in Italia, avvenne la sconfitta dei Longobardi.Il processo ha un interessante punto di osservazione nel Sud: a Benevento, dove il radicamento longobardo fu più durevole e si prolungò in età carolingia, si determinò una vera e propria scuola in campo artistico e, nell'intreccio dinastico che dominò monasteri e sedi ducali, emerse l'importanza culturale, politica ed economica dei centri monastici come Montecassino e S. Vincenzo al Volturno. Lo scavo qui condotto ha gettato nuova luce sulla rifondazione, avvenuta nell'808, e sui suoi sviluppi con nuovi incrementi all'epoca dell'abate Epifanio (833), per cui si è parlato di una 'Fulda del Sud'. Il monastero era un centro di produzione, in primo luogo per l'ampliamento e la decorazione della fabbrica: fornaci e officine vetrarie produssero materiali per la costruzione, impreziosita da rivestimenti pregiati, ove si rintraccia il linguaggio della scuola beneventana. Resta, tuttavia, ancora incerto il rapporto tra proprietà fondiaria e commercio nella produzione di ricchezza. Occorre che più estese e capillari indagini verifichino se, come gli scavatori ipotizzano, furono davvero assai forti i legami di questo monastero del Sud longobardo con gli altri centri monastici benedettini dell'Europa carolingia e i loro collegamenti con gli empori marittimi del Nord, nella nuova circolazione di merci e di ricchezza che sembra dal sec. 8° nuovamente ricollegare, attraverso l'Italia, Mediterraneo abbaside ed Europa.

Bibl.:

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Architettura

Nei territori sottoposti al dominio dei L., l'architettura presenta in sede critica principalmente problemi di documentazione, in quanto vittima di massicci rifacimenti posteriori nonché di vere e proprie demolizioni che ne hanno pressoché cancellato le tracce (Peroni, 1984). Tranne qualche caso di trovamento e riconoscimento fortuito, lo studio si basa sulle ricerche toponomastiche e soprattutto archeologiche, alle quali va il merito di aver confermato, almeno per quello che concerne la planimetria degli edifici ecclesiastici e palaziali, le notizie storiche della Hist. Lang. di Paolo Diacono, secondo la quale i L. furono promotori e committenti di molte nuove costruzioni.Nel campo dell'edilizia civile, il primo periodo della dominazione longobarda appare contrassegnato dal riuso di strutture preesistenti ascrivibili alla dominazione gota, generalmente ubicate a ridosso delle mura o presso le porte cittadine, secondo una tendenza insediativa tipicamente germanica. I sovrani longobardi occuparono infatti i palatia eretti da Teodorico a Verona e a Pavia; quest'ultimo, ubicato presso porta Palacense, noto peraltro solo da citazioni documentarie (Hist. Lang., V, 36), venne restaurato già ai tempi di Arioaldo (625-636). Gli ambienti principali dei palazzi dovevano essere la sala, il luogo dove il sovrano espletava le sue funzioni pubbliche e dove si svolgeva la maggior parte della vita di corte, e la laubia, dove il re esercitava la giustizia. Nella Langobardia Minor sono state trovate tracce del palazzo costruito da Arechi II (758-787) a Salerno (Peduto, 1990, pp. 324-325), che venne ricostruito in età normanna, a due piani e cappella palatina annessa al primo piano e probabilmente raggiungibile tramite una scala esterna.Con i L., fin dai primi del sec. 7°, le città continuarono a svolgere un ruolo essenziale sul piano politico e religioso, sen za soluzione di continuità con i secoli precedenti. La prima fase di stanziamento in Italia, alla fine del sec. 6°-inizi 7°, è identificabile nell'occupazione dei recinti ellittici degli anfiteatri romani (per es. Capua, Spoleto), che assicuravano con la loro posizione vantaggiosa una buona possibilità di arroccamento e controllo della città. In seguito, con l'inurbamento della popolazione, gli anfiteatri vennero sfruttati come aree cimiteriali. Forme insediative sono presenti su siti di origine romana, ottenuti riadattando le antiche domus. L'edilizia privata, che mostra un generale degrado nei primi del sec. 7°, documentabile sulla base di numerosi scavi effettuati per es. nelle città di Pavia, Milano, Verona, Mantova, Modena, Brescia, Luni, è costituita prevalentemente da abitazioni con alzato in legno. Recenti sondaggi, condotti nell'area delle insulae romane di S. Giulia e dell'Ortaglia a Brescia (Brogiolo, 1992), hanno fornito interessanti dati circa le tipologie abitative cittadine tra la fine del sec. 6° e gli inizi del 7°, suddivisibili in tre gruppi fondamentali: abitazioni con basi in muratura e alzato in legno; interamente in legno e parzialmente interrate; con basi in muratura a secco e alzato in legno. L'analisi delle tracce di questi edifici e della stratigrafia dei livelli d'uso ha consentito di individuare, oltre a una generica omogeneità con le abitazioni di altri siti coevi dell'intera Europa altomedievale e più in particolare con unità abitative dell'Italia settentrionale, come per es. Ibligo/Invillino, Castelseprio e Luni, anche una continuità con le capanne seminterrate dell'area pannonica, tanto da confermare la datazione proposta. Inoltre, i ritrovamenti antropologici e ceramici, la posizione delle abitazioni nel quadrante nord-est delle città, insieme con i dati documentari circa la pertinenza dei siti al fisco regio (Codice diplomatico longobardo, III, 1, 1973, nrr. 31, 38), confermerebbero il carattere misto longobardo e italico degli insediamenti urbani, permettendo così di considerare superata l'invalsa convinzione riguardo alla rigida separazione etnica tra L. e popolazione autoctona nei centri abitati.La lenta evoluzione delle abitazioni del periodo longobardo, probabile conseguenza dell'esperienza della civiltà urbana, della progressiva conquista dei territori dell'Italia settentrionale, centrale e meridionale, e dell'intensificarsi dei contatti con le popolazioni autoctone, è documentata ancora una volta dall'analisi delle sequenze abitative della città-campione di Brescia, dove è stata messa in luce una fase successiva, databile con discreta approssimazione alla seconda metà del sec. 7° ca., e dunque contemporanea all'edificazione della prima chiesa di S. Salvatore. Contrassegnato da abitazioni interamente in muratura in opera incerta con pietre legate da malta, disposte intorno a un cortile, l'insediamento sembrerebbe promosso da una committenza che disponeva di discrete possibilità economiche e concepito secondo un progetto unitario nella disposizione planimetrica delle unità abitative in base alla consueta tradizione tardoromana e poi gota (Brogiolo, 1992, pp. 202-203).Nella Langobardia Minor le abitazioni, documentate piuttosto diffusamente intorno al sec. 11°, per es. a Salerno e a Benevento (v.), sono in muratura a uno o più piani (terraneae e fabritae solariatae); a Salerno sono peraltro noti anche edifici a un unico piano, denominati con un termine di tradizione bizantina, catodei, nel rione dei Barbati di sicura origine longobarda.Per quanto concerne l'edilizia militare, sono numerose le notizie desumibili dalla Hist. Lang. di Paolo Diacono circa i castra che dovevano difendere i confini del regnum dalle incursioni di popolazioni germaniche; costituiscono esempi di scavi condotti con criteri scientifici e sistematici (Bierbrauer, 1987) i castra di Castelseprio (v.) e di Ibligo/Invillino (Hist. Lang., IV, 37) nel Friuli. Qui, sul colle Santino, che presenta una prima fase di frequentazione, tra i secc. 1°-4°, di probabile carattere agricolo, e un secondo momento, fino alla prima metà del sec. 5°, in cui si registrano attività metallurgiche e di fabbricazione del vetro, sorse, dopo una successiva fase di abbandono, un insediamento diverso nelle strutture e con finalità nuove, attestato fino alla seconda metà del 7° secolo. Sebbene questo periodo sia caratterizzato da abitazioni in legno su base in muratura a secco e pali angolari di sostegno secondo la consueta tipologia, nulla indica con certezza che questo castrum fosse di esclusiva pertinenza longobarda; anzi, i ritrovamenti archeologici, che denotano la presenza di oggetti di produzione eterogenea, oltre alla ceramica decorata a stampo o a stralucido, sembrerebbero alludere a una semplice occupazione del sito.Nell'Italia meridionale durante la prima fase di conquista, identificabile nella progressiva e rapida occupazione militare dei numerosi castra romano-bizantini, fu avviato un sistematico programma politico-militare di difesa e presidio del territorio, attuato anche mediante la costruzione di strutture che richiamano precedenti romani. La torre della Catena della primitiva fortificazione longobarda di Benevento, della fine del sec. 6°, costituisce una delle prime manifestazioni autonome della tecnica edilizia militare longobarda, che si rivela estremamente raffinata negli spigoli rafforzati da conci angolari di calcare e nell'inserimento di bugne emisferiche nella muratura (Peduto, 1990, p. 364). Un successivo esempio analogo è il castrum longobardo di Avella (prov. Avellino). Situata presso il confine con il ducato bizantino di Napoli e databile alla prima metà del sec. 7°, la fortificazione è costituita da una cortina muraria dall'andamento ellittico, rafforzata da nove torri. La tecnica muraria omogenea, simile all'opera incerta, risulta assai discontinua nelle torri, di tipologia troncoconica e troncopiramidale, dove in alcuni casi non vi è il rafforzamento angolare (Peduto, 1990, p. 366). Esempi analoghi sono stati riconosciuti a Castel San Pietro (prov. Benevento) e a Civita di Ogliara presso Montella (prov. Avellino), al confine dei territori di Salerno e Benevento. I successivi interventi edilizi militari dei L., consolidatasi ormai l'occupazione del territorio, si concentrarono sulla fortificazione dei centri politico-amministrativi che costituirono il fulcro dei gastaldati.Un forte impulso alle nuove costruzioni civili ed ecclesiastiche si ebbe nei territori del regno all'indomani della conversione dei L. dall'arianesimo al cattolicesimo, su impulso di papa Gregorio Magno, promossa dalla regina Teodolinda, moglie prima di Autari (584-590) e poi di Agilulfo (591-615). Il programma della committenza regia denuncia l'uso consapevole delle simbologie del potere e i caratteri di un chiaro programma organico, tanto nella produzione architettonica quanto in quella dei manufatti artistici (Romanini, 1992, pp. 59-60). Queste peculiarità, insieme alla forte e radicata tradizione locale - evidente soprattutto per quanto concerne le tecniche costruttive e testimoniata anche dalla presenza dei magistri comacini, il ceto artigiano di nazionalità romana per il quale l'editto di Rotari stabiliva le tariffe circa le opere murarie -, contraddistinguono tutte le nuove fondazioni longobarde.Nel campo dell'edilizia religiosa appare estremamente problematico cogliere tanto un quadro d'insieme quanto linee di sviluppo omogenee a proposito delle tipologie planimetriche o dello svolgimento in alzato degli edifici chiesastici nel corso dei secoli di dominazione longobarda. Il forte peso delle singole componenti linguistiche e delle matrici locali denuncia infatti un evidente pluralismo culturale di un popolo privo di tradizioni architettoniche riguardo l'edilizia chiesastica. La promozione delle nuove costruzioni risulta in questo senso quanto mai variegata e densa di novità peculiari che di fatto furono componenti essenziali delle successive rielaborazioni carolinge e della genesi di motivi che si attestarono nel campo dell'architettura preromanica.Particolare fortuna sembra godere, in un lasso di tempo variabile, ma in un'area relativamente circoscritta all'Italia settentrionale, lo schema icnografico triabsidato, di origine orientale, a una o a tre navate, con o senza transetto, penetrato nel territorio longobardo tramite canali adriatici, la cui diffusione sembrerebbe dovuta a esigenze di carattere liturgico. Queste architetture, nonostante le singole varianti di impianto, hanno in comune generalmente anche le dimensioni contenute.Uno dei primi edifici con pianta a T e terminazione a tre absidi a ferro di cavallo, databile con buona approssimazione alla seconda metà del sec. 7° dall'esame delle sequenze stratigrafiche del sito, è la prima chiesa di S. Salvatore a Brescia (Brogiolo, 1992, pp. 200-201). La tipologia e la sopravvivenza di questo schema icnografico in ambito adriatico e alpino sono testimoniate nel sec. 8° dal monastero benedettino di S. Maria in Sylvis a Sesto al Réghena (prov. Pordenone). La piccola chiesa ad absidi estradossate, la cui fondazione intorno alla metà del sec. 8° da parte dei tre fratelli di stirpe longobarda Erfo, Anto e Marco può essere stabilita in base a un documento di donazione ante 762 (Torcellan, 1988), presenta le due absidi laterali a ferro di cavallo collegate mediante un angolo retto ai muri perimetrali del presbiterio; questa soluzione è in analogia con la chiesa di S. Quirino presso Dignano (prov. Udine; Tavano, 1990).Tra i primi impianti triabsidati ad aula unica rimangono cospicui resti di S. Alessandro di Fara Gera d'Adda (prov. Bergamo), fondato da re Autari (584-590; Codice diplomatico longobardo, II, 1933, nr. 293; Merati, 1980), inglobati nella rielaborazione cinquecentesca dedicata a s. Felicita. Del primitivo impianto sono riconoscibili l'abside maggiore - mutila nel lato superiore, pentagonale all'esterno e semicircolare all'interno -, parti delle due absidiole laterali e il muro della navata destra. Al centro di ciascuna abside, in alzato, è una monofora: quella centrale è conclusa da un arco a tutto sesto. L'esterno del monumento è articolato da arcate cieche, di chiara ascendenza bizantino-ravennate, motivo posto in rapporto con la filiazione successiva degli archetti pensili dell'architettura romanica (Peroni, 1989). La tecnica costruttiva, in laterizi romani di spoglio, ha permesso di mettere in relazione questa fabbrica con la chiesa a pianta basilicale di S. Maria alle Cacce o foris portas a Pavia, della prima metà del sec. 8°, di cui costituirebbe un ipotetico precedente (Peroni, 1989).Un altro esempio della tipologia triabsidata è il notissimo caso dell'oratorio di S. Michele alla Pusterla nel monastero benedettino di S. Maria Teodote a Pavia, della fine del sec. 7° (Hist. Lang., V, 37); l'antico impianto, orientato e di piccole dimensioni, di cui rimane parte dell'area presbiteriale articolata all'esterno da un sistema di paraste a intervalli irregolari, inglobato in successive strutture quattrocentesche, è costruito in laterizi romani di reimpiego. In pianta, il presbiterio - originariamente delimitato da transenne marmoree - è anticipato da due basamenti di colonne che, non trovando continuazione nell'area della chiesa, denotano non già l'impianto basilicale, bensì l'aula unica terminante in un presbiterio decorato da due colonne. Il piccolo oratorio risulta affiancato da una torre che mostra il consueto motivo delle arcature cieche, in questo caso con terminazioni a doppio spiovente, che inglobano piccole croci ottenute con gli stessi laterizi. Il motivo delle colonne che introducono il presbiterio della chiesa di S. Michele è individuabile anche nella chiesa del monastero di S. Maria d'Aurona a Milano, fondata da Aurona, figlia del re Ansprando, edificio noto esclusivamente da una planimetria cinquecentesca (Milano, Arch. Arcivescovile, sezione II, Ordini e Congregazioni, vol. 62; de Capitani D'Arzago, 1944, p. 5; Dianzani, 1989). La fonte indiretta mostra un'abside centrale ai lati della quale si aprono due nicchie rettangolari in spessore di muro introdotte da colonne. L'impianto, di probabile origine siriaca, trova un singolare parallelo francese nell'ipogeo di Saint-Laurent a Grenoble (dip. Isère), dove, oltre alle nicchie absidali, sono presenti anche le colonne, e una ripresa a quasi mezzo secolo di distanza in Alto Adige, nella chiesa di S. Benedetto a Malles, che denota la continuità e la fortuna di questo motivo anche durante la successiva età carolingia, soprattutto in area retica.Esempi dello stesso schema icnografico, nella sua variante a tre navate, sono rintracciabili nella chiesa di S. Giovanni Evangelista di Castelseprio, edificio che presenta almeno tre fasi costruttive distinte, dal sec. 5° all'età carolingia. La persistenza di questo motivo durante tutto l'arco del sec. 8° è testimoniata anche da altri episodi, quali la chiesa cimiteriale a tre navate divise da pilastri di S. Michele in Insula a Trino (prov. Vercelli), anticamente dedicata a s. Emiliano, costruita anch'essa in laterizi romani di spoglio, al centro di una fortificazione ellittica altomedievale (Cammarata, 1990, p. 272), e le due chiese di Sirmione, dipendenti dal monastero di S. Salvatore a Brescia: S. Pietro in Mavinas, già esistente nel 765 (Codice diplomatico longobardo, II, 1933, nr. 188), e il monastero di S. Salvatore (Brogiolo, Lusuardi Siena, Sesino, 1989). Quest'ultimo, fondato dalla regina Ansa, moglie di Desiderio (765-774), e databile con precisione a un lasso di tempo tra il 766 e il 770 (Codice diplomatico longobardo, II, 1933, nr. 257; III, 1, 1973, nr. 44), presenta la chiesa con tre absidi sporgenti a sesto oltrepassato, articolate all'esterno da paraste. Rappresenta un ulteriore esempio della diffusione di questa planimetria l'emblematico caso della seconda chiesa di S. Salvatore a Brescia (753), da molti studiosi messa in relazione per il suo corredo decorativo di pitture e di stucchi con S. Maria in Valle a Cividale (v.; Peroni, 1984).Gli impianti centralizzati, che appaiono precocemente e in maniera discontinua nel panorama dell'architettura di epoca longobarda, denunciano evidenti prototipi latini interpretati in inedite varianti. Oltre alle notizie riguardo alla distrutta chiesa di S. Giovanni a Monza, fatta costruire dalla regina Teodolinda (Hist. Lang., IV, 22), un esempio di edificio a pianta centrale dai programmatici rimandi a precedenti paleocristiani è il battistero di Lomello (v.), del principio del sec. 7°, ricostruito su un impianto più antico a cui andrebbe riferita la vasca battesimale esagona. L'edificio, cruciforme a nicchie semicircolari estradossate, alternate ad altrettante rettangolari, mostra una spazialità spoglia, se confrontata con prototipi quali i battisteri di Fréjus (dip. Var), Novara o Albenga, ed è caratterizzato da un inedito slancio verticale sottolineato all'esterno dai profili lineari di taglio geometrico (Romanini, 1975); nella tessitura della cortina muraria e nel motivo decorativo delle lesene con terminazione a doppio spiovente, inoltre, sono da sottolineare le affinità con la torre del monastero della Pusterla a Pavia. Lo slancio verticale si dimostra ancora più evidente nella chiesa pavese di S. Maria in Pertica, distrutta nel 1815 e nota da un disegno di Leonardo da Vinci (Parigi, Inst. de France, B., c. 55v) e dal rilievo del 1732 di Gianantonio Veneroni (Pavia, Civ. Mus.). L'edificio, commissionato da Rodelinda, moglie del re Pertarito (661, 671-688), appare informato a una scelta 'antichizzante' legata alla volontà di affermazione della committenza cattolica che da Teodolinda in poi caratterizzò appunto la seconda metà del sec. 7°, e costituisce una ripresa e una reinterpretazione della tradizione degli impianti centralizzati. Il legame con la committenza longobarda è inoltre ribadito dalla dedicazione stessa della chiesa cimiteriale, fuori dalle mura cittadine; l'espressione 'in pertica' trae origine infatti dalla consuetudine dei L. di porre nei cimiteri lunghe aste sormontate da figure di colombe. Dal rilievo settecentesco si desume come l'edificio fosse caratterizzato all'esterno dall'andamento poligonale e all'interno da una cupola su un alto tamburo - alleggerito esternamente da arcate cieche - impostata su un giro di sei colonne con ambulacro esterno decagonale articolato da nicchie rettangolari in spessore di muro.Le innovazioni nel campo dell'architettura religiosa, intese anche come vere e proprie sperimentazioni formali, applicate su una comune fonte di origine classica, sono da riscontrare anche in un altro edificio a pianta centrale, tempio nazionale dei L., commissionato da Arechi II intorno al 760: la Santa Sofia di Benevento. L'edificio, nonostante l'evidente scarto cronologico e le puntuali differenze così di impostazione architettonica - soprattutto nel perimetro esterno mistilineo ad andamento circolare e stellare - come di tecnica costruttiva a muratura listata, ha in comune con la chiesa pavese il medesimo atteggiamento culturale, che, desunto da prototipi antichi, giunse a uno sviluppo di forme e a una rielaborazione che di fatto si pone come una reale continuità con l'Antico (Romanini, 1975). Un altro edificio a pianta centrale, nel territorio della Tuscia, è la chiesa di S. Stefano ad Anghiari (prov. Arezzo), datata ipoteticamente tra il sec. 7° e l'8° (Salmi, 1970), che presenta un impianto cruciforme con i quattro bracci a terminazione semicircolare e un alzato in muratura in materiale di spoglio, movimentato all'esterno dalle consuete archeggiature cieche. Recentemente identificato come di matrice e ispirazione longobarde, nonostante evidenti suggestioni bizantine, è infine il problematico S. Angelo di Perugia, della fine del sec. 6°, con pianta commista circolare e cruciforme (Castellani, in corso di stampa).La ripresa programmatica dell'impianto basilicale appare relativamente tardi nel panorama dell'architettura di matrice longobarda, almeno in prossimità dell'avvento dei Franchi (Peroni, 1974). Un precoce esempio di questa icnografia è costituito dalla chiesa cimiteriale di S. Giovanni in Conca a Milano, la cui ricostruzione su un precedente impianto paleocristiano sembra risalire a età teodolindea. Sacrificato per esigenze di viabilità alla fine dell'Ottocento, l'edificio conserva solo la parte dell'abside estradossata, decorata esternamente da paraste, e la cripta, che sembrerebbe derivare dall'impianto paleocristiano del S. Simpliciano. Alla prima metà del sec. 8° risale la chiesa di S. Maria alle Cacce a Pavia, in origine a tre navate divise da colonnati, di cui rimangono solo - dopo la ristrutturazione avvenuta durante gli anni Quaranta - una finestra con archeggiature cieche nella parete nord, una colonna con capitello di spoglio e la cripta a corridoio trasversale (Peroni, 1989). L'analisi dell'apparecchiatura laterizia, posta in opera con discreta regolarità, ha permesso di considerare questo edificio come il precedente della seconda basilica bresciana di S. Salvatore, di probabile fondazione desideriana. Il monumento rappresenta un ulteriore episodio di elaborazione formale dell'organismo basilicale di area adriatica.Nel territorio del ducato di Spoleto rimangono poche tracce di strutture chiesastiche chiaramente identificabili. L'abbazia di Farfa (v.), nota dal Chronicon Farfense di Gregorio da Catino (1060-1132), l'abbazia di Ferentillo (v.), fondata da Faroaldo II (703-720), duca di Spoleto, e la chiesa suburbana di S. Salvatore a Spoleto restituiscono solo labili e contrastate testimonianze dell'intensa attività edilizia che dovette caratterizzare quest'area geografica.Un complesso pluralismo culturale, dalle molteplici matrici e dalle creative innovazioni formali, caratterizza anche l'intricata vicenda architettonica del ducato di Benevento durante i secoli della dominazione longobarda, che sembra fondarsi sulla tradizione tardoromana e paleocristiana, alla quale unisce i modi desunti dall'Oriente non solo bizantino, per approdare a esiti efficaci, vigorosi e talvolta rudi. Anche nei territori del ducato - sebbene lo stato degli studi denoti un approccio discontinuo e contrastato, evidenziato dall'oscillare delle datazioni, spesso desunte esclusivamente dall'analisi delle murature secondo un'ipotetica evoluzione dall'opera a sacco alla muratura listata - le soluzioni architettoniche individuate non offrono tipologie edilizie uniformi.Uno dei primi edifici della Langobardia Minor, la beneventana S. Ilario a Port'Aurea, introduce direttamente alla questione degli impianti con copertura con due cupole in asse, di probabile ascendenza bizantina. Questo edificio, datato tra la fine del sec. 7° e gli inizi dell'8° (Rotili, 1990) - ipotetica fondazione di Teoderada, moglie di Romualdo I (662-687), promotrice della conversione al cattolicesimo dei L. nel Meridione -, unisce la tradizione antica nella scansione dello spazio interno, attraverso l'uso degli archi, con tipologie di origine bizantina, riconoscibili nella coppia di cupole. La datazione dell'edificio è stata ipotizzata dall'esame della tecnica costruttiva in opus incertum presente nelle torri della prima cinta della città di Benevento, edificate nel periodo iniziale dell'occupazione longobarda. La cronologia trova inoltre evidenti conferme dal confronto dell'edificio con il tempietto di Seppannibale presso Fasano (prov. Brindisi; Bertelli, 1994), in qualità di efficace prototipo. Questo impianto a tre navate, dedicato a s. Pietro Veterano e datato entro la metà del sec. 9° sulla base del ciclo delle pitture murali e dell'esame dei caratteri paleografici della problematica iscrizione dedicatoria con il monogramma indecifrato del committente sull'arco di accesso all'abside, reinterpreta con efficacia creativa il prototipo di S. Ilario. La struttura compatta, a due cupole in asse su pilastri raccordate alle pareti d'ambito da volte rampanti interrotte da diaframmi, è stata riconosciuta come un importante precedente delle costruzioni a cupole in asse con semibotti laterali, caratteristiche del Romanico pugliese (Belli D'Elia, 1990), e denota una spazialità dinamica che, pur denunciando un'analogia con le soluzioni volumetriche del mondo bizantino, se ne distacca caratterizzandosi come monumento di chiara committenza longobarda (Peduto, 1990, p. 370). Altro edificio coperto con cupole in asse a una navata è la chiesa di S. Salvatore a Monte Sant'Angelo (prov. Foggia) - ubicata nella diocesi di Siponto, unita a quella di Benevento, e sede di gastaldato -, databile tra la fine dell'8° e la prima metà del 9° secolo. La tecnica costruttiva, a conci di pietra irregolari, ricorda infatti la chiesa di S. Ilario. Il carattere probabilmente regio di questa fondazione può trovare conferma sia nella localizzazione presso le mura cittadine e nella sopraelevazione rispetto al piano stradale, in un sito di sorveglianza della strada principale che conduceva al monte, sia nelle affinità con la chiesa beneventana e nella stessa dedicazione al Salvatore. Inoltre, il ritrovamento di mensole scolpite con motivi a quadrifoglio, accostate per tematiche decorative ad aulici prototipi della Langobardia Maior, colloca la costruzione di questo edificio nel disegno politico attuato da Arechi II dopo la caduta del regno a opera dei Franchi, teso a recuperare e a continuare la tradizione di schietta impronta longobarda (Falla Castelfranchi, 1982-1983). Egli infatti, accogliendo nei territori meridionali del regno i profughi longobardi del Settentrione e assumendo il titolo di princeps, si propose come continuatore del potere monarchico. L'imponente e programmatica attività edilizia promossa dal principe longobardo appare evidente nella riorganizzazione della città di Salerno - che era stata sottratta nel 639-640 da Arechi I al ducato bizantino di Napoli -, dove fece edificare un nuovo palazzo all'estremità del castrum e una cappella palatina di recente identificazione (Peduto, 1990, pp. 324-325), con impianto ad aula rettangolare e abside quadrata. Attraverso i numerosi ritrovamenti dei rivestimenti decorativi ed epigrafici del complesso palaziale (iscrizioni latine in raffinate lettere capitali) trova conferma l'autocosciente recupero, da parte della corte longobarda, di un ideale classicistico nella riproposizione delle proclamazioni epigrafiche dei monumenti antichi (Delogu, 1992, p. 319).Se l'impianto centralizzato, per quanto è noto, trova riscontri quasi esclusivamente nella chiesa di Santa Sofia di Benevento e in quella - distrutta durante la seconda guerra mondiale - di S. Maria delle Cinque Torri a Cassino (prov. Frosinone; Pantoni, 1975), maggiore fortuna e diffusione sembra avere, nei territori centromeridionali del regno, lo schema basilicale. Affine alla Santa Sofia come tecnica costruttiva, per l'utilizzo di muratura in opera listata in tufo e mattoni, è la basilica rupestre della SS. Annunziata di Prata di Principato Ultra (prov. Avellino), databile tra la fine del sec. 8° e gli inizi del successivo (Rotili, 1990). La chiesa, cimiteriale a navata unica, deve la sua asimmetria planimetrica allo sfruttamento parziale di una grotta scavata in un banco tufaceo. Il presbiterio presenta il triforium - una soluzione architettonica di gusto bizantino che ebbe grande fortuna nel campo architettonico altomedievale dell'Italia meridionale, come mostra anche la più tarda chiesa di S. Michele a Corte a Capua - costituito da una triplice arcata, di cui la centrale più ampia su colonne antiche e capitelli ionici, e le due laterali, di minori dimensioni, che immettono direttamente al deambulatorio. Questo, sopraelevato e ricavato nel tufo, corre intorno all'abside semiellittica articolata dal sedile in muratura posto alla base della grande nicchia assiale estradossata destinata ad accogliere la cattedra; la soluzione spaziale della nicchia deriva con ogni probabilità dalla vicina chiesa di S. Giovanni di Pratola Serra (prov. Avellino), fondata tra la fine del 6° e gli inizi del 7° secolo. L'abside comunica con il deambulatorio tramite una serie di sei archetti su colonnine tortili fittili impostate su uno stilobate. Un altro impianto basilicale dalla chiara spazialità di ascendenza paleocristiana - dubitativamente ascritto tra la fine del sec. 5°-inizi 6° oppure tra la fine del 7°-inizi 8° (Cielo, 1990) oppure all' 8° (Rotili, 1990) - mostra la chiesa di S. Maria della Compulteria presso Alvignano (prov. Caserta), che potrebbe essere identificata come un rifacimento di epoca longobarda di un edificio paleocristiano. La chiesa è preceduta da un atrio ed è attualmente a tre navate, nonostante in origine dovesse presentarne una sola. La tecnica costruttiva, anche qui con la muratura listata in tufelli e mattoni utilizzata anche nei pilastri, è stata presa come termine di riferimento per la datazione alta dell'impianto, in quanto trova paralleli negli edifici romani del sec. 7° (Cielo, 1990). Il raffinato uso del laterizio risulta evidente nella copertura a gradoni decrescenti dei laterizi del semicatino absidale e nelle decorazioni inserite nella muratura esterna a formare croci, come in S. Michele alla Pusterla a Pavia, e foglie di palma molto simili a quelle della chiesa di S. Anastasia a Ponte (prov. Benevento), della fine del 9° secolo. Ascrivibile dubitativamente al sec. 8° e memore dei precedenti paleocristiani è quanto rimane della chiesa della SS. Trinità di Venosa (prov. Potenza), nel gastaldato di Acerenza, fondata nell'area di una basilica cristiana tardoantica, a tre navate, poi riedificata in età normanna, anch'essa in muratura a corsi lapidei alternati a filari di laterizi. Sempre nella consueta muratura listata, e con impianto mononavato di piccole dimensioni, è la chiesa a navata unica di Santa Sofia a Canosa (v.), sede di un importante gastaldato. Il piccolo edificio extra muros sorge presso l'ingresso della catacomba omonima e denuncia due successive fasi edilizie: una paleocristiana e una longobarda.Il panorama dell'architettura della Langobardia Minor è arricchito dalle chiese ad curtim costruite a Capua (v.): S. Salvatore e S. Michele (Cielo, 1990). La prima, della fine del sec. 9°-inizi 10°, forse in origine con funzione di chiesa palatina, denota il forte legame con la tradizione locale tradotto in forme di rude solennità nella scansione interna in tre navate, un'abside e originariamente un nartece, passato poi a far parte dell'aula in occasione di un restauro duecentesco. L'impianto ad aula della coeva S. Michele a Corte, di più facile lettura, sembra maggiormente legato a suggestioni di matrici bizantine mediate dal lessico latino, soprattutto nel triforium su due colonne che divide le navate dal presbiterio sopraelevato. Su questo si imposta un alto tamburo quadrato sostenuto da archi e culminante in una piccola cupola ribassata, soluzione che ricorda esempi orientali tradotti in inedite formule rudimentali. Lo slancio verticale di S. Michele è in analogia con la chiesa di S. Maria delle Cinque Torri a Cassino, a pianta centrale a croce greca inscritta in un quadrato di chiara ascendenza bizantina, rielaborata in accordo con i modi dell'Europa nordoccidentale mediante l'addizione delle torri. Sempre in area capuana, la chiesa dei Ss. Rufo e Carponio, della prima metà del sec. 11°, di impianto basilicale a tre navate e abside, conferma la ripresa dello schema compositivo paleocristiano caratterizzato dallo stesso senso di monumentalità antica di S. Salvatore a Corte.La tipologia planimetrica triabsidata nei territori meridionali del regno sembra riconoscibile in due edifici di recente identificazione, entrambi in prov. di Avellino: le cattedrali di Frigento (Rotili, 1994-1995) e di Sant'Angelo dei Lombardi (Rotili, 1990). Del primo impianto, databile al sec. 8°-9° e riconosciuto in occasione dei restauri successivi al terremoto del 1980, sopravvivono le strutture delle absidi laterali, inglobate nel rifacimento moderno. La cattedrale di Sant'Angelo dei Lombardi, anch'essa dallo schema planimetrico a tre navate triabsidate, ma di notevoli proporzioni, risale alla tarda epoca longobarda e denota già forme protoromaniche mutuate dall'architettura di area pugliese.

Scultura

Lo studio della scultura definibile così di epoca longobarda come di area e cultura longobarda - superate di fatto le invalse teorie di preminenza 'razziale' circa la prevalenza di una cultura autoctona 'ricca' rispetto a una 'povera' di origine barbarica, considerate come due entità etniche separate e staticamente definite (Romanini, 1991; Melucco Vaccaro, Paroli, 1995) - soffre dell'estrema decontestualizzazione e frammentarietà dei reperti. Essi, conservandosi in genere fuori opera - tranne i rari nonché emblematici casi di corredi decorativi in stucco ancora in situ di S. Salvatore a Brescia (v.) e S. Maria in Valle a Cividale -, presentano difficoltà di lettura obiettive e tali comunque da non consentire addirittura in alcuni casi la definizione della tipologia funzionale originaria dell'oggetto (Melucco Vaccaro, Paroli, 1995). L'interpretazione filologica delle opere viene inoltre a essere aggravata in alcuni casi da arbitrari restauri dagli esiti opinabili o dal successivo reimpiego del manufatto. La perdita della destinazione e funzione originaria fa sì che i reperti - plutei, archi di ciborio, amboni, capitelli, oltre a frammenti di carattere funerario come lastre tombali e sarcofagi - risultino privi del proprio significato di definizione e qualificazione degli spazi architettonici.È da sottolineare inoltre, al fine di un corretto studio metodologico della scultura altomedievale, in un panorama ancora da indagare compiutamente, la possibilità di verificare le originarie policromie e gli inserti colorati di materiale eterogeneo, che dovevano essere numerosi sui manufatti lapidei, come è stato recentemente confermato dal ritrovamento di frammenti di ampolline di vetro colorato al centro degli elementi vegetali degli stucchi di Brescia e Cividale (Saguì, 1993).L'avvento dei L. nel panorama artistico italiano, ben lungi dall'essere portatore di tematiche e stilemi propriamente 'germanici' e dunque dal costituire un'immissione di moduli artistici prodotti nei territori pannonici ante conquista, determinò di fatto una cesura con il passato tardoantico (Romanini, 1991). Gli esempi scultorei dei primissimi tempi della dominazione longobarda - che la pubblicazione tuttora in corso dei volumi del Corpus della scultura altomedievale, basati sulla sistemazione inventariale dei manufatti scultorei e sulla loro campionatura per diocesi, ha evidenziato come di natura discontinua ed episodica - sono portatori di fatto di una natura eversiva (Romanini, 1992), anche nel caso per es. dei notissimi capitelli di spoglio della chiesa ariana esaugurata di S. Eusebio a Pavia, già esistente allo scorcio del sec. 6°-inizi 7°, in cui sembra attiva una bottega artigiana pavese legata alla tradizione, ma aperta e padrona degli stilemi dell'oreficeria di stampo ostrogoto e germanico. Il fenomeno della trasposizione su scala monumentale dei modi dell'oreficeria alveolata non rappresenta un caso isolato, bensì corrisponde ad analoghi esempi scultorei pressoché coevi di area merovingia e visigota, sottolineando la comprovata funzione mediatrice della cultura gota nei confronti della popolazione longobarda ante e post conquista (Romanini, 1991). Circa la radicata tradizione locale, infatti, esistono conferme attestate, per quanto concerne il territorio lombardo, dai ritrovamenti archeologici delle necropoli, nella prov. di Pavia, di Landriano, Torriano e Torre del Mangano, che attestano l'attività di botteghe autoctone per una committenza ostrogota. Questa continuità di tradizione, nella stessa Pavia, sembra ribadita a quasi tre secoli di distanza dalle arche della cripta di S. Felice (sec. 10°).Lo stesso gusto per la decorazione geometrizzante ad alveolo è presente in altre opere del sec. 7° (Romanini, 1969): il frammento proveniente dall'area del convento di S. Tommaso sempre a Pavia (Civ. Mus.), che in origine doveva forse essere completato da stucchi policromi o paste vitree, una lunetta frammentaria a Bobbio (Mus. dell'Abbazia di S. Colombano), una lastra frammentaria murata all'esterno della collegiata di S. Maria Maggiore a Lomello e la notissima lapide di Aldo (v.) a Milano (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica). In tutti questi esempi il fondo degli incavi romboidali, rettangolari, triangolari o circolari, lasciato grezzo, era forse in origine completato da inserti policromi.Accanto a questi esempi di gusto innovatore e geometrizzante, in età teodolindea vennero prodotte opere di segno quasi contrapposto, frutto di una scelta di una tradizione espressiva di matrice se non latina quanto meno autoctona. È il caso dei plutei da Castelseprio (Gallarate, Mus. d'Arte Sacra della Collegiata di S. Maria Assunta), di quelli della chiesa di S. Maria presso S. Paolo a Cantù (prov. Como) e dei due di Monza (Mus. del Duomo). Di questi ultimi, uno, che nelle figurazioni di agnelli affrontati alla croce a bracci patenti rivela la scelta della tematica iconografica di chiara ascendenza paleocristiana, denuncia la volontà della committente Teodolinda di esaltare il cristianesimo anche nei suoi moduli iconografici tradizionali, resi però con una tecnica scultorea basata sulla predominanza dell'elemento lineare, mediante l'uso del graffito, che sembra, nella lavorazione di cerchietti umbonati, riproporre chiare reminiscenze di tecniche desunte dall'oreficeria e dalla lavorazione dell'avorio e dell'osso. In questi plutei sembra prendere il sopravvento, inoltre, l'immediatezza espressiva che nell'essenzialità del simbolo trova la diretta e inequivocabile trascendenza del messaggio cristologico.La dicotomia del sec. 7°, caratterizzata dal coniugarsi di tematiche decorative astrattizzanti desunte dall'oreficeria - sebbene anche in questo campo vadano operate alcune necessarie distinzioni riguardo al tipo di oreficeria, se di tradizione germanica o paleocristiana (Peroni, 1984) - e di ascendenza più genericamente latina, rivissute però tramite una radicale stilizzazione, sembra quindi improntare il panorama italiano del periodo della conversione dei L. al cattolicesimo. Le formule artistiche promosse dalla regina Teodolinda, al di là di una generica riproposizione di schemi iconografici noti e consueti dell'arte paleocristiana, appaiono come scelte consapevoli proprio per il loro portato di significati cristiani tradotti in un linguaggio formale immediato, che, per la sua stessa lineare semplicità, doveva essere accessibile anche per i L. provenienti da tradizioni diverse (Capo, 1990). Il carico di simbolica immediatezza sembra comprovare, nell'emergenza di un'arte di committenza reale, la crescita del gusto delle botteghe popolari, accanto all'evidente sperimentazione di linguaggi derivati da matrici culturali diverse.Nel quadro così delineato spicca l'unico esempio di ritrattistica di tradizione schiettamente classica, la testina in porfido c.d. di Teodolinda (già Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), che, muovendo da precedenti bizantini e copti, giunge a esiti di forte astrazione per mezzo dell'emergenza lineare che enuclea e immobilizza l'immagine (Romanini, 1991).Problematica, nel quadro della scultura longobarda della prima fase della conversione al cattolicesimo, risulta infine l'ascrizione al sec. 7° di un pluteo proveniente dalla chiesa milanese di S. Maria la Rossa (Milano, depositi della Soprintendenza Archeologica della Lombardia; Mirabella Roberti, 1986; Cassanelli, 1987), che - nonostante il consueto motivo degli agnelli affrontati alla croce latina a bracci patenti, decorata da cerchietti umbonati, e il trattamento del vello degli animali, tradotto mediante sottili incisioni lineari - sembrerebbe da porre in un ambito cronologico e culturale differente da quello che ispirò i plutei monzesi. Il bordo superiore della lastra, infatti, coevo con il resto della composizione, con ben altra evidenza plastica e scioltezza di rilievo, sembra rinviare a puntuali confronti datati al sec. 8°, come alcuni frammenti provenienti dal complesso di S. Maria d'Aurona a Milano (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), mentre il motivo delle piccole volute contrapposte è paragonabile a esempi di scuola ligure, intesi come motivi geometrici di botteghe itineranti di tradizione ispano-visigota (Casartelli Novelli, 1978). Il pluteo milanese verrebbe così a inserirsi in una ripresa classicheggiante delle tematiche paleocristiane, dal sapore antichizzante nella riproposizione dell'elemento lineare.Il sec. 8° si apre in Italia con una situazione politica di relativa stabilità, di rifiorite possibilità economiche e di scambi culturali. In questo lasso di tempo, fino alla caduta del regno longobardo a opera dei Franchi nel 774, si concentra la maggior fioritura di opere plastiche. In tale panorama la produzione scultorea si caratterizza per l'emergenza di nuclei di manufatti artistici omogenei secondo le aree di produzione, sottolineando ulteriormente l'importanza dei diversi centri artistici - distinti per tradizioni culturali autoctone, per aperture a nuove suggestioni di matrici 'estere', per botteghe itineranti, ma collegati tra loro da una molteplice rete di scambi determinati dalla viabilità, dal commercio o dai pellegrinaggi.La 'rinascenza liutprandea' - il momento più fecondo della produzione aulica in ambito longobardo della prima metà del sec. 8° - sembra improntare le opere plastiche di area pavese del più schietto classicismo di matrice bizantina, contraddistinguendosi per l'assoluta padronanza dei mezzi tecnici. Alcune opere conservate a Pavia (Civ. Mus.) - quali per es. i plutei provenienti dall'oratorio di S. Michele alla Pusterla, il capitello da S. Giovanni in Borgo, i frammenti epigrafici da S. Agata in Monte, il frammento dall'area del complesso palaziale di Corteolona, la lastra funeraria dal monastero di Senatore (Romanini, 1969; 1992) -, il battistero di Callisto (m. nel 757) a Cividale (Mus. Cristiano), le lastre dell'antico duomo di Modena (Mus. Lapidario del Duomo), due lastre del ciborio della pieve di San Giorgio presso Sant'Ambrogio di Valpolicella (prov. Verona; Lusuardi Siena, 1989b) e i citati frammenti provenienti dalla chiesa milanese di S. Maria d'Aurona, sono esempi guida dell'evoluzione e maturazione di un gusto che trova la sua più compiuta affermazione nella volontaria e cosciente ripresa di impianti compositivi di sapore classico e negli evidenti accenti latini, pur nelle specifiche varianti regionali. La produzione pavese sembra fare capo inoltre allo specifico e ristretto ambiente di committenza regia (Romanini, 1992) e, lungi dall'essere utilizzata come strumento politico, sembra mantenere l'impronta di pietas cristiana datale già da Teodolinda, essendo destinata infatti alla decorazione di chiese e oratori (Capo, 1990); questo carattere religioso sembrerebbe confermato anche dall'identificazione del frammento proveniente dalla curtis regia di Corteolona, che, presentando un cervo che si abbevera al kántharos, andrebbe riferito alla suppellettile decorativa della distrutta chiesa di S. Anastasio (Romanini, 1991). La grande forza sintetica che elabora e traduce i precedenti ravennati si risolve in autonome e inedite formulazioni di grande equilibrio e classica calibratura compositiva. L''asimmetria statica' o 'stasi dinamica' (Sheppard, 1964), determinata dalle composizioni della trama lineare, traduce le suggestioni bizantine in originali soluzioni plastiche dalla misurata ritmica compositiva (Romanini, 1991).La stessa dicotomia che improntava le opere del sec. 7° sembra riproposta anche nei manufatti ascrivibili alla committenza aulica della corte regia pavese. Conferma di questa compresenza di vettori, anche sulla base del vincolante confronto con i paralleli pavesi della Pusterla, rimane il caso della lastra di s. Cumiano a Bobbio (Mus. dell'Abbazia di S. Colombano; v. Bobbio), che - al di là delle probabili mediazioni irlandesi - con l'elegante iscrizione latina menzionante Liutprando, ripropone il tralcio vegetale ad anelli insieme a un bordo più interno lavorato con la tecnica geometrizzante ad alveoli.A tale nucleo propriamente 'pavese' sono da accostare, se si accetta la cronologia desideriana, le lastre della chiesa di S. Salvatore a Brescia (Civ. Mus. Cristiano; Panazza, 1992), che, insieme con la naturalistica figurazione del pavone che denota evidenti spunti descrittivi nel piumaggio, mostrano una singolare compresenza di tematiche desunte dall'oreficeria, nell'emergenza bidimensionale e astratta del tralcio vegetale e soprattutto della cornice inferiore a intreccio.Sul piano artistico, in un panorama ancora da indagare compiutamente, il sec. 8° presenta una casistica di varianti regionali e di immissioni culturali estremamente ampia. I manufatti artistici dei territori dei ducati sembrano distaccarsi dalla produzione aulica della corte per una più decisa autonomia culturale, peraltro confermata anche dalle contrastate vicende politiche. Casi come quello del ducato di Cividale confermano l'intensa circolazione di motivi decorativi e forse delle stesse maestranze in ambiti geografici e culturali ristretti, per es. nell'altare di Ratchis (Cividale, Mus. Cristiano), dove la figura umana, estremamente rara in questo ambito, appare trasfigurata in immagine-concetto mediante una rielaborazione ornamentale di gusto orientale, oppure nell''urna' di s. Anastasia, più probabilmente una cattedra vescovile, nella chiesa di S. Maria in Sylvis a Sesto al Réghena o ancora nel complesso di stucchi della chiesa di S. Maria in Valle (L'Orange, Torp, 1977-1979), in diretta connessione con la produzione artistica di matrice omayyade siro-giordana.Nella stessa Milano, il corredo decorativo proveniente da S. Maria d'Aurona, oltre alle consuete tematiche di ascendenza orientale trascritte con lineare evidenza, denota il sincretismo culturale di stilemi siriaci e ispano-visigotici compresenti talvolta nello stesso manufatto e interpretati in molteplici varianti (Casartelli Novelli, 1978; Peroni, 1984; Dianzani, 1989).A un periodo compreso tra il secondo e il terzo quarto del sec. 8° sono da riferire i gruppi costituiti dalla tomba ad arcosolio del battistero di Albenga (v.), dall'arredo liturgico della cattedrale di Ventimiglia (prov. Imperia) e dai molteplici esempi provenienti dalla diocesi di Torino (Casartelli Novelli, 1974), per i quali, dato il ricorrere delle identiche tematiche decorative geometriche sostanzialmente di matrice ispanovisigota, è stato riconosciuto l'operato di maestranze itineranti di lapicidi operanti nell'ambito della bottega delle Alpi Marittime (Casartelli Novelli, 1978). I lapicidi del Piemonte meridionale e della Liguria di Ponente non riproposero infatti il motivo decorativo degli animali simbolici in posizione dominante, che tanta fortuna ebbe nel campo della scultura pavese di produzione aulica, bensì i temi iconografici geometrizzanti strutturati in complessi insiemi da riconnettere alla tradizione dell'oreficeria, non di area germanica, ma di probabile tradizione paleocristiana, come per es. nella croce perlinata della tomba di Albenga (Peroni, 1984; Casartelli Novelli, 1992a).La scultura in una regione di frontiera come la Toscana - nei suoi esempi-guida di Arezzo (Fatucchi, 1977), di Lucca, con le recinzioni delle chiese dei Ss. Giovanni e Reparata (Ciampoltrini, 1991a; Casartelli Novelli, 1992b), S. Frediano e S. Micheletto (Ciampoltrini, 1991a), di Chiusi (prov. Siena), con i frammenti provenienti dalla distrutta S. Mustiola (Mus. della cattedrale), di Sovana (prov. Grosseto), con il ciborio della chiesa di S. Maria, e di Roselle (prov. Grosseto), con i rilievi della perduta cattedrale, conservati per la maggior parte a Grosseto (Mus. Archeologico d'Arte della Maremma; Ciampoltrini, 1991b) - rappresenta un'ulteriore variante di carattere locale; il caso emblematico di Chiusi evidenzia una ripresa 'diretta' di moduli artistici della corte regia, identificata nella probabile origine pavese dei lapicidi chiamati nella regione dal duca Gregorio, nipote di Liutprando e da lui inviato nella cittadina nel 729, dando in seguito origine a una scuola locale che ebbe i suoi esiti nella più tarda vasca battesimale di Rigoli presso San Giuliano Terme (prov. Pisa; Ciampoltrini, 1991b).Nel territorio delle Marche, oltre al noto esempio murato nella cripta della cattedrale di S. Leopardo a Osimo (prov. Ancona), costituito dalla lapide tombale del vescovo Vitaliano - che partecipa del clima culturale della corte pavese nei decenni centrali del sec. 8° -, i casi dell'ambone proveniente da S. Maria della Misericordia ad Ancona (Mus. Diocesano d'Arte Sacra) e dei frammenti di S. Maria della Piazza della stessa città denotano una produzione qualitativamente e quantitativamente discontinua, escludendo così la possibilità di identificare nella regione una bottega locale (Betti, 1993).Il ducato di Spoleto, come già quello di Cividale, è connotato da un più deciso carattere autonomo nella morfologia, in esempi quali il pluteo di Ferentillo, firmato da Ursus magester, dove prevalgono una forma riduttiva di appiattimento e bidimensionalità della figura umana tradotta in immagineconcetto e una forte schematizzazione degli elementi figurali e geometrici. In questa lastra, per una committenza ducale consapevole e per la volontà cosciente di enfatizzare il rapporto del potere con la realtà locale, operò un artista indigeno, legato alla tradizione autoctona. La stessa comparsa, peraltro assai sporadica, della figura umana sembra una conseguenza del processo di 'romanizzazione' dei L., che nella formazione del gusto predilessero le botteghe del luogo in contrasto con la coeva produzione pavese (Capo, 1990). L'autonomia di tali scelte è ulteriormente confermata da opere che, nello stesso tempo, compiono una ricerca diversa nella ripresa e reinterpretazione di tematiche di origine tardoantica (per es. a Spoleto nei frammenti nelle chiese di S. Giuliano e di S. Eufemia e in quelli erratici nel Mus. Civ.).Collegata al ducato di Spoleto è inoltre l'importante abbazia di Farfa, dove è stato riconosciuto come databile al terzo quarto del sec. 8° un gruppo di sculture architettoniche assai problematiche, che sembrerebbero confermare apporti diretti delle culture visigotiche e aquitaniche (Betti, 1992).Sempre nell'ambito dell'Italia centrale, in particolare a Roma - seppure estranea ai confini politico-culturali della Langobardia -, sono infine da evidenziare, sulla base della resa formale dell'ornato e della medesima sintassi compositiva, le puntuali coincidenze con i modi scultorei delle valli alpine riscontrabili nei frammenti di un ciborio (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo), di ignota provenienza e di recente identificazione, che trovano immediato riscontro nei due archetti liutprandei del ciborio di San Giorgio presso Sant'Ambrogio di Valpolicella e nei frammenti di S. Maria d'Aurona a Milano (Melucco Vaccaro, Paroli, 1995), risultando di fatto isolati nel panorama scultoreo altomedievale romano.La scultura nel ducato di Benevento denota, oltre a una schietta matrice di tradizione locale, influssi generalmente assai differenti, se confrontati con i coevi esempi dell'Italia settentrionale, e dettati dalla lunga dominazione bizantina nella regione. Infatti, accanto a opere mediate dalla rielaborazione locale, esistono esempi di manufatti per i quali, in base all'impaginazione della lastra intorno a un unico motivo vegetale geometrico centrale e alla trattazione del rilievo (per es. Benevento, Mus. del Sannio, pluteo), è stata ipotizzata un'importazione diretta da Costantinopoli che trova precisi riferimenti in analoghi prodotti del Cairo datati al sec. 6° (Farioli Campanati, 1982), piuttosto che a una cronologia mediobizantina (secc. 9°-10°).Dopo un apparente 'vuoto' circoscrivibile al sec. 7°, il pluralismo di accenti trova conferma, tra la fine del sec. 8° e il 9°, nella plastica di area campana, dove non sembrano comparire gli elementi e i temi propri della coeva produzione artistica bizantina. Questo fenomeno è stato collegato a una peculiare scelta della committenza, che, dopo la sconfitta del regno a opera dei Franchi, appare attenta a mantenere intatta la propria coscienza nazionale (Aceto, 1978b), come sembrerebbe anche confermare, sul piano paleografico, l'adozione della minuscola beneventana nei territori meridionali (v. Beneventano-cassinese, Arte).Prodotti più singolari di questa fase della produzione plastica, ascrivibile a botteghe locali, sono i capitelli a incavi geometrizzanti, estremamente diffusi nella regione (per es. nella chiesa di S. Menna a Sant'Agata dei Goti, in quella di S. Marcello Maggiore e nel Mus. Prov. Campano a Capua, a Sant'Angelo in Formis, nel chiostro di Santa Sofia a Benevento); questa tipologia a incavi piramidali con sezione triangolare trova proprio nell'intaglio a Kerbschnitt tipico dell'oreficeria un convincente parallelo. Tuttavia, nell'impossibilità di precisare l'area di provenienza del motivo, che in questi territori appare elevato a principio stilistico di base nella decorazione dei capitelli, e considerata l'ampia diffusione dei manufatti, sembra possibile considerare questi prodotti come un'innovazione peculiare della regione (Cielo, 1978; Aceto, 1990). Questa 'coscienza nazionale', da identificare come continuitas e imitatio della Langobardia Maior, tra la fine del sec. 8° e la prima metà del 9°, trova ulteriore conferma in esempi di plastica scultorea in diretto collegamento con i precedenti di area padana: per es. nelle due mensole decorate con motivi a quadrifoglio di S. Salvatore a Monte Sant'Angelo, che mostrano immediati confronti con la scultura milanese e visigotica (Falla Castelfranchi, 1982-1983), oppure in un frammento di pluteo (Capua, Mus. Prov. Campano) decorato a intreccio (Aceto, 1990). Altri episodi della scultura della Langobardia Minor (per es. le transenne della cattedrale di Teano, quelle del cortile del palazzo Arcivescovile di Napoli o l'archetto di ciborio frammentario nella cattedrale di S. Michele Arcangelo a Casertavecchia), non direttamente collegabili con sculture di cultura bizantina, trovano al contrario convincenti paralleli con la coeva produzione scultorea di area romana e denotano un'autonoma capacità organizzativa dell'impaginazione del rilievo, insieme a una discreta padronanza tecnica.Nel panorama della scultura di area campana, a partire soprattutto dal sec. 9°, altri esemplari di Nola, Cimitile e Capua rivelano un percorso evolutivo e stilistico omogeneo, in parallelo con le lastre prodotte nel ducato bizantino di Napoli (per es. i plutei di S. Maria della Piazza). L'unitarietà di questo sviluppo, dal punto di vista anche iconografico, trova una suggestiva motivazione nella fiorente attività commerciale che caratterizza i principali centri della costa attivi nell'importazione di stoffe dai laboratori orientali, come per es. quelli di Tiro, Alessandria e della stessa Costantinopoli. La circolazione di stoffe comportò di fatto una trasmissione diretta di temi iconografici, come per es. il motivo delle intelaiature geometriche a maglie romboidali, che, documentato nelle stoffe sasanidi, mostra immediati paralleli nelle lastre napoletane e in un pluteo della cattedrale di Sorrento, o i notissimi temi degli animali araldici affrontati a coppie all'albero della vita o isolati, in diretta dipendenza dall'arte tessile bizantina (per es. i plutei della basilica dei Ss. Martiri di Cimitile). Questa tematica, individuabile in un pluteo proveniente da S. Giovanni in Corte a Capua (Mus. Prov. Campano), con due leoni araldici affrontati all'albero della vita, oltre alla totale assenza di valori plastici del rilievo, condotto con assoluta bidimensionalità, trova conferma nella particolare terminazione degli elementi vegetali, che sembrano desunti direttamente da prototipi orientali. Tale particolare connotazione delle opere campane nei secc. 10°-11° risulta inoltre mediata da una resa formale che sembra evocata dall'intaglio del legno o dell'avorio, più che dalla tecnica scultorea vera e propria, e arricchita da minuziose connotazioni superficiali mediante il fitto tratteggio e le file di piccoli fori di trapano. Quel che sembra prevalere in questi esempi è la reinterpretazione locale della cultura di origine e matrice aulica orientale, che, proprio per la posizione geografica della Campania e l'attività commerciale dei suoi porti, venne a trovarsi nelle migliori condizioni per ricevere e assimilare i diretti apporti della cultura bizantina.La produzione di manufatti scultorei in Puglia, dopo una prima fase in diretta parentela con la cultura orientale, confermata dall'assenza del ricorso alla mediazione ravennate, denota infine una più forte elaborazione locale degli stilemi originari. Più che una desunzione diretta da opere bizantine d'arte suntuaria, nei secc. 9°-10° è evidente l'adesione a un codice espressivo che trova i suoi paralleli diretti nell'impaginazione della struttura compositiva con la produzione di opere di piccolo formato, quali gli avori. I temi iconografici confluirono poi nel ricco patrimonio espressivo del Romanico pugliese senza soluzione di continuità (Farioli Campanati, 1982).

Bibl.:

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Pittura e miniatura

Differente come cronologia e come esiti artistici risulta essere la presenza dei L. nel Nord e nel Sud dell'Italia. Entrati attraverso il Friuli nel 568, i L. si stanziarono nella pianura Padana, in Toscana, nell'Umbria, nella Marsica, nelle Marche meridionali e infine nel Sannio, da dove si irradiarono verso la Campania, la Daunia, la Lucania, il Bruzio superiore, con l'eccezione dei ducati di Napoli, Gaeta, Amalfi e Sorrento, in mano bizantina.Il dominio dei L. nell'Italia centrosettentrionale si interruppe nel 774, quando i Franchi, su sollecitazioni papali, ne conquistarono il regno. Ebbe così fine la storia della Langobardia Maior, pur se non si interruppero i contatti con la Langobardia Minor (ducato e principato di Benevento), dal momento che, per alcune manifestazioni artistiche, geograficamente distanti tra loro, sembra possibile poter parlare di elementi stilistici appartenenti a un linguaggio comune.Nell'Italia meridionale, il ducato di Benevento, trasformato da Arechi II (758-787) in principato, suddivisosi (849) in quello di Benevento, di Salerno e poi di Capua (856), continuò a esercitare la propria egemonia, pur tra scontri con i Bizantini e i saraceni presenti nel Sud, rimanendo autonomo e svincolato da ogni legame fino ai primi decenni del sec. 11°, quando dovette soccombere di fronte all'avanzata delle popolazioni normanne (Delogu, 1994).I L. stanziati in Italia, di religione ariana o legati ancora a usanze e riti pagani, intorno al 700 erano diventati un popolo cattolico; nel Nord ciò avvenne con l'ascesa al trono di Ariperto I nel 653 e ufficialmente durante il sinodo di Pavia del 698; al Sud fu solo verso la fine del secolo, con l'operato del vescovo Barbato di Benevento (m. nel 680), che si ebbe la conversione al cattolicesimo del duca Romualdo I (662-687) e della sua popolazione (Brühl, 1984).Le testimonianze artistiche di età longobarda nell'Italia settentrionale abbracciano un arco temporale di soli due secoli, nell'ambito dei quali è arduo poter definire con esattezza la datazione di alcune manifestazioni artistiche per le quali ancora oggi la critica (Lorenzoni, 1994) si dibatte alla ricerca di precisi riferimenti cronologici e stilistici (Castelseprio, Brescia, Cividale; v. Carolingia, Arte). Tali difficoltà spingono dunque ad analizzare alcune opere che possono oltrepassare anche di qualche decennio i limiti cronologici della dominazione longobarda nell'Italia del Nord, nella convinzione che un avvenimento storico, pur di grande portata, non ha mai ostacolato del tutto, o spento, quanto nel campo delle arti si stava attuando; esso quindi deve essere considerato come una mera convenzione cronologica.Ben diversa è, invece, la situazione nella Langobardia Minor, area geografica in cui le manifestazioni legate alla pittura e alla miniatura si dislocano in un arco di tempo di ben quattro secoli, con esiti a volte molto differenti tra di loro. L'area geografica considerata è stata inoltre caratterizzata dalla presenza di centri come Benevento, S. Vincenzo al Volturno, Montecassino, sui quali ancora oggi si discute, al fine di poter identificare la loro portata artistica nei confronti del territorio meridionale (v. Beneventano-cassinese, Arte). L'esame quindi delle testimonianze pittoriche e miniaturistiche che rientrano entro i termini cronologici fissati dagli eventi storici evidenzia quanto l'arte sviluppatasi in età longobarda sia stata caratterizzata da pluralità culturali derivate sia dal mondo tardoantico (Romanini, 1984) sia, soprattutto, dai continui contatti con le aree d'Oltralpe, con Roma e con il mondo bizantino e orientale in genere.

Langobardia Maior

Non numerose sono le testimonianze conservatesi sull'attività pittorica e miniaturistica di età longobarda (Arslan, 1954); recentissimi interventi critici ne hanno infatti evidenziato la scarsità, pur sottolineando, per es. per l'area della Lombardia (Peroni, 1984; Lomartire, 1994a, pp. 47-48), l'esistenza di cicli pittorici legati all'edilizia civile. È noto che la regina Teodolinda (589-628) fece eseguire, nel suo palazzo di Monza, secondo quanto attesta Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 22), affreschi con la rappresentazione delle gesta dei L., nei quali la committenza aristocratica era affiancata da maestranze legate alla tradizione locale. Problemi simili presentano le due miniature con la Risurrezione di Lazzaro e con i busti di S. Girolamo, S. Agostino e S. Gregorio dipinte nel dittico del console Boezio (ca. 487-524; Brescia, Civ. Mus. Cristiano), eseguite dopo il 602, per la presenza, tra le persone ritratte, della figura di papa Gregorio Magno, ma prima del 770 per i caratteri della scrittura; ritenute, in passato, di origine romana (in esse sono state identificate anche influenze dell'arte paleocristiana), queste miniature vengono ora messe in relazione con la produzione miniaturistica dell'Italia settentrionale (Bertelli, 1983, p. 58; Lomartire, 1994a, p. 48).A Pavia viene ricordata da fonti diverse l'esistenza di cicli figurativi sia nel palatium, in cui, secondo Agnello Ravennate (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 49; MGH. SS. rer. Lang., 1878, p. 337ss.), compariva nell'830 ca. anche un mosaico con il ritratto equestre di Teodorico, sia in alcuni edifici religiosi. Nella chiesa di S. Pietro in Vincoli si trovava un'immagine di S. Sebastiano eseguita in occasione della peste del 680; nella chiesa di S. Michele Maggiore, all'epoca di Pertarito (661, 671-688), furono realizzati, per volontà di Tommaso e di suo nipote Giovanni, dipinti in onore di s. Giovanni Battista; nell'abside compariva un'immagine di Cristo. Nella stessa chiesa il fratello di Tommaso, Barionas, intraprese l'esecuzione di un programma decorativo iconograficamente simile a quello nel catino absidale di S. Apollinare Nuovo a Ravenna. Alla capitale del regno vanno inoltre ricondotte altre testimonianze di tipo pittorico, o forse musivo, come quella riguardante l'esistenza di un'icona di S. Pietro, fatta eseguire da Liutprando (712-744) per S. Pietro in Ciel d'Oro, e di altre figurazioni per la cappella del palatium di Corteolona (prov. Pavia). Probabilmente a tale periodo vanno ascritti un frammento di velum con pavoni e quadrupedi ritrovato nei resti della chiesa monastica pavese di S. Michele in Pusterla (Peroni, 1978, p. 106; Lomartire, 1994a, p. 49) e un altro frammento dello stesso genere, di provenienza ignota, risalente al sec. 7°-8°, conservato a Pavia (Civ. Mus., depositi).Ancora ad affresco è decorato l'interno della vasca esagonale del battistero di Lomello, datato al sec. 7° (Peroni, 1984, p. 258; Cammarata, 1990). Arricchita da finte crustae marmoree e da una croce affrescata sul pozzetto semicilindrico, la vasca risulta essere una delle testimonianze più antiche della presenza di cicli decorativi in edifici ecclesiastici (Lomartire, 1994a, p. 49). Al sec. 6° vanno poi ascritti brani di affreschi con iscrizioni, croci affiancate da cervi, pavoni e corone, emersi da alcune tombe dipinte nelle chiese milanesi di S. Nazaro Maggiore, S. Giovanni in Conca e S. Ambrogio; altre sepolture più tarde si trovano (Fiorio Tedone, 1986) a Verona (sec. 7°), a Mantova (sec. 7°-8°), ancora una volta a Milano in S. Tecla (sec. 9°) e a Pavia in S. Eusebio (sec. 8°-9°); a queste possono aggiungersi altre recentemente identificate nel duomo di Monza con croci dipinte e iscrizioni, databili al sec. 9° (Lomartire, 1994a, p. 49), nonché brani rinvenuti nelle sette sepolture del complesso di S. Giulia a Brescia, con croci graffite e dipinte (Brogiolo, 1992, p. 205), il cui repertorio decorativo venne ripreso da esemplari realizzati in scultura.Pur tra le gravi lacune e le consistenti cadute di colore, che hanno lasciato visibili gli strati preparatori, è possibile ritenere il ciclo ritrovato nella torre appartenente al monastero di S. Maria di Torba presso Castelseprio (prov. Varese) di piena età longobarda. La torre, che faceva parte della cinta difensiva tardoantica dell'insediamento di Castelseprio, fu riutilizzata come cappella a due piani per il monastero fondato nel sec. 8°; nel vano del secondo piano, a una serie di immagini iconiche con teorie di santi, martiri e figure di monache in atteggiamento orante si contrappone, su tre pareti, una composizione con Cristo in trono tra santi e angeli (Bertelli, 1983, p. 65). Al piano terreno, invece, la decorazione è costituita da finte crustae marmoree e figure di monache accompagnate da iscrizioni. Un'indicazione verso una datazione 'alta' per il ciclo di affreschi, per il quale sono stati suggeriti confronti con la pittura romana degli inizi del sec. 8° (Lomartire, 1994a, p. 49), viene confermata dalla presenza di nomi longobardi utilizzati per le figure femminili e dall'esame paleografico delle iscrizioni (Bertelli, 1983, p. 65).Fonte di inesauribile dibattito tra gli storici dell'arte e gli archeologi risulta essere il ciclo pittorico realizzato nella chiesa di S. Maria foris portas a Castelseprio, con Storie della vita di Cristo, iconograficamente influenzate dai vangeli apocrifi. La datazione proposta dalla critica oscilla, non trovando ancora precisi riferimenti stilistici e cronologici, tra il sec. 6° e la metà ca. del 10° (v. Castelseprio), con preferenze ora per il pieno sec. 9° (Bertelli, 1988a; 1988b), ora verso datazioni 'alte', come il sec. 6° (Romanini, 1988, p. 235; Righetti Tosti-Croce, 1988a). Problemi cronologici molto simili presentano i resti del ciclo pittorico di S. Salvatore a Brescia (v.), disposti su tre registri sovrapposti e in stretta relazione con la decorazione in stucco in origine sugli archi e sottarchi dell'edificio, che, alla luce di recenti indagini stratigrafiche, fu, nel 753 ca., ricostruito su uno precedente (Brogiolo, 1992, pp. 200-203). Già ascritti tra il sec. 8° e l'11°, vengono oggi ritenuti di età carolingia (Peroni, 1983, p. 36; 1984, p. 260; C. Bertelli, 1992, p. 218; Lomartire, 1994a, p. 54), esulando quindi dai termini cronologici della presente voce, pur se le fasi di successione architettonica dell'edificio bresciano e i contatti evidenti della decorazione con quella nel tempietto di S. Maria in Valle di Cividale non sembrano soddisfare del tutto l'ipotesi cronologica proposta dalla critica.Alla fine del sec. 8°, quindi in un periodo che dovrebbe ricadere nell'ambito del momento carolingio dell'Italia settentrionale (Lorenzoni, 1994), va ricondotta l'esecuzione del c.d. codice di Egino, vescovo di Verona tra il 780 e il 799, opera di un grande scriptorium (Berlino, Staatsbibl., Phill. 1676). Le quattro miniature a piena pagina su fondo d'oro, con i ritratti dei Padri della Chiesa Ambrogio, Agostino, Gregorio e Leone, i cui testi sono raccolti nel volume, scenograficamente incorniciate da architetture dal sapore classico, ricordano pitture su tavola. Il codice è stato formulato su un modello del sec. 6°; nelle miniature sono presenti sia esperienze di età tardoantica sia altre del tutto nuove, legate, in specie, al mondo sasanide, per la disposizione degli animali acquatici (Bertelli, 1983, pp. 60-61).A Brescia è conservato un codice purpureo del sec. 6°, al quale fu aggiunta una tavola con i canoni eusebiani, il Commentarium in Isaiam di Girolamo (Brescia, Bibl. Civ. Queriniana, A-III-14), con iniziali con animali e intrecci che ricordano la produzione del sec. 8° dello scriptorium di Bobbio (Lomartire, 1994a, p. 55).In un periodo più vicino all'età carolingia che a quella longobarda (non oltre l'800) fu eseguito il ciclo di affreschi di S. Procolo a Naturno (prov. Bolzano), in val Venosta, il cui edificio risulta fondato intorno al 650, su iniziativa longobarda. Negli affreschi, che si dispiegano in parte sulla parete di controfacciata dell'edificio e in parte ai lati dell'abside, oggi demolita, sono raffigurati episodi estrapolati dalla vita di s. Paolo o di s. Procolo (per es. la scena con la Fuga da una città) e due figure di angeli, dai moduli allungati (C. Bertelli, 1994b, p. 90). Di piena età carolingia sono invece tutte le altre fondazioni monastiche di cui si ha notizia in Trentino e in Alto Adige (per es. Disentis, Müstair, Malles).Al periodo della dominazione longobarda dovrebbero risalire, alla luce degli ultimi interventi critici, gli affreschi del tempietto di S. Maria in Valle a Cividale (v.), concepiti in un tutt'uno assieme alla decorazione scultorea, all'impiego di lastre marmoree e di mosaici nella volta a botte del presbiterio e dell'aula. Gli affreschi vengono datati alla metà del sec. 8° o comunque non oltre i primi due decenni del 9° (Bergamini, 1994, pp. 131-132).Nel ducato di Spoleto una rara testimonianza della produzione pittorica d'età longobarda è costituita dai brani affrescati conservati nella chiesa di S. Salvatore a Spoleto, che sono stati sostanzialmente ritenuti della seconda metà del sec. 8° (Deichmann, 1943, pp. 141-147; Salmi, 1951, p. 23; Bertelli, 1983, p. 85; Parlato, 1994, p. 180); tra i resti si segnalano finte incrostazioni marmoree e una croce gemmata, con lettere apocalittiche pendenti dal braccio traverso, che mostra affinità con la simile decorazione del tempietto del Clitunno o sacello del Salvatore presso Campello sul Clitunno (prov. Perugia). Realizzato in due campagne costruttive tra i secc. 6° e 8°, l'edificio del Clitunno accolse, durante la seconda campagna di lavori, una decorazione ad affresco, recentemente restaurata, che mostra, nel vano inferiore del sacello, resti di motivi geometrici a fingere incrostazioni marmoree e, nel vano superiore, una croce gemmata tra busti di angeli, un busto di Cristo nel catino dell'absidiola e, più in basso, i busti di S. Pietro e S. Paolo e altri affreschi con motivi vegetali. Legati alla decorazione scultorea (Deichmann, 1943, pp. 141-148), i dipinti hanno rivelato la loro stretta appartenenza al mondo pittorico romano della fine del sec. 7° o degli inizi dell'8°, "al massimo entro gli anni del pontificato di Giovanni VII" (Andaloro, 1985, pp. 52-53).Se rare sono le manifestazioni pittoriche da ascrivere al periodo della dominazione longobarda, altrettanto scarse sono quelle relative all'attività miniaturistica, che in parte, quelle con una datazione abbastanza certa, sono già state ricordate.Allo scriptorium di Bobbio (v.), già attivo nella prima metà del sec. 7°, vanno ricondotti alcuni manoscritti decorati solo nelle lettere iniziali, i cui motivi vengono considerati ora alla base dello sviluppo della miniatura irlandese, ora, invece, come ripresa di modelli già esistenti in area mediterranea (Lomartire, 1994b, pp. 432-433). Altri esemplari del sec. 8° presentano lettere iniziali fittamente decorate con pesci e volatili, influenzate anche dalla coeva produzione orafa e scultorea.Un'idea dell'attività miniaturistica emerge, ancora, dall'esame di alcune illustrazioni conservate in codici nonantolani del sec. 9° in cui vengono ripresi modelli dei secc. 6° e 7°, come per es. in quelle contenute nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia con l'immagine di Apollo medico (Vercelli, Bibl. Capitolare, CCII, c. 90v) o nelle Homiliae di s. Gregorio Magno con il diacono Davidperto presentato da s. Pietro (Vercelli, Bibl. Capitolare, CXLVIII, c. 7v); nelle iniziali, poi, composte da fogliami, animali, intrecci, è possibile scorgere una rielaborazione di modi provenienti dalle Isole Britanniche e diffusi nei secc. 6° e 7° nel Mediterraneo (C. Bertelli, 1994c, p. 146). In altri codici nonantolani, invece, si rintracciano derivazioni di testo e illustrazioni da esemplari tardoantichi provenienti da Montecassino, come è il caso del codice con le Institutiones di Cassiodoro oggi a Bamberga (Staatsbibl., Patr. 61 HJ.IV.15; C. Bertelli, 1994c, p. 146).Nell'Evangeliario di Lucca (Bibl. Capitolare, 490), prodotto tra la fine del sec. 8° e gli inizi del seguente, sono stati individuati motivi decorativi derivati dalla tradizione protocristiana, come per es. testimonia l'immagine del Buon Pastore in un'edicola nella parte superiore della c. 348r (Caleca, 1994, p. 164).

Langobardia Minor

Più articolato e complesso risulta essere lo sviluppo della pittura e miniatura nell'Italia meridionale, area in cui i L. furono presenti dalla seconda metà del sec. 6° fino agli inizi dell'11°, occupando un territorio non immune da scambi culturali con il mondo romano, bizantino e con l'Italia settentrionale. L'esistenza di una particolare produzione artistica che si ritrova costantemente in luoghi diversi dell'area campana ha posto alcuni problemi circa il riconoscimento di una corrente pittorica 'beneventana' (Belting, 1968) che avrebbe, pur con esisti diversi, caratterizzato gran parte del territorio longobardo, sviluppandosi parallelamente al fenomeno della scriptura Beneventana. Risulta, quindi, quanto mai difficoltoso, per i secoli in esame, poter disgiungere l'aggettivo beneventano da quello longobardo, in riferimento alle testimonianze pittoriche e miniaturistiche giunte, almeno per quanto riguarda la produzione di alcuni centri.Recenti indagini sembrano aver delineato un quadro più preciso dell'espansione sia cronologica sia territoriale della 'pittura beneventana'; essa risulterebbe avere, per alcune e precise espressioni pittoriche, caratteri propri, distinguendosi così nell'ambito di una più vasta e articolata corrente che si dispiegò nei secoli dell'Alto Medioevo in territori caratterizzati solo politicamente dalla presenza dei L. e nei quali furono realizzati cicli pittorici stilisticamente differenziati tra di loro e influenzati da esperienze derivate da altre zone (G. Bertelli, 1994). Tra le più antiche testimonianze di una attività pittorica legata alla presenza dei duchi longobardi è da annoverare il ciclo di Santa Sofia a Benevento (v.). Ritenuto da parte della critica della metà del sec. 9° o, più giustamente, coevo alla costruzione dell'edificio voluta dal duca Arechi II (758-787), esso conserva affreschi con episodi relativi all'Annuncio a Zaccaria, all'Annuncio a Maria e alla Visitazione, in cui sono state individuate iconografie di matrice orientale (Rotili, 1986; Bologna, 1992; G. Bertelli, 1994, pp. 122-126). Nella cripta della cattedrale, ancora a Benevento, è stato recentemente restaurato un ciclo pittorico con episodi relativi alla Vita di Barbato, vescovo della città (m. nel 680). Stilisticamente vicino, per alcune soluzioni architettoniche e per certo cromatismo, agli affreschi del monastero di S. Vincenzo al Volturno (Molise), il ciclo beneventano attende ancora un esame per verificare la possibilità di proporre una sua cronologia agli inizi del sec. 9° (G. Bertelli, 1994, pp. 127-128). Un sicuro riferimento cronologico ha invece la vasta e articolata serie di affreschi nella cripta di S. Vincenzo al Volturno, eseguiti all'epoca dell'abate Epifanio (824-842), ritratto, nella scena con la Crocifissione, con il nimbo quadrato dei viventi. Nel ciclo, cui sono stati dedicati ampi spazi dalla critica fin dal momento della sua scoperta, sono state individuate, per la scelta dei temi che si incentrano sulla figura della Vergine e su quella di Cristo, influenze derivate direttamente dagli scritti di Ambrogio Autperto (In festo Assumptionis e In Apocalypsin), abate del monastero dal 777 al 778, ma monaco a S. Vincenzo già dal 740 (de' Maffei, 1985). Il ciclo, con i suoi temi dell'umiltà, del servizio e dell'Assunzione della Vergine, ben si addice a un contesto funerario, come è risultata essere la cripta, in cui si è rinvenuta una sepoltura probabilmente di un bambino, appartenente alla facoltosa famiglia che dovette finanziare le opere di ristrutturazione e abbellimento del monastero all'epoca di Epifanio (Mitchell, 1993, pp. 75-114). Gli affreschi sono stati messi in relazione da più parti (Bertelli, 1983, p. 95; Mitchell, 1985, p. 155) con i modi pittorici della zona alpina (Müstair, S. Giovanni), ritenendo quindi possibile l'esistenza di un linguaggio comune tra le Alpi e l'Italia meridionale. All'interno del complesso, in una zona prossima al refettorio, si sono poi rinvenuti altri brani di affreschi riferibili a figure di santi e profeti. Questi ultimi, in base all'analisi delle sequenze stratigrafiche, risultano essere ascrivibili all'abbaziato di Giosuè (792-817), confermando così l'esistenza nella zona di una attività pittorica sul finire dell'8° secolo.Legato al mondo pittorico volturnense sembra essere un affresco con il Battesimo di Cristo, molto lacunoso, conservato nelle catacombe di S. Gennaro a Napoli, che potrebbe essere ricondotto nell'ambito del sec. 8° (G. Bertelli, 1992; 1994, pp. 141-142). Derivati stilisticamente dal ciclo volturnense sono resti di affreschi recentemente individuati nella chiesa di S. Ambrogio a Montecorvino Rovella (prov. Salerno), ritenuti del sec. 10° (Peduto, Mauro, 1990). Ancora in Campania, sia lungo le zone costiere sia in aree interne, sono dislocati altri cicli pittorici, o esigui frammenti, realizzati durante la dominazione dei L., i cui esiti formali risultano essere, a volte, molto distanti tra loro; un confronto tra due piccoli frammenti di volti, l'uno nella chiesa dell'Annunciata di Prata di Principato Ultra (prov. Avellino) - ascritto al sec. 9° e collegato stilisticamente agli affreschi di S. Vincenzo al Volturno -, l'altro in quella di S. Maria in Foroclaudio presso Ventaroli (prov. Caserta) - sempre del sec. 9°, ma molto distante dal precedente -, può bene evidenziare tali fattori (Belting, 1968, pp. 65, 110; Rotili, 1971; D'Onofrio, Pace, 1981, p. 112; G. Bertelli, 1994, p. 128).A Castellammare di Stabia (prov. Napoli) la grotta detta di S. Biagio offre la possibilità, con i suoi cicli pittorici che si dislocano tra i secc. 7°-8° e 11°, di seguire l'evolversi della pittura in una zona particolare della Campania, non immune, per i secoli più 'alti', da influenze derivate probabilmente da Roma. Del sec. 7°-8° vanno ritenuti alcuni brani - una testa di S. Andrea e altre figure poco leggibili - disposti nella prima nicchia sulla sinistra del lungo corridoio che precede la zona presbiteriale della grotta; essi presentano affinità stilistiche con alcune teste nella chiesa di S. Saba a Roma. A un momento posteriore, probabilmente da collocarsi nell'ambito della prima metà del sec. 8° (Bertelli, in corso di stampa), va ascritto invece lo strato pittorico che si sovrappone a quello ora descritto e che occupa anche lo spazio del sottarco della nicchia. Sulla parete di fondo, pur tra gravi lacune, si leggono ancora tre figure stanti, due femminili e una maschile, aureolate, che sono state già messe in rapporto per lo stile con le sante affrescate nella cripta di S. Vincenzo al Volturno e datate, di conseguenza, entro la prima metà del sec. 9° (Belting, 1968, pp. 20-23). Sul sottarco compaiono medaglioni entro cui sono raffigurati i volti di Cristo e dei quattro arcangeli; lateralmente, in basso, due figure di santi martiri, stanti; in uno è riconoscibile S. Mauro; l'altro personaggio è stato identificato, attraverso l'esame di una serie di documenti, con S. Giasone, al quale, assieme al fratello Mauro, doveva in origine essere dedicata la grotta (Bertelli, in corso di stampa). L'esame stilistico di questo secondo gruppo di affreschi porta a evidenziare strette somiglianze con quelli del sec. 8° ancora di area romana, in specie dell'epoca di papa Adriano I (772-795) in S. Maria Antiqua. Sempre ad ambiente romano rimanda il gruppo affrescato su un arcosolio, ubicato al termine della zona presbiteriale, con clipei entro cui sono raffigurati i busti di Cristo, degli arcangeli Michele e Raffaele e di un santo anonimo, probabilmente Renato, vescovo di Sorrento; il referente più vicino sembra essere il ciclo del tempio della Fortuna Virile a Roma, dell'epoca di papa Giovanni VIII (872-882). Più tardi sono invece gli affreschi disposti entro una piccola edicola e ai lati di questa, con le figure di alcuni santi (Renato, Brigida, Michele, Giovanni Battista e Pietro, Giovanni Evangelista e Benedetto) e la Vergine in trono con il Bambino; ascrivibile alla fine del sec. 11° o ai primi decenni del seguente, il gruppo di affreschi, se da un lato sembra mostrare affinità con espressioni pittoriche della fine del sec. 10° o degli inizi dell'11°, dall'altro si esprime, invece, in un linguaggio tutto proprio, che per il momento non pare trovare riscontri con altre testimonianze di area meridionale, specie per la figura della Vergine in trono (Pace, 1994a, p. 253; Bertelli, in corso di stampa).In anni abbastanza recenti sono stati rinvenuti affreschi a S. Aniello a Quindici (prov. Avellino), con i busti di S. Sosio, S. Festo, S. Desiderio, S. Procolo, S. Eutichio, S. Acuzio, compagni di martirio di s. Gennaro, racchiusi in medaglioni perlinati, datati tra la fine del sec. 10° e gli inizi del seguente (d'Aniello, 1991; Campanelli, 1992). Al medesimo periodo vanno ricondotti gli affreschi di S. Maria della Lama a Salerno, in cui le figure di S. Bartolomeo e di S. Andrea mostrano contatti con il mondo orientale (d'Aniello, 1991), quelli ancora poco indagati della grotta dei Santi presso Calvi Risorta (prov. Caserta; Belting, 1968; Carotti, 1974, pp. 57-62; Thiery, 1978, p. 471), molto vicini stilisticamente ai precedenti, e il ciclo più antico nella cappella dell'Angelo nella grotta di S. Michele a Olevano sul Tusciano (prov. Salerno), che, se da un lato sembra trovare un'appropriata collocazione nell'ambito dello sviluppo della pittura campana di sec. 10° (Zuccaro, 1977), dall'altro palesa la presenza anche di interscambi con le coeve pitture pugliesi. In quest'ottica vanno inquadrati anche i resti pittorici del ciclo più antico conservato nella badia di S. Maria de Olearia presso Maiori (prov. Salerno), che attendono, assieme a quelli più tardi, recentemente restaurati, uno studio complessivo (Bergman, Cerenza, 1994).Nella vasta area di Cimitile (v.), per volontà del vescovo Leone III, attestato nel 911, venne ristrutturato e trasformato in chiesa, dedicata ai ss. Martiri, un mausoleo già esistente. Il ciclo pittorico, di alta qualità, si dispiega lungo i muri perimetrali e sulla volta, accogliendo scene tratte dalla vita di Cristo, nelle quali è possibile riconoscere elementi stilistici derivati da Benevento e dal mondo greco, presenze che sono alla base dello sviluppo della pittura beneventana (Bertelli, 1982, p. 279; 1983, p. 96).Ancora a uno stile italo-greco del sec. 10°, che trova paralleli in ambito romano e laziale, andrebbero ricondotti i frammenti più antichi della ormai fatiscente e pericolante chiesa di S. Marco a Cellole (prov. Caserta), alle foci del Garigliano. I brani relativi a un ciclo cristologico trovano possibili confronti, per la drammaticità con cui vengono rappresentate le figure, con le miniature beneventane del sec. 10°, in specie con quelle di un Exultet (Roma, BAV, Vat. lat. 9820; Bertelli, 1983, pp. 96-97; G. Bertelli, 1994, pp. 138-140).Pochi brani pittorici sono ancora leggibili nelle chiese dei Ss. Rufo e Carponio e S. Michele Maggiore a Capua. I primi sono stati ascritti alla fine del sec. 9° ca. (Belting, 1968, pp. 68-70) in base a confronti stilistici con gli affreschi del secondo momento decorativo della grotta di S. Biagio a Castellammare di Stabia - i quali, però, alla luce di un recente riesame (G. Bertelli, 1994, pp. 131-136; in corso di stampa) sarebbero forse più opportunamente databili non oltre la metà del sec. 8° - e con quelli di Cimitile. La datazione nell'ambito del sec. 9° per il primo gruppo di affreschi verrebbe inoltre avvalorata dal fatto che l'edificio venne eretto dopo l'856, in relazione all'abbandono della vecchia Capua e alla fondazione del nuovo insediamento sul sito dell'antica Casilinum (v. Capua). Oltre a questo strato più antico, di cui si leggono ancora nell'intradosso dell'arco di un'absidiola la mano dell'Eterno e alcune figure di angeli e visi in medaglioni, ne esiste un secondo, ritenuto del sec. 11° (Belting, 1968, pp. 70-71), collocato in un'altra absidiola con la Vergine orante e alcuni angeli, mal conservato, ma che andrebbe comunque riesaminato, assieme ai precedenti, con più attenzione. Del secondo quarto del sec. 10° sono i resti di affreschi nella cripta di S. Michele, in cui si scorgono solo angeli a mezzo busto in medaglioni e alcune zoccolature con elementi romboidali e circolari.In Puglia e in Basilicata i cicli pittorici riferibili a età longobarda, pur numericamente scarsi, sono di grande importanza poiché mostrano analogie stilistiche e iconografiche con i più noti e studiati affreschi di area beneventana e molisana. Al finire del sec. 8° va ascritto il ciclo, recentemente restaurato, del tempietto di Seppannibale in territorio di Fasano (prov. Brindisi). In esso si dispiegano episodi, purtroppo frammentari, legati all'Apocalisse, che si dislocano sulle due cupolette che coprono la navatella centrale. Sui pennacchi, sulle nicchie alla base delle cupole, sul muro di controfacciata, su quello che precedeva l'abside (crollata), lungo i muri delle navatelle laterali e perfino sulle coperture a botte rampante sono ancora visibili resti di affreschi derivati da temi tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Ultimamente analizzati (G. Bertelli, 1994), essi hanno rivelato tangenze stilistiche sia con il ciclo della Santa Sofia a Benevento sia con gli affreschi di S. Vincenzo al Volturno, ponendosi così come un episodio pittorico di altissima qualità. Ancora legati al mondo volturnense sembrano essere gli affreschi, purtroppo mal conservati, della c.d. cripta del Peccato originale nei dintorni di Matera, che attendono ancora uno studio analitico (Falla Castelfranchi, 1991, pp. 21-28; Pace, 1994b, pp. 275-279), come pure i brani lacunosi con finte crustae marmoree e prati gialli arricchiti da fiori rossi conservati nella grotta di S. Michele a Monte Sant'Angelo sul Gargano e il più noto affresco detto del Custos ecclesiae, recentemente ascritto alla prima metà del sec. 11°(D'Angela, 1994).Una serie poco numerosa di sepolture a cassa, internamente affrescate, è rintracciabile anche nell'area della Langobardia Minor. Variamente datate tra i secc. 8° e 10°, esse sono state rinvenute sia nella cripta di Epifanio sia nell'area abbaziale in S. Vincenzo al Volturno (Pantoni, 1980; Mitchell, 1993), e ancora nella cattedrale di Benevento (Felle, 1994), a Monte Sant'Angelo (D'Angela, 1980), a Canosa (D'Angela, 1981), a Otranto (Falla Castelfranchi, 1984) e a Troia (D'Angela, 1988). Quest'ultima, costruita in muratura, presenta lungo le pareti interne una serie di affreschi con croci dipinte e iscrizioni, tra cui compare il nome della defunta, Gaidefreda.Nel periodo di vita della Langobardia Minor, nei centri monastici benedettini di maggiore importanza (Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, Benevento, Capua) furono attivi scriptoria in cui vennero miniati manoscritti sui quali ancora oggi si discute per accertarne l'esatta provenienza (Orofino, 1994b). Legati dunque a una committenza benedettina, i codici, creati come preziosi oggetti simbolici o puri libri-strumento, furono realizzati e utilizzati in un ambiente strettamente monastico; in essi, però, non si ritrovano, come non lo è stato per la pittura, caratteri unitari di sviluppo (v. Benedettini; Orofino, 1992). La produzione illustrata dello scriptorium di Montecassino, alla luce di recenti indagini, risulta caratterizzata da una cultura sostanzialmente indipendente da influssi d'Oltralpe, almeno fino al sec. 11°, e in quest'ottica vanno esaminati alcuni particolari manoscritti. Il primo nucleo dello scriptorium cassinese risale alla seconda metà del sec. 8°; a questo momento vanno ricondotti i codici di Parigi (BN, lat. 7530) e di Bamberga (Staatsbibl., Patr. 61 HJ.IV.15), che presentano contatti con la produzione dell'Italia settentrionale, probabilmente mediata da Bobbio. Tra gli esemplari più rappresentativi usciti dallo scriptorium cassinese vanno poi annoverati il manoscritto contenente, tra gli altri testi, il De fide Sanctae Trinitatis e De signis coeli dello pseudo-Beda, con quaranta disegni di costellazioni, risalente all'874-892, del quale è ancora discusso il luogo di produzione (Montecassino, Bibl., 3; Orofino, 1994a), e il manoscritto conservato a Firenze (Laur., Plut. 73.41), con tavole dimostrative dell'applicazione del termocauterio, eseguite a penna (Orofino, 1994a). A dopo l'883, probabilmente durante l'esilio capuano, vanno ricondotti i manoscritti conservati a Montecassino (Bibl., 37; 175), contenenti rispettivamente l'opera medica di Galeno e Ippocrate, arricchito da disegni botanici, e il Commentarius in Regulam s. Benedicti di Paolo Diacono. In quest'ultimo, tra le altre miniature, si segnala quella (p. 2) con la consegna da parte del santo, assistito da un angelo, del libro della Regola all'abate Giovanni I (915-934). Alla metà del sec. 10° va assegnato il manoscritto, eseguito a Capua da Giaquinto per l'abate Aligerno tra il 949 e il 950-951 (Montecassino, Bibl., 269). Tra i codici eseguiti a partire dalla seconda metà del sec. 10°, che attestano la presenza di artisti di grande qualità, si devono annoverare i Moralia in Iob di s. Gregorio Magno (Montecassino, Bibl., 77); degli inizi del sec. 11° sono invece una Bibbia di probabile esecuzione capuana (Montecassino, Bibl., 759), il manoscritto contenente le Passiones et vitae sanctorum del 1010 (Montecassino, Bibl., 148), l'omiliario con lo scriba Grimoaldo presentato da s. Benedetto a Cristo in trono (Montecassino, Bibl., 109, p. 295), eseguito durante l'abbaziato di Teobaldo (1022-1035), e ancora il codice contenente il De rerum naturis di Rabano Mauro (Montecassino, Bibl., 132; Orofino, 1994a).Dagli scriptoria di Benevento e di S. Vincenzo al Volturno uscì un cospicuo numero di manoscritti miniati, tra i quali vanno ricordati il pontificale e il benedizionale (Roma, Casanat., 724/I; 724/II) riferibili al vescovo Landolfo I (957-982; Brenk, 1994a; 1994b); un Exultet databile al 985-987 (Roma, BAV, Vat. lat. 9820; Cavallo, 1994) e il manoscritto contenente tra l'altro il Codex Legum Langobardorum (Cava de' Tirreni, Bibl. dell'abbazia, 4).

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Oreficeria

Gli scavi effettuati negli ultimi decenni delle necropoli longobarde identificate lungo il percorso compiuto da questo popolo nella fase conclusiva della sua migrazione (quando, a partire dagli inizi del sec. 6°, si stanziò nelle sedi della Moravia, dell'Austria Inferiore e della Pannonia assumendovi un ruolo egemone) hanno fornito considerevoli materiali, che, sebbene ancora in corso di valutazione, permettono di gettare uno sguardo sul momento iniziale di formazione della cultura artistica dei L. (Bóna, 1987; Tejral, 1987; 1988; Dorigo, 1988; Menke, 1990). Va tuttavia subito precisato che tale cultura non si definisce longobarda nel senso di un'appartenenza etnica, perché già dal suo nascere vi confluirono molteplici componenti che vennero assimilate e rielaborate dai L. con l'apporto di altre popolazioni, di ceppo sia germanico sia romanzo, e perché, sia prima sia dopo la discesa in Italia, quella longobarda è un'arte 'altra' rispetto a ogni contributo culturale ricevuto (Bóna, 1987; Romanini, 1991; 1992).La tomba 6 della necropoli di Poysdorf in Austria Inferiore, detta dell'orefice, attesta alla fine del sec. 5°-prima metà 6° l'esistenza di una produzione autonoma di oreficeria da parte dei L.; nel corredo di questa sepoltura sono state trovate, tra l'altro, le matrici in bronzo per una fibula a S e una fibula a staffa (gli usuali ornamenti del costume femminile germanico; v. Fibula), che, tanto per le ornamentazioni geometriche a Kerbschnitt (intaglio a cuneo) di tradizione tardoromana, quanto per le strutture delle fibule - quella a S con terminazioni a teste animalistiche con mandibole aperte arricciate e quella a staffa con piastra di testa rettangolare a sette bottoni e piede ovale concludentesi in una testa d'animale -, attestano l'adozione di moduli propri all'oreficeria germanica, per lo più di marca scandinava. La forma della fibula a staffa della matrice di Poysdorf, così come gli ornati geometrici, si ritrovano nei reperti - realizzati in bronzo o argento fuso e dorato e con rifiniture a niello - provenienti dalle necropoli longobarde pannoniche come italiche, accanto ad altri modelli e ad altri sistemi decorativi sempre di eredità germanica, scandinava, franco-alamanna o anche ostrogota. Tra le numerose varianti prende corpo già in Pannonia, per quanto riguarda le fibule a staffa, quello che è stato definito il 'tipo nazionale longobardo', caratterizzato da testa semicircolare incorniciata da un'ampia corona di bottoni imperniati con cornice intermedia (Zonenkranz), staffa con ornato bipartito in senso longitudinale, piede ovale, a volte con teste animalistiche pendenti, terminante in un mascherone (Bóna, 1987; Dorigo, 1988, p. 12). Tra i numerosi esempi si possono menzionare le fibule dalla tomba 17 di Várpalota (Ungheria), con ornati geometrici (Veszprém, Bakony Múz.), e quelle dalla tomba 6 di Tamási e dalla tomba 2 di Kajdacs (Szekszárd, Wosinsky Mór Múz.) o dalla tomba 56 di Szentendre (Budapest, Magyar Nemzeti Múz.), con decorazioni animalistiche e a intreccio.Ancora in ambito pannonico, di grande interesse sono gli elementi di bardatura in bronzo dorato ritrovati nella c.d. tomba ducale di Veszkény, probabile sepoltura femminile con carro risalente alla prima metà del sec. 6°, che mostrano decorazioni, di alto livello qualitativo, a intreccio e meandro o in stile di Nydam, la prima fase degli stili animalistici (Sopron, Liszt Ferenc Múz.; Szombathely, Savaria Múz.). I reperti di Veszkény, di cui oggi sembra accertata l'omogeneità a livello di esecuzione (Gömöri, 1987), attestano, a prescindere dal momento di fabbricazione, che dovette precedere quello della deposizione e che resta da precisare, una pluralità di indirizzi decorativi alla base dell'elaborazione degli orefici longobardi.La valutazione complessiva dei reperti tombali longobardi, incentrata principalmente sulle necropoli italiche, si è svolta in passato alla luce di alcune problematiche, quali quella del processo di 'acculturazione', quella dell'evoluzione degli stili animalistici e degli influssi mediterranei o quella della diversificazione tra artefici germanici e locali, che oggi grazie a nuove ottiche storiche e a nuove scoperte appaiono da riesaminare totalmente. In primo luogo il concetto di 'acculturazione', inteso come ricezione passiva della cultura romana di tradizione mediterranea da parte degli invasori, può considerarsi del tutto superato a vantaggio di quello di formazione di una nuova cultura, dagli esiti inediti, a cui appaiono concorrere dialetticamente le molteplici componenti in campo (Romanini, 1991; Settia, 1994, p. 64). Analogamente, il quadro di un'ordinata successione nell'uso dei sistemi decorativi di tradizione germanica nell'oreficeria dei L., secondo la sequenza I stile, Schlaufenornamentik, II stile (v. Animalistici, Stili), da cui in passato si era creduto di ottenere anche una griglia di riferimento cronologico per i reperti tombali, è stato messo in discussione da nuovi metodi di datazione che dimostrerebbero non solo il sovrapporsi dell'uso dei diversi stili germanici, ma anche, d'altro canto, la coesistenza delle fibule a staffa con le fibule a disco di tradizione mediterranea (Jørgensen, 1991). La recente scoperta a Roma, nella crypta Balbi, di un'officina altomedievale per la produzione di oggetti suntuari, che ha restituito centinaia di reperti riferibili a varie fasi di lavorazione di oggetti di tradizione mediterranea così come germanica - alcuni dei quali estremamente affini a pezzi dei corredi di Nocera Umbra e Castel Trosino -, ha dimostrato inoltre l'inutilità dei tentativi di identificazione etnica degli artefici sulla base del carattere dei manufatti, dando invece consistenza al quadro di una continuità di produzione di officine locali sensibili alle diverse esigenze di una clientela dai gusti eterogenei, all'interno delle quali poterono probabilmente operare anche artigiani immigrati (Arti del fuoco, 1994; La necropoli altomedievale, 1995, p. 17ss.).Tali nuove aperture della ricerca consigliano dunque attualmente un'estrema cautela nei tentativi di classificare i materiali pervenuti dalle necropoli longobarde, che in territorio italiano occupano un arco cronologico che va da dopo il 569 al 670-680 ca., epoca in cui dovette venir meno l'uso del corredo funebre (Jørgensen, 1991). È tuttavia possibile enucleare alcuni punti di notevole interesse. Nell'evolversi della fibula a staffa - sorta di 'fossile-guida' dell'oreficeria dell'epoca delle Migrazioni (Melucco Vaccaro, 19882, p. 34) - ben più che non l'interpretazione degli stili animalistici o dell'ornamentazione a intreccio, appaiono importanti l'elaborazione strutturale dell'oggetto, caratterizzata in primo luogo dall'ampia corona con fino a tredici bottoni, dalle teste animalistiche ascendenti e discendenti ai margini del piede e dall'articolata Fusskopf, nonché la sua raffinata esecuzione tecnica, che, con l'uso di motivi a niello, dorature, punzonature, perlinature e tratteggi del metallo, evidenzia la complessità della struttura impreziosendola con sofisticate variazioni cromatiche. Al vertice di questo sviluppo si pongono capolavori come la fibula A 83, secondo la catalogazione di Fuchs e Werner (1950), proveniente dalla tomba 162 di Castel Trosino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo), o quella A 84, dalla Toscana (Londra, British Mus.): esemplari, databili con margini di dubbio ai primi decenni del sec. 7°, con cui l'oreficeria longobarda si pone in una posizione di primo piano nell'intero contesto germanico europeo (Dorigo, 1988, p. 40ss.).Se nella produzione delle fibule a staffa è dunque possibile ravvisare un processo di elaborazione primario che condusse alla creazione di capolavori come i pezzi citati, ben più variegato appare il quadro per quanto riguarda gli altri reperti tombali. Sin dai primi decenni dell'insediamento in Italia, nei corredi femminili si riscontra l'adozione di ornamenti propri alla tradizione locale, quali gli orecchini a cestello, di cui sono pervenuti numerosi esemplari (Possenti, 1994), quelli con pendenti (La necropoli altomedievale, 1995, p. 275), tra i quali l'esempio più sontuoso è la coppia della tomba S di Castel Trosino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo), e vari tipi di anelli, tra cui quelli nuziali a doppia losanga (Peroni, 1984, p. 233ss.; La necropoli altomedievale, 1995, p. 279ss.). Dalla fine del sec. 6°, parallelamente a quanto avviene anche presso i Germani d'Oltralpe, appare l'uso mediterraneo di una grande fibula a disco a chiusura del mantello sotto il mento. I reperti pervenuti si possono dividere in due gruppi principali, quello con granati alveolati e quello a filigrana, con o senza inserti di gemme o paste vitree. Tra gli esemplari appartenenti al primo gruppo spicca la fibula trovata a Parma nella tomba di Borgo della Posta (Parma, Mus. Archeologico Naz.; I Longobardi in Emilia occidentale, 1993, p. 50), un'opera il cui carattere anglosassone evidenzia quelle relazioni a lunga distanza con la cultura dei Germani del Nord - riscontrabili anche in altri casi - che costituiscono anch'esse uno dei fattori basilari del quadro culturale dell'Italia longobarda (Roth, 1980).Caratteristiche della produzione locale si considerano invece le fibule del secondo gruppo (Dorigo, 1988, p. 65). Tra quelle realizzate interamente in oro, articolate mediante anelli e bottoni rilevati e motivi filigranati, va ricordata come uno degli esempi dal disegno più riuscito la fibula dalla tomba S di Castel Trosino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo; La necropoli altomedievale, 1995, p. 273). Tra gli esemplari con inserti, prevalentemente recanti castoni circolari e quadrati con paste vitree o pietre nei toni dell'azzurro e del verde e talvolta gemme di recupero, si possono menzionare la fibula della tomba di Senise (prov. Potenza), per la particolare raffinatezza del lavoro in filigrana (Napoli, Mus. Archeologico Naz.; I Longobardi, 1990, p. 223ss.), e quella dalla tomba 13 di Castel Trosino, con al centro la figura della croce (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo).Le due fibule a disco del tesoro di Isola Rizza (Verona, Mus. di Castelvecchio), con tralci in filigrana e alveoli a goccia, costituendo una coppia dovrebbero appartenere a una fase precedente a quella dell'assunzione del costume mediterraneo e con la loro datazione agli ultimi decenni del sec. 6° testimonierebbero la precocissima adozione del repertorio decorativo locale (Dorigo, 1988, p. 66; La Rocca, 1989; I Longobardi, 1990, p. 231).Un discorso a parte riguarda le fibule circolari con tre pendagli, tra i cui scarsi esempi è celebre quella con cammeo centrale trovata a Benevento (Oxford, Ashmolean Mus. of Art and Archaeology). Essendo l'uso di questo tipo di spilla una prerogativa dell'imperatore, si è potuto infatti ipotizzare che anche gli esempi ritrovati in territori longobardi costituissero in qualche modo delle insegne di alto rango a imitazione di quelle romano-bizantine (Rotili, 1984). La questione tuttavia non si può ancora considerare risolta, anche perché a essa si lega un ulteriore problema, quanto mai aperto, relativo all'inquadramento storico e cronologico di un gruppo di smalti cloisonnés figurati formatosi intorno alla c.d. fibula Castellani (Londra, British Mus.), una fibula a tre pendagli trovata a Canosa di Puglia con al centro la raffigurazione di un busto di incerta interpretazione. Esponenti principali di questo gruppo, oltre alla fibula appena ricordata, sono un'altra fibula proveniente da Comacchio (Baltimora, Walters Art Gall.) e una coppia di orecchini del tesoro di Senise (Napoli, Mus. Archeologico Naz.), che tuttavia, essendo realizzati con la tecnica delle paste vitree incastonate a freddo, appaiono come un prodotto di imitazione assai meno sofisticato (Mallé, 1968, p. 88ss.; Rotili, 1984, p. 91ss.; Haseloff, 1990, p. 20ss.; Thurre, 1993, p. 143). Accertata appare invece la pertinenza all'ambito delle insegne degli anelli sigillari aurei, anche se resta in dubbio l'identificazione del personaggio effigiato sulla piastra, secondo alcuni il sovrano longobardo di volta in volta regnante, secondo altri il dignitario possessore dell'anello, il cui nome compare nella leggenda (Kurze, 1986; Melucco Vaccaro, 19882, p. 105; I Longobardi, 1990, p. 159ss.). È inoltre da registrare per questa categoria di oggetti, che conta al momento una decina di esemplari, la grande varietà, tipologica quanto formale, nella resa dell'effigie di contro a una sostanziale uniformità nella struttura dell'anello, formato da piastra circolare, verga a sezione circolare e sferette al punto di saldatura.Sempre nell'ambito dei rinvenimenti tombali, estremamente articolato appare il panorama per quanto riguarda le guarnizioni di armi e di cinture. Il più raffinato gusto bizantino mostra la guarnizione aurea, con lavoro a traforo di tradizione tardoromana, di un fodero di sax dalla tomba F di Castel Trosino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo), mentre più vicina alla produzione locale delle fibule a disco appare la decorazione a filigrana di un'impugnatura di spada a 'doppio anello intrecciato' (Ringknaufschwert), dalla tomba 1 di Nocera Umbra, che presenta anche una fascia con granati alveolati (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo). Da ricordare però sono anche esempi di spade con impugnature decorate con motivi di tradizione germanica in argento niellato, come quella, anch'essa a 'doppio anello intrecciato', dalla tomba 1 di Trezzo d'Adda (Milano, depositi della Soprintendenza Archeologica per la Lombardia; La necropoli longobarda, 1986; I Longobardi, 1990, p. 195).Di particolare rilevanza sono le guarnizioni delle cinture multiple, accessorio caratteristico dell'equipaggiamento dei cavalieri turco-mongoli dell'Altai, diffuso, insieme ad altri elementi dell'armamento dei cavalieri, dagli Avari in Occidente, nell'impero bizantino e in quello persiano (De Marchi, 1989). Queste guarnizioni si dividono in due tipologie principali, secondo alcuni studiosi susseguentisi cronologicamente: quella con decorazioni in oro o argento, fino alla metà del sec. 7°, e quella in ferro ageminato in argento e ottone, della seconda metà del sec. 7° (La necropoli longobarda, 1986; Werner, 1987; La necropoli altomedievale, 1995, p. 222). Mentre il secondo tipo, distinguibile in una serie di sottogruppi sulla base dei moduli decorativi e delle tecniche esecutive, è proprio di un'ampia koinè germanica estesa all'area bavara e alemanna oltre che longobarda (Melucco Vaccaro, 1978), più sfuggente appare la questione per quanto riguarda le guarnizioni del primo tipo, diffuse in un'area ben più ampia (Werner, 1974). Se infatti alcune di queste - come per es. quella dalla tomba 1 di Nocera Umbra (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo) o quella dalla sepoltura di Pedata presso Castel Trosino (Saint-Germain-en-Laye, Mus. des Antiquités Nat.) - per l'ordine compositivo e l'accuratezza tecnica possono agevolmente rientrare nell'ambito dell'oreficeria bizantina (Byzance, 1992, nr. 91; La necropoli altomedievale, 1995, p. 17ss.), per altri esemplari, come la guarnizione in diciotto elementi della tomba 4 di via Monte Suello a Verona (Mus. di Castelvecchio) o la placchetta dalla chiesa di S. Giulia a Lucca, con animali affrontati (Firenze, depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici), si potrebbe ipotizzare un diretto rapporto con la produzione orafa degli Avari. Considerando l'importanza che ebbe il contatto con questo popolo per la formazione della cultura tradizionale dei L., profondamente radicata in concezioni pagane, in special modo per quello che riguarda l'ideologia dei cavalieri (Gasparri, 1983), apparirebbe del tutto logica una trasmissione di formule anche in campo artistico, soprattutto nell'ambito della decorazione delle armi. In questa luce andrebbe riconsiderato un gruppo di reperti provenienti da ricche sepolture, vale a dire i rivestimenti aurei da sella (La necropoli altomedievale, 1995, p. 231ss.) e in particolare il più sfarzoso, quello dalla tomba 119 di Castel Trosino (Roma, Mus. dell'Alto Medioevo), che, per l'ambiguità compositiva e formale, generante 'immagini nascoste', sembra rifarsi all'antico linguaggio figurativo dei nomadi delle steppe euroasiatiche (v. Asia); un linguaggio dalle forti implicazioni magico-simboliche, di cui gli Avari dovettero essere tra gli eredi. L'interazione di culture diverse si rivela anche nelle guarnizioni in lamina di bronzo dorato degli scudi da parata (Bognetti, 1952, p. 106; Dorigo, 1988, p. 70ss.).L'estrema complessità del quadro che si è cercato di tratteggiare trova conferma in quella che è forse la categoria di reperti più peculiare delle necropoli longobarde italiche, le crocette in lamina aurea, note nel numero di oltre duecentoventi esemplari (Peroni, 1984, p. 236ss.; Rotili, 1984; Dorigo, 1988, p. 42ss.). Tra queste crocette, riconosciute da gran parte degli studiosi come d'uso specificamente funerario, ma non obbligatoriamente come segno di appartenenza alla fede cristiana, si possono distinguere diversi gruppi sulla base dell'ornamentazione; una metà ca. ne sono prive o hanno semplici motivi punzonati, le restanti presentano decorazioni più o meno complesse, ottenute a impressione, comprendenti rare figure umane o di animali, intrecci di tradizione tardoclassica, composizioni riferibili al I e II stile animalistico e alla c.d. Schlaufenornamentik (Dorigo, 1988, p. 42ss.). Sono gli esemplari di questo ultimo gruppo, tutti provenienti dai ducati del Nord - come in particolare le due crocette assai simili dalle necropoli di Collosomano di Buia (Udine, Mus. Civ.) e di San Salvatore di Majano (Cividale, Mus. Archeologico Naz.) o quelle, anch'esse strettamente affini, provenienti dalla prov. di Bergamo, da Zanica (Bergamo, Mus. Civ. Archeologico) e da Fornovo San Giovanni (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche) -, a destare principalmente l'interesse, perché la loro resa della Schlaufenornamentik come un caotico mescolarsi di cappi e membra animalistiche si presenta radicalmente diversa da ogni forma d'arte di matrice in qualche parte e carattere definibile come classica e pertanto, data l'epoca, vi si potrebbe scorgere proprio un importante 'fenomeno di rigetto' nei confronti del contemporaneo inevitabile innescarsi nell'ornato longobardo di un processo di 'romanizzazione' (Romanini, 1991, p. 11). Sul versante opposto meritano grande attenzione le crocette in cui figure o teste umane compaiono sole o frammiste ad altri elementi decorativi in molteplici varianti, compositive come stilistiche, testimonianti una complessa fase di sperimentazione nell'accoglimento di elementi della tradizione tardoantica e paleocristiana. In quest'ultimo gruppo ha particolare rilievo la croce detta di Gisulfo (Cividale, Mus. Archeologico Naz.), in cui otto testine con lunghi capelli si alternano, caso unico, a nove castoni con pietre (Dorigo, 1988, p. 44ss.).Non meno problematico e sfaccettato, nonché gravemente frammentario, appare il quadro al di fuori dell'ambito dei reperti tombali. Tra i pochi materiali oggi noti, il nucleo di oggetti più importante è costituito dalle donazioni della regina Teodolinda alla basilica di S. Giovanni a Monza. Questo 'tesoro' (Monza, Mus. del Duomo), anch'esso peraltro non conservatosi interamente, è formato da pezzi di diversa natura, quasi tutti assai discussi (Frazer, 1988); alcuni di essi si inseriscono in tradizioni consolidate da lungo tempo, come il celebre gruppo della chioccia con i sette pulcini, in argento dorato e sbalzato, che, benché riferibile - anche se non in totale accordo - alla committenza teodolindea anche per ragioni iconografiche, mostra un virtuosismo tecnico di eredità romana, o come il gruppo della corona votiva di Teodolinda e della croce, un tempo ritenuta di Agilulfo, realizzato in oro con inserti di gemme blu e verdi e perle, secondo lo stile dell'oreficeria aulica bizantina. Un evidente carattere paleocristiano distingueva invece la decorazione - con le figure di Cristo, di angeli e degli apostoli entro arcatelle arborescenti - della corona votiva di Agilulfo, andata perduta a Parigi nel 1804 e nota attraverso riproduzioni (Elze, 1980; Frazer, 1988, p. 27ss.), ma l'appartenenza di questo oggetto all'epoca longobarda resta molto discutibile (Elbern, 1992, p. 396). Estremamente controversa è anche la questione riguardante la 'corona ferrea', in oro e smalti cloisonnés: le datazioni proposte dalla critica hanno oscillato dal sec. 5° al 9° e anche la sua stessa funzione originaria di corona è stata posta spesso in dubbio; attualmente si ritiene probabile una collocazione verso la fine del sec. 8° per confronti con lavori a smalto affini, ma non si tratta di un punto di vista definitivo (Elbern, 1988, p. 61; Frazer, 1988, p. 47ss.). A epoca post-teodolindea dovrebbero appartenere secondo Frazer pure la montatura del pettine detto di Teodolinda (sec. 9°-10°) e il flabello (sec. 13°-14°). Anche i reperti di marca chiaramente germanica trovati nel sarcofago di Teodolinda non appaiono riferibili con sicurezza al corredo funebre della regina, benché siano cronologicamente databili all'incirca ai decenni del suo regno (Haseloff, 1989).L'encolpio in oro e niello, noto come croce-reliquiario di Adaloaldo, di fattura bizantina o medio-orientale della fine del sec. 6° o degli inizi del 7° - in seguito, forse all'epoca di Berengario (888-924), racchiuso in una teca d'oro e cristallo -, dovette essere un dono fatto alla regina, forse identificabile con il filatterio inviatole nel 603 dal papa Gregorio Magno per il figlio Adaloaldo (Frazer, 1988, p. 22; Elbern, 1992, p. 397). La fattura locale, presumibilmente in un laboratorio milanese, appare oggi invece generalmente accettata per l'opera più significativa del nucleo originario del tesoro di Monza, i pannelli in oro, gemme, perle e smalti cloisonnés della legatura donata, come afferma l'iscrizione sui pannelli stessi, dalla regina Teodolinda alla basilica da lei fondata (Frazer, 1988, p. 24ss.). In quest'opera, di straordinario nitore compositivo, tecniche e moduli decorativi propri a tradizioni diverse sapientemente concorrono a una sintesi culturale che sembra consapevolmente cercata. La croce che ripartisce i pannelli si rifà a modelli paleocristiani nell'alternanza tra gemme piccole e grandi e, nell'uso di pietre di vari colori, si allontana dal raffinato gusto bizantino e richiama piuttosto esempi germanici, anche se di altra natura, mentre le bordure cloisonnées, a smalto rosso su fondo aureo reticolato, imitano l'oreficeria alveolata con granati cara ai sovrani goti e merovingi (un espediente che si incontra anche nella già menzionata fibula Castellani). Inoltre i cammei di recupero posti al centro dei riquadri formati dalla croce (due sostituiti nel Settecento) sono stati recentemente interpretati come coppie di regnanti che starebbero a dimostrare un intento di autolegittimazione da parte della monarchia longobarda dal sapore anticheggiante (Elbern, 1992, p. 396ss.).Sempre nel campo della rappresentazione della regalità si colloca un'altra opera significativa di questi stessi decenni, la c.d. lamina di Agilulfo (v.), frontale di elmo in bronzo dorato e sbalzato con la rappresentazione del re Agilulfo (591-615 ca.), identificato da un'iscrizione, seduto su un trono e affiancato dai suoi portalancia, da vittorie e da dignitari che offrono corone (Firenze, Mus. Naz. del Bargello). La raffigurazione, forse replica di una decorazione murale (Kurze, 1980), è di particolare interesse perché, all'interno di un'impaginazione desunta da schemi paleocristiani (Ciampoltrini, 1988), mostra una concezione della sovranità del tutto autonoma rispetto ai modelli imperiali. Il re, vestito secondo la foggia germanica, reca come unica insegna la spada, e le corone che gli vengono portate sono in sostanza, se si prescinde dalla croce alla sommità, degli Spangenhelme ('elmi a fasce'): un tipo di elmo diffuso in tutto il mondo tardoantico, la cui specifica funzione di contrassegno di rango resta da precisare (Werner, 1988), ma che comunque venne utilizzato come copricapo regale in alcune monete dei Goti (Arslan, 1992). Se il senso complessivo della scena sulla lamina è evidente, comunque si vogliano interpretare alcuni dei particolari iconografici, non altrettanto si può dire per un altro dei rari pezzi figurati di oreficeria di presumibile età longobarda, il piatto d'argento del tesoro di Isola Rizza con la raffigurazione di un Cavaliere che trafigge due barbari (Verona, Mus. di Castelvecchio). L'opera, generalmente datata tra la fine del sec. 6° e gli inizi del 7° (La Rocca, 1989; I Longobardi, 1990, p. 231), tecnicamente rientra nella vasta produzione degli argenti tardoantichi e anche compositivamente si rifà a modelli imperituri della tradizione classica, con forse anche un riecheggiamento - nella doppia immagine dell'avversario - dell'iconografia sasanide della caccia del re (de Francovich, 1964). Il significato della scena resta tuttavia enigmatico (Melucco Vaccaro, 19882, p. 102): si può osservare che il cavaliere indossa la stessa corazza a lamelle dei portalancia della lamina di Agilulfo sopra uno himátion di foggia avara al pari della lancia (Werner, 1974, p. 111), ma invece dell'elmo lamellare corrispondente (Spangenfederhelm) porta quello a fasce (Spangenhelm), di cui si è detto in precedenza. Questo potrebbe indicare un suo rango particolarmente elevato; d'altro canto gli avversari da lui sconfitti sono identificati dall'abito come Germani, ma la foggia della pettinatura li differenzia chiaramente dai Longobardi. Se dunque, come sostenuto generalmente negli studi, il piatto di Isola Rizza venne effettivamente realizzato per un committente longobardo, la scena potrebbe essere intesa come una sorta di raffigurazione emblematica della superiorità sugli altri Germani del guerriero germanico che ha assunto uno stato di cavaliere di matrice nomade: una concezione che potrebbe essere maturata anche dal conflitto che oppose L. e Gepidi in Pannonia.Tornando nell'ambito dell'arte sacra, sono da ricordare alcuni reliquiari. Agli inizi del sec. 7° dovrebbe risalire la capsella argentea di S. Apollinare a Trento (Castello del Buonconsiglio), che reca sul coperchio una figura umana di tre quarti con tratti caratteristici dei L. e sui fianchi ornati animalistici di modesta esecuzione (Porta, 1989; Elbern, 1994). Raffinata è invece la lavorazione di due reliquiari a cofanetto (Beromünster, Kirchenschatz des Chorherrenstiftes; Utrecht, Rijksmus. Het Catharijneconvent), che sono stati attribuiti a una manifattura dell'Italia settentrionale della seconda metà del sec. 7° perché mostrano un repertorio ornamentale - formato da eleganti motivi fitomorfi di tradizione mediterranea a cui si accompagnano talvolta elementi zoomorfi - che si ritrova in opere d'ambito longobardo, come in primo luogo la croce di Stabio (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.). Una chiara ispirazione paleocristiana mostra invece il reliquiario a cassetta di S. Agostino, nella chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, realizzato probabilmente in occasione della traslazione delle reliquie del santo, avvenuta intorno al 722 per volere del re Liutprando. La decorazione, di estremo rigore, si limita ad alcune crocette in argento dorato con rosette al termine dei bracci e busto aureolato all'incrocio (Peroni, 1967, p. 37ss.). Di tutt'altro carattere appare un reliquiario a cofanetto con alti spioventi, sempre collocabile nella prima metà del sec. 8° (Cividale, Tesoro del Duomo), la cui decorazione è composta di elementi eterogenei, fra i quali è di particolare interesse una placchetta con la Natività, realizzata con una tecnica che sembra imitare quella del Kerbschnitt (Peroni, 1984, p. 255).La grande croce processionale detta di Desiderio (Brescia, Civ. Mus. Cristiano), secondo la tradizione donata dall'ultimo re dei L. (757-774) al monastero di S. Giulia, è un'opera assai discussa e ancora non esaustivamente studiata, la cui valutazione è resa difficile dai numerosi rimaneggiamenti che dovette subire. Secondo Elbern (1988, p. 22) l'esecuzione della croce all'epoca di Desiderio non è da escludersi; in questo caso si potrebbe interpretare il suo fitto rivestimento con duecentododici castoni contenenti intagli, cammei e paste vitree di diversa origine (Wentzel, 1962) - a cui si aggiunge un prezioso vetro tardoantico con la raffigurazione di tre personaggi - come un richiamo ai pannelli della legatura di Teodolinda del tesoro di Monza, in una linea di continuità di un'arte di corte longobarda. Ad artefici formatisi nelle botteghe orafe italiche di età longobarda si potrebbe infine attribuire la Cruz de los Ángeles di Oviedo (Mus. de la Cámara Santa), datata 808, per l'affinità della sua decorazione in lamina aurea filigranata e gemme con quella di alcune delle fibule a disco di produzione italica (Elbern, 1988, p. 23).

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Monetazione

I L. in Pannonia, estranei a qualsiasi cultura economico-monetaria, pure conobbero e considerarono modello ideale la moneta bizantina in oro, il solido (se non il multiplo) o il tremisse. Essa, giunta come tributo per garantire neutralità o alleanza o come soldo mercenario, divenne oggetto di prestigio o da tesaurizzare, elemento decorativo o amuleto, specie nelle imitazioni - fedeli ai tipi e alle leggende (di cui sfuggiva il valore fonetico) - che si trovano anche in Italia, con funzione non monetaria, come per es. in alcune collane rinvenute nelle necropoli di Nocera Umbra o di Cividale. Si hanno tipi che alludono a significati magico-religiosi, con teste d'aquila sul busto o davanti al volto di Giustiniano (Cividale, Mus. Archeologico Naz.; Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale). In Italia tali tradizioni sembrano esaurirsi.

Langobardia Maior

In una situazione molto confusa, in cui non si distinguono le competenze del potere regio e ducale e dell'iniziativa privata - si hanno conî che decorano oggetti non monetari, come la croce di Novara (Norimberga, Germanisches Nationalmus.) -, in cui circolano tremissi aurei e divisionali in argento (il bronzo è fuori mercato), si hanno tremissi di corretta imitazione, a tondello largo, di peso pieno, in oro quasi puro, per Giustiniano I (527-565), Giustino II (565-578), Maurizio Tiberio (582-602), con la vittoria sul rovescio. Rari sono i solidi (esemplari per Maurizio nel ripostiglio di Aldrans in Tirolo; Innsbruck, Tiroler Landesmus. Ferdinandeum). Nelle imitazioni di tremissi di Maurizio Tiberio lo stile si imbarbarisce, anche fortemente, e iniziano anche i tipi con la croce sul rovescio. Sono presenti (Aldrans) leggende di dritto senza valore fonetico. Si tratta forse di emissioni ducali, se non del tutto irregolari, comunque in ambiente privo di regole. Ciò vale anche per l'argento, con una produzione, quasi sempre barbarizzata, di quarti e ottavi di siliqua, a nome di Giustiniano I e Giustino II, o con leggende prive di valore fonetico, con la croce sul rovescio, diffusi in tutta l'Europa germanica, soprattutto in area franca. Rarissimi quarti di siliqua hanno monogrammi che sono stati sciolti nei nomi dei duchi del Friuli, Ago (calco in gesso; Vienna, Kunsthistorisches Mus., Münzkab.) e Wechtari (Parigi, BN, Cab. Méd., inv. nr. 1966/4; Hahn, 1988), o nel nome di Faroaldo I duca di Spoleto, a Classe tra il 579 e il 590 (Cambridge, Fitzwilliam Mus.; Grierson, Blackburn, 1986). Probabilmente si ebbe un sistema di emissioni di frazioni di siliqua in argento, prima ducali poi regie, tendenzialmente sempre più piccole (fino all'ottavo), poco note, che si saldò con le emissioni con il c.d. monogramma di Pertarito (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche).Con Autari (584-590) o Agilulfo la produzione venne in parte centralizzata in una zecca regia, quasi sicuramente a Ticinum (Pavia). La moneta del re, di peso costante e corretto, buona lega, tondello stretto, è un'imitazione stilizzata del tremisse di Maurizio Tiberio, teorica autorità emittente, con la vittoria sul rovescio (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche). Il tipo rimase invariato fino a Pertarito e Cuniperto (688-700), senza abbandonare l'immagine e il nome di Maurizio Tiberio, anche dopo la sua morte. Si ebbe però una progressiva stilizzazione dell'immagine, su tondello sempre più largo e sottile, fino a lasciare trasparire l'impronta del dritto sul rovescio e viceversa, peso calante, fino a gr. 1,30-1,20, e lega povera, soprattutto negli esemplari non ufficiali.La leggenda sul rovescio (VICTORIA AVGVSTORVM), inizialmente corretta, perse il valore fonetico e divenne una sequenza di segni impostata specularmente, con anomalie, leggibili forse come indicazioni di zecca.Si ebbero emissioni non ufficiali, talvolta 'barbarizzate', e periferiche (ducali) con tipi diversi, a nome di Maurizio Tiberio e di altri imperatori, fino a Eraclio (610-641) e Costante II (641-668), con sul rovescio sia la vittoria sia la croce potenziata, semplice o su gradini. Questi ultimi tipi furono adottati nelle emissioni dei secc. 7°-8° della Tuscia (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche). Dopo la metà del sec. 7° nel regno, come preparazione di una moneta reale e nazionale, si ebbero emissioni anomale. Una con due monogrammi (molto simili, ma diversi), forse di Ariperto I e del figlio Pertarito (ante 661), e una con un MARINVS MON(ETARIVS), evidentemente il magistrato preposto alle emissioni, il cui nome sostituisce al dritto quello dell'imperatore (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche). L'emissione indizia un'organizzazione della zecca analoga a quella coeva dei Franchi, con magistrati monetari delegati dal sovrano. Il nome del re giunse sulla moneta con Cuniperto, in due emissioni di tremissi a bassa lega e a basso peso: una di Cuniperto da solo, con il suo nome sul dritto e sul rovescio (con la vittoria) e una, rara, di Cuniperto con un misterioso collega Ciericu, di cui non si hanno altre tracce (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Münzkab.).Successivamente Cuniperto completò la riforma monetaria, emettendo, forse nella zecca di Pavia, una moneta nuova, 'nazionale', con il peso corretto del tremisse bizantino (ca. gr. 1,5), in oro quasi puro. Probabili maestranze orientali rinnovarono le tecniche di coniazione e di incisione. Il tondello è ridotto, con il busto del re sul dritto, da prototipi del sec. 4°, e S. Michele Arcangelo, protettore dei L., al rovescio. Con Ariperto II (700-712) e con Liutprando il tipo 'nazionale' con il S. Michele si immobilizzò, iniziando un lento declino, nel peso, nella lega, nella resa stilistica, con frequenti emissioni irregolari. I monetarii responsabili sono riconoscibili nelle lettere o nelle sigle sulle monete e nei nomi sul petto di Liutprando: Lopo, Ambros[.], Anthemo (che forse operò ancora con Ratchis). Le aree periferiche sembrano autonome: nella prima metà del sec. 7° nella Tuscia si hanno emissioni autonome, anche di pregio, solo epigrafiche, prima con il monogramma della città (Lucca) e leggende prive di valore fonetico, poi con il nome delle città (Lucca, Pistoia, Pisa, forse Chiusi) intorno a una stella, da cui il termine 'stellato' (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche). Le città sono definite 'flavie', autorizzate dal re, che era 'flavio', in riferimento alla tradizione costantiniana, occidentale.Nel suo primo periodo di regno (744-749), Ratchis innovò, con scarsa fortuna, i tipi del tremisse, con un ritratto frontale. Astolfo (749-756) sostituì il ritratto, di profilo o frontale, con un oscuro monogramma variabile. Sempre Astolfo fece emettere 'stellati' con il proprio nome nella Tuscia (Lucca, Pisa) e monete in oro e bronzo, di tipo e peso bizantino, a Ravenna, di cui ebbe il controllo dal 751 al 756.Il tipo con monogramma/S. Michele venne accettato da Ratchis nel suo secondo regno (756-757) e da Desiderio (757-774) nella prima emissione, nota dall'esemplare da Mezzomerico (prov. Novara; Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche). Successivamente egli decentrò le emissioni di 'stellati', in una serie di zecche cittadine 'flavie': Ivrea, Lucca, Milano, Novate, Pisa, Piacenza, Pombia, Reggio Emilia, Sibrium (Castelseprio), Pavia, Treviso, Vercelli, Vicenza. Dei monetieri, locali, si conservano tracce negli archivi. Nel tempo le emissioni si degradarono sia stilisticamente sia come peso e contenuto d'oro.Carlo Magno, in Italia nel 774, non modificò il sistema di produzione e la struttura della circolazione, basata sull'oro (anche frazionato), ed emise ancora 'stellati', in una serie di zecche in parte nuove: Bergamo, Lucca, Milano, Pisa, Castelseprio, Pavia, Coira (con tipo un po' diverso). Nel 781 Carlo Magno estese all'Italia la demonetizzazione dell'oro, già imposta al resto dell'Europa, emettendo denari argentei analoghi a quelli delle altre zecche carolinge. L'oro continuò a circolare solo con monete di Bisanzio, di Benevento e arabe.

Langobardia Minor

La prima fase della monetazione del ducato di Benevento è legata a rari ritrovamenti - necropoli di Campochiaro (prov. Campobasso); ripostiglio, inedito, da Napoli (Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale) - di tremissi pseudobizantini in oro, con croce potenziata sul rovescio, con leggenda pseudoepigrafica, e ottavi di siliqua in argento con il busto di Eraclio sul dritto e sul rovescio il suo monogramma. Da tipi analoghi a quelli emessi a nome di diversi imperatori (Maurizio Tiberio, Foca, Eraclio, Costante II) in altre aree (ducati del Nord, Tuscia) i tremissi, di peso calante, sembrano evolvere in tipi globulari, fortemente stilizzati, ispirati a quelli emessi a Cartagine da Costante II. Salvo rare eccezioni, sul dritto dei tremissi appaiono talvolta lettere variabili, R, A, S, SC, molto spesso una B, che non pare però essere iniziale di Benevento. Tale monetazione, dai contorni non ben definiti, venne riformata dal duca Gisulfo I (689-706), in sintonia con la riforma di Cuniperto nel regno, che collocò la sua iniziale nel campo della moneta, imitata da quella bizantina. Con Romualdo II (706-731) si immobilizzò, per solidi e tremissi, il tipo con ritratto frontale sul dritto e la croce latina potenziata sul rovescio, su uno o più gradini, con a lato l'iniziale del duca (Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale). I tipi, inizialmente abbastanza fedeli, subirono nel tempo una progressiva stilizzazione.Questa monetazione, molto più strettamente collegata all'economia e alla monetazione bizantina di quella del regno, si sviluppò fino al sec. 9° senza molte modifiche, con solidi e tremissi. Solo in una fase (con Godescalco e Liutprando) comparve nella mano sinistra dell'imperatore l'akakía (Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale). Coeve devono essere le emissioni di solidi e tremissi con una mano guantata al posto dell'iniziale del duca (Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale). Con Arechi II il ducato di Benevento, al vertice della potenza, divenne principato nel 774 e ciò viene indicato nella leggenda del rovescio delle monete. Il successore Grimoaldo III (788-806), inizialmente duca con Carlo Magno, emise poi da solo, come principe. Con lui il nome del duca compare per esteso sul dritto della moneta, così compiutamente 'nazionale', senza più riferimenti all'imperatore. Grimoaldo III fece coniare anche denari in argento, entrando così nello spazio della circolazione della moneta in argento carolingia.Anche se il principato sfuggì ben presto al controllo politico dei Franchi, le emissioni argentee continuarono nei decenni successivi, con tipi spesso originali, sostituendo, dopo Sicardo (832-839), completamente l'oro. Nell'866-871 a Benevento vennero emessi denari in argento dall'imperatore Ludovico II, con Adelchi (853-878) o con Angilberga (Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale). Nell'ultima fase dell'emissione dell'oro appare particolarmente interessante la manovra monetaria tentata da Sicone (817-832), che innovò il tipo, proponendo sul solido un'immagine frontale di S. Michele Arcangelo (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte Archeologiche e Numismatiche). Egli emise moneta, di cattiva lega, in quantitativi enormi, forse in un tentativo speculativo che non ebbe successo. Il tipo con S. Michele venne abbandonato e la zecca di Benevento cessò le emissioni nell'897. Nel sec. 9° si ebbero emissioni anche a Salerno, attiva a partire dall'epoca di Siconolfo (839-849), con tipi identici, in oro e argento, a quelli contemporanei di Benevento (Roma, Gab. Numismatico Naz., Coll. Reale). Successivamente, fino al 901 ca., furono emesse monete solo in argento. Il principato restò indipendente fino al 1077, emettendo moneta anche nella sua ultima fase, con caratteri però del tutto diversi. Con i primissimi del sec. 10° cessarono anche le emissioni in argento a Capua, con le monete dei conti Atenolfo (887-910) e Landolfo I (910-943).

Bibl.: M. Cagiati, La zecca di Benevento, Rivista italiana di numismatica 28, 1915, pp. 287-312; 29, 1916, pp. 83-120, 335-366, 471-496; W.A. Oddy, Analysis of the Gold Coinage of Beneventum, Numismatic Chronicle, s. VII, 14, 1974, pp. 78-109; E. Bernareggi, Moneta Langobardorum, Milano 1983; P. Grierson, M. Blackburn, Medieval European Coinage, I, The Early Middle Ages (5th-10th Centuries), Cambridge 1986; E.A. Arslan, Una riforma monetaria di Cuniperto, re dei Longobardi (688-700), Numismatica e antichità classiche 15, 1986, pp. 249-275; id., Sequenze dei conii e valutazioni quantitative delle monetazioni argentea ed aurea di Benevento longobarda, in Rythmes de la production monétaire, de l'antiquité à nos jours, "Actes du Colloque international, Paris 1986", a cura di G. Depeyrot, T. Hackens, G. Moucharte (Numismatica Lovaniensia, 7), Louvain-la-Neuve 1987, pp. 387-409; W. Hahn, Die Kleinsilbermünzen der langobardischen Herzöge von Friaul, in Studia numismatica Labacensia, a cura di P. Kos, Z. Demo, Ljubljana 1988, pp. 317-321.; E.A. Arslan, Monete auree ed anello con castone da Vicenne, in Samnium. Archeologia del Molise, cat. (Milano 1991), Roma 1991, pp. 344-345; W. Hahn, A. Lügmeyer, Der langobardenzeitliche Münzschatzfund von Aldrans in Tirol, Wien 1992; E.A. Arslan, La monetazione di Ratchis, re dei Longobardi: dubbi e problemi, Acta numismatica 21-23, 1993, pp. 337-345; id., La circolazione monetaria (secoli V-VIII), in La storia dell'Alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell'archeologia, "Atti del Convegno internazionale, Siena 1992", a cura di R. Francovich, G. Noyé, Firenze 1994, pp. 497-519.E.A. Arslan

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