LORENZO de' Medici, duca di Urbino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 66 (2006)

LORENZO de' Medici, duca di Urbino

Gino Benzoni

Nacque a Firenze il 12 sett. 1492 da Piero di Lorenzo e da Alfonsina (1470 circa - 1520) di Roberto Orsini.

Salutata con "grande festa" la sua nascita, L. fu battezzato alla presenza degli Otto di pratica e ricevette il nome del nonno paterno da poco scomparso, così come quello della sorella Clarice (1493-1528; sposata nel 1509 a Filippo Strozzi) avrebbe ricordato la moglie del Magnifico, Clarice Orsini, a sottolineare la determinazione di Piero ad attestarsi sul solco della collaudata influenza del genitore.

Con la cacciata da Firenze di Piero, L. - il quale "non ci ha colpa", come scriveva il padre a Piero Dovizi il 26 ott. 1494 da Empoli - fu coinvolto nella disgrazia paterna. Giunto furtivamente a Urbino, grazie alla sollecitudine di Antonio Dovizi, L. fu sistemato a Venezia, dove era riparato Piero Dovizi, e affidato alle cure di Girolamo Lippomano (uno tra i mallevadori, il 7 ott. 1495, di un prestito della Repubblica a Piero de' Medici), nella cui dimora rimase sino, almeno, al 29 febbr. 1500, con viva gratitudine dei Medici (come avrebbe riconosciuto lo zio cardinale Giovanni il 17 febbr. 1513 incontrando Vittor Lippomano, fratello di Girolamo).

Prossimo agli 8 anni e già alfabetizzato, il "Lorenzino" fu richiamato dalla madre Alfonsina che lo volle presso di sé a Roma, per poi seguire gli spostamenti del marito, impegnato militarmente nel Meridione per conto della Francia. Sicché L. prima risiedette a Montecassino, quindi a Gaeta. Ed è qui - dopo la tragica morte del padre, annegato nel Garigliano con altri 300 nel tentativo di traghettare l'artiglieria, il 28 dic. 1503 - che Bartolomeo d'Alviano, vincitore con Gonzalo Fernández de Córdoba, si prese cura della vedova e degli orfani sino a "redurli a salvamento", come scriveva il condottiero il 2 genn. 1504 al fratello Bernardino d'Alviano.

Una volta a Roma l'educazione di L. - che la madre volle accurata - proseguì.

Tra i precettori ebbe pure l'umanista G. Favorino. Capace di padroneggiare il latino e di intendere il greco, L. non era tuttavia appassionato agli studi e facilmente se ne spazientiva. Preferiva i cavalli, i levrieri, i falconi, le battute di caccia. E manifestava gran trasporto per le donne. Da una relazione ancillare, nel 1510 circa, ebbe il figlio naturale Alessandro, il futuro duca di Firenze, a proposito del quale le dicerie attribuivano la paternità pure al cugino Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII. La madre di L. contrastava la condotta del figlio, disapprovava le sue smanie di divertimento e lo pretendeva sempre docile ai suoi comandi. Alla "tornata" da una partita di caccia cui L. si era portato senza sua "licenza", lo investì con asprezza che "saria troppo a uno omicida" (fra Francesco Gondi, in una lettera del 28 dic. 1511, a Giulio de' Medici). Malgrado l'invadenza della madre - "troppo ambiziosa" a giudizio dei contemporanei, intrigante e spesso inopportuna -, L. non giunse alla rottura con lei, anzi conservò sentimenti di "amore e reverenzia", preoccupandosi di riscuoterne l'approvazione.

Con il sacco di Prato e la deposizione di Pier Soderini maturò a Firenze la restaurazione medicea. Nella città recuperata, il 4 sett. 1512 L. fece il suo ingresso, cavalcando sino alla casa di Filippo Buondelmonti; lo aveva preceduto, il 1( settembre, lo zio Giuliano de' Medici e lo avrebbe seguito, il 14, l'altro zio, il cardinale Giovanni. Cogliendo la posizione di tutta eminenza così raggiunta, il 17 ottobre la Repubblica di Venezia aggregò alla nobiltà marciana il cardinale, "el magnifico Giuliano" e, per terzo, "domino Laurentio". A Firenze, tuttavia, L. conseguì in breve il primato, una volta arrestato un gruppo di congiurati antimedicei, il 18 febbr. 1513, e decapitati i maggiori indiziati, Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, il 23, e tacitata brutalmente ogni velleità oppositiva. L'elezione a papa di Giovanni de' Medici (Leone X), l'11 marzo 1513, segnò il definitivo consolidamento del potere mediceo.

L., dopo essere stato dichiarato abile agli uffici, fu ammesso tra i Duecento e destinato al nuovo scrutinio e il 22 apr. 1513 fu eletto alla Balia. Il 10 agosto fece il suo ingresso, ufficializzato con "grandissimo onore". Il papa, che lo aveva carissimo, nell'"Instructione" del 13 agosto lo richiamò tuttavia a un esercizio discreto dell'influenza personale, che si insinuasse rispettosa dell'assetto istituzionale, senza arbitri palesi. Vigeva per L. il criterio di "non forzar donne", di "non impedir iustitia", di "tener le mani nette de' denari del Comune": il minimo, insomma, perché la città - pur pesantemente condizionata - accettasse, senza reagire, la subordinazione alla volontà di Lorenzo. Egli cominciò a collocare negli uffici uomini fidati, premendo perché le cariche andassero a persone da lui segnalate e gradite. Nel settembre 1513, L. fu creato patrizio romano, al pari dello zio Giuliano, gonfaloniere della Chiesa.

Appariva "il primo della ciptà", non solo nella determinazione delle sue ambizioni, ma pure nella percezione della popolazione e dei diplomatici. Già il 5 sett. 1513, in un crocchio conversante in piazza, un mercante lo nominava come "el magnifico Lorenzo". L'immediata reazione di un popolano - "el magnifico merda", non si era trattenuto dal correggere - fu subito denunciata e punita con il bando da Firenze per 8 anni. Sempre più L. pretendeva riverenza e smaniava di figurare primo nelle cerimonie, nelle feste carnevalizie, nelle giostre, nei festeggiamenti del santo patrono. Lo zio pontefice, tuttavia, lo frenava, paventandone gli eccessi, così come ne troncava decisamente gli appetiti, attizzati dalla madre, su Piombino e persino su Siena. Di questa, non "se ne parli nemmeno": così replicò bruscamente Leone X al primo cenno in proposito.

Il 23 maggio 1515 fu conferito a L. il capitanato generale dei "fiorentini con 250 uomini d'arme" alla sua diretta dipendenza e altrettanti "sotto altri condottieri", tenuti a obbedirgli. Il "bastone" venne consegnato nella "mostra delle gienti d'arme" il 12 agosto. Anche se nel Consiglio dei settanta L. si era premurato di minimizzare il titolo cui si autocandidava (per il quale non avrebbe preteso "né genti né denari"), il capitanato si rivelò lucroso: uno stipendio di 35.000 fiorini, elevato, il 3 luglio, a 37.000, una durata di 4 anni, "tre fermi e uno a piacimento".

"Questo Lorenzino" - rimarcò l'ambasciatore veneto Marino Zorzi in Senato il 17 marzo 1517 - "è stato fatto capitano dei Fiorentini contro le loro leggi", le quali, in ciò simili a quelle veneziane, proibiscono "che alcun fiorentino sia capitano". L. si era così "fatto signor di Firenze". Prima "si imbossolava, ora non si fa più": ne risultava senza "più ordine" il sistema di magistrature compresenti: gli "Otto col gonfaloniere", gli Otto di pratica, gli Otto di guardia e balia. "Quello che vuol Lorenzino è fatto", proseguiva lo Zorzi, che - membro di una classe di governo usa al rispetto della normativa - di fronte a una carica extra legem, se non addirittura contra legem provava sin ripugnanza. Tuttavia - e lo Zorzi non mancava di precisarlo - l'insignorimento di L., "ai Fiorentini, dalla sua fazione in fuora" (cioè eccettuati i filomedicei), "non piace" (Relazioni, pp. 51 s.).

L. contava su un gruppo di elementi fidati, tra cui il cognato Filippo Strozzi e Francesco Vettori. Tuttavia la nomina a capitano registrava un'auctoritas costituzionalmente anomala e autorizzava ulteriori manomissioni e stravolgimenti delle regole. È così che l'intese il Favorino, già pedagogo di L. e nel frattempo diventato vescovo di Nocera, il quale si felicitò con l'allievo, quasi incoraggiandolo a procedere senza scrupoli: "or vedi che vestiremo a nostro modo [(] secondo ce parrà et le leggi non ce poteranno. Or vedi che gli statuti non staranno più sopra di noi". Invece per Leone X la condotta fu una sorpresa e si irritò fortemente che il nipote non gli avesse chiesto il preventivo assenso; tanto più che, a suo avviso, la carica si sarebbe dovuta assegnare non a L., ma a una persona di fede medicea, nel rispetto delle norme e soprattutto nell'esercizio di un'abile potestas indirecta su Firenze, preferita dal papa a un'assunzione di responsabilità in prima persona da parte dei Medici e, per di più, con lacerazione dell'involucro delle leggi.

Paventando l'ira del papa, L. inviava a Roma, a giustificarsi, il segretario personale Giovanni Lapucci. Ma Leone X, nell'udienza concessa a costui il 28 giugno 1515, non fece accenno alla disobbedienza del nipote, perché altri e più gravi erano i motivi di preoccupazione. Angosciavano il papa le mosse del nuovo re di Francia Francesco I. Il 29 giugno le forze pontificie furono mobilitate e poste sotto il comando del fratello del papa, Giuliano. Egli, malandato fisicamente, fu sostituito l'8 agosto da L., capitano generale supplente, ma a tutti gli effetti comandante supremo. E mentre, ancora il 17 luglio, il papa stringeva un'alleanza antifrancese con la Spagna e l'Impero, il 10 agosto Francesco I, con numeroso esercito, varcava le Alpi. Il 12 L. assunse il comando delle milizie fiorentine: 140 cavalleggeri e 4.000 fanti sfilarono incitati dal grido "palle, palle". Non è che L. - che partì il 16 per Bologna, per poi, dopo una sosta a Parma, fermarsi a Piacenza - fosse proprio intenzionato a battersi. La madre gli aveva fatto presente che con suo padre Piero la famiglia aveva già subito abbastanza disgrazie e un lungo esilio; che ben 80.000 erano gli effettivi del re di Francia; che Firenze era "devotissima alla corona francese". Dal canto suo Francesco Vettori gli fece capire che contro la Francia poteva battersi al più come comandante pontificio, non come fiorentino. Nemmeno il viceré di Napoli, Ramón Folch de Cardona, d'altronde, era propenso alla pugna. Sarebbe stato opportuno che le truppe concentrate a Piacenza avessero varcato il Po, anticipato il nemico occupando Lodi e raggiunto gli alleati svizzeri. Ma sia L. sia il viceré erano in preda all'attendismo. Lodi fu presa dai Francesi e il 13-14 sett. 1515 ebbe luogo la grande vittoria di Francesco I a Melegnano, che L. e Cardona appresero a Piacenza.

Di fronte alla necessità di un accordo tra il papa e Francesco I, L. fu designato da Leone X suo portavoce, essendo nominato, il 17 ottobre, anche ambasciatore della Signoria presso il re di Francia. Francesco I e L. così si incontrarono, prima a Vigevano e poi a Milano, e simpatizzarono: entrambi giovani e gaudenti, sul piano dei divertimenti si intendevano, con vantaggio dei rapporti franco-pontifici.

All'inizio di novembre l'ambasciatore veneto Pietro Pasqualigo informava che il re "sta[va] su piaceri" con L. e gli aveva regalato ricche vesti, un bel destriero, 4000 ducati. E L. ne aveva persi 500 "alla balla" con il re e altri 1500 con il "zuogar con altri signori francesi". Il 14 novembre, allorché Francesco I troneggiò in "una salla", stando alla "lista del modo del sentar", L. figurava "a man sinistra" del sovrano, dopo 5 dignitari francesi e prima di "altri baroni". Di lì a una settimana, il 21 novembre, L. lasciò Milano per Roma per portarsi subito a Firenze, dove prese parte all'ingresso di Leone X, il 30, precedendo il papa "sopra un bel cavallo", esibendosi, elegantissimo con il "zupon" e "saion di restagno d'arzento", in "molte braverie". Il 7 dicembre L. si recò a Reggio con Lorenzo Orsini (Renzo da Ceri) a incontrare Francesco I, al seguito del quale, l'11, sfilò a Bologna, dove, con gran enfasi, fu celebrata la ritrovata armonia franco-pontificia. Quindi L. si spostò a Milano con il sovrano, gareggiando, non senza dispendio, "in vestirsi".

Tornato a Firenze, la morte dello zio Giuliano, 17 marzo 1516, consolidò l'eminenza di L. e facilitò il proditorio esproprio, a suo vantaggio, del Ducato di Urbino che Giuliano si era adoperato a sventare. Il 26 maggio, L., "capitano della Chiesa" e, insieme, "capitano de' fiorentini", mosse con gente d'armi "per pigliare Urbino per conto del papa", con "tutto el suo territorio". Imboccata la via di Figline, l'impresa riuscì agevole: "quanto cavalcava, tanto pigliava". Il 4 giugno L. entrò a Urbino con Giampaolo Baglioni e Renzo da Ceri e il 14 era di nuovo a Firenze, trionfalmente accolto. Nel concistoro del 18 agosto L. fu proclamato duca di Urbino e formalmente investito l'8 ottobre con sdegno di Pasquino nel vedere che il papa aveva "levato el ver signore" del Ducato per sostituirlo con "un tiranno disleal, fiorentin, crudo e rapace". Di nuovo a Urbino il 14 ottobre, con il cugino cardinale Innocenzo Cibo (figlio della zia Maddalena de' Medici), L. - a detta del Vettori, suo futuro biografo - in cuor suo non avrebbe voluto la titolarità del Ducato, se non altro per timore dell'ostilità di Francesco I; la responsabilità spetterebbe alla madre Alfonsina, instancabile nell'"infestare" il papa perché desse "uno stato al figliuolo". Comunque, in novembre, corse voce che Leone X volesse innalzare L. a "duca di Romagna", dandogli pure Bologna e parte del Regno di Napoli.

Appare arduo distinguere tra la volontà del papa di usare L. all'ingrandimento del casato e l'ambizione di L., sempre gonfiata dalla madre, a ulteriori investiture. A parere di Marino Zorzi, Leone X sarebbe di indole pacata; sarebbero piuttosto i parenti a non dargli requie con le loro pretese, e tra tutti L., il quale "è astuto e atto a far cose non come Valentin", Cesare Borgia, "ma pocho manco" (Relazioni, p. 51). Ovviamente lo Zorzi non sa che il Principe - dove il Valentino funge da esempio - è dedicato a L., con il sottinteso che la forza leonina e l'astuzia volpina debbano valere anche per lui. Se ne deduce, allora, che l'accostamento tra il figlio di Alessandro VI e il nipote di Leone X nasca spontaneo negli ambienti curiali e cortigiani e circoli anche nei giudizi dei diplomatici. Anche lo Zorzi accredita L. quale capace di sagace calcolo nonché idoneo, virtualmente, a imprese significative e forse lo sopravvalutava: L. era troppo condizionato dalla madre "ambitiosa et importuna femina", come l'avrebbe definita il Giovio; per tal verso la sua astuzia non era autonoma. E l'energia operativa era, se non altro, fiaccata dalle condizioni di salute.

Per lo meno dalla fine del 1516, L. era "molto [(] oppressato dalle bolle francesi", dalla sifilide che lo stremava e lo costringeva in casa. Nell'azione di recupero del Ducato di Urbino, avviata nel febbraio 1517, dallo spodestato Francesco Maria Della Rovere, L. dette prova di qualità militari modeste e, se il 16 settembre l'avversario desistette, fu perché finanziariamente debole, mentre militarmente aveva ridicolizzato il pontefice e pure Lorenzo. Egli, ferito da una schioppettata "nella coloctola", il 29 marzo 1517, mentre si accingeva alla presa di Castel Mondolfo, fu costretto a una convalescenza ad Ancona; rimessosi, si portò a Firenze, il 24 maggio. Pertanto, fu soprattutto su Roberto Boschetti, nominato in settembre vicario di L. a Urbino e governatore, che ricaddero le incombenze belliche e quelle amministrative: del Ducato usurpato L. sostanzialmente si disinteressò. Era tempo, peraltro, che pensasse ad accasarsi.

Tema chiaccherato quello delle nozze di L. fin dal 1513, quando il matrimonio con "una Soderina" pareva auspicabile a ricucire la Firenze divisa. Caduta tale eventualità, nel gennaio 1514 si avviò una trattativa per sposarlo con Bona Sforza, troncata presto dalla madre che non gradiva questo accasamento; in maggio furono considerate nozze prestigiose con una sorella del re di Francia, ma tra la fine dell'anno e l'inizio del successivo parve che dovesse impalmare una sorella del duca di Cardona, un progetto dal quale si dedusse "essere nata la nuova intelligenza" del papa con la Spagna (così Pietro Bembo il 6 dic. 1514 al papa da Venezia). Ma sfumate pure le nozze con la nipote del re di Spagna Ferdinando il Cattolico, per l'intestardirsi di L., sobillato dalla madre, su di una dote di 100.000 ducati, fu nell'autunno inoltrato del 1517 che si tornò a parlare con insistenza del matrimonio di L., allorquando Leone X - come constata l'ambasciatore veneto Marco Minio - trattò "et con Franza et con Spagna" e, optando per la prima, parve evidente che il papa "si vuol far tutto francese".

Il matrimonio di L. con la diciottenne Madeleine de la Tour d'Auvergne fu contratto, "per verba de presenti", il 25 genn. 1518 e già il 4 febbraio giunsero a Firenze le relative lettere sottoscritte dal re. Soltanto il 22 marzo L. - che al carnevale a Firenze non aveva rinunciato - partì per la Francia, dove, nel castello di Amboise, rappresentò il papa al battesimo del delfino, il 25 aprile, e il 2 maggio furono celebrate le nozze con Madeleine. A fine agosto L. tornò di nuovo in Toscana, per entrare solennemente a Firenze il 7 settembre con la sposa; seguirono tre giorni di festeggiamenti. In ottobre L. si recò a Roma per convincere il papa ad autorizzare un'assunzione esplicita del principato su Firenze. Scoraggiato in questa pretesa, rientrò a Firenze, dove cadde ammalato per l'aggravarsi della sifilide, che il Vettori preferisce definire "malattia procedente da umori malinconici". L. giaceva "debole et estenuato", "pieno d'umori grossi", aggredito pressoché ogni giorno da "dolori colici", senza che i medici potessero giovargli. Era malata pure la moglie che - data alla luce, il 13 apr. 1519, Caterina, la futura regina di Francia - lo anticipò nella fine il 28.

L. morì a Firenze il 4 maggio 1519, non senza che la popolazione fiorentina tirasse un sospiro di sollievo, secondo i contemporanei; e senza, d'altronde, che Leone X se ne addolorasse profondamente. Quanto ad Alfonsina - che aveva impedito al figlio morente di lasciare testamento, facendo mancare notaio e testimoni -, sarebbe deceduta a Roma il 7 febbr. 1520.

L'avvenenza fisica, riconosciuta a L. dai contemporanei, si sarebbe sublimata - nelle tombe medicee di S. Lorenzo - nel michelangiolesco Pensieroso, a esprimere una contenuta angoscia sulla fugacità delle cose, sullo scorrere del tempo e, anche, una presa di distanza, un distacco. Appare come gravato dalla consapevolezza della fine, la propria e quella generale, questo L. marmoreo e postumo di Michelangelo, giovinezza fulgida trasformata in pensosità. Ma, a ispessire la figura di L., concorre anche la dedica del Principe a lui girata dal Machiavelli dopo la morte del primo dedicatario, lo zio Giuliano de' Medici. Senza supporre un L. lettore attento del trattato a lui dedicato - vero o falso che sia l'aneddoto del suo immediato disinteresse, distratto all'arrivo del dono di un paio di bracchi -, si è ipotizzato un Machiavelli effettivamente convinto, nel dedicare l'opera, di una potenzialità operativa facente capo a un L. virtualmente signore di Firenze e congiunturalmente favorito dall'usurpazione del Ducato urbinate, quasi posizionato a cogliere un'eccezionale opportunità di intervento. Se così è, ci sarebbe, da parte del Machiavelli, un trasalimento di speranza mirato proprio a caricarsi su L., che pure all'autore mostra indifferenza e non offre neppure una concreta possibilità di impiego. Anche la Mandragola fu composta a divertimento di L., neosposo. Ma non solo per questo, se la trama giocata sulla strategia di una vincente seduzione - Callimaco conquista Lucrezia a scorno e beffa del marito Nicia - viene intesa quale allegoria di un L. che si insignorisce di Firenze a danno dello sconfitto Pier Soderini. E, in tal caso, Callimaco sarebbe L., Lucrezia Firenze, Nicia il Soderini. E, se così è, il Machiavelli si porrebbe connivente e sin plaudente con il mirare di L. al principato. Solo che Callimaco sprizza salute. E, intanto, L. cade ammalato. Costretto dalla sua morte, il Machiavelli - finalmente reimpiegato - cambia registro, muta prospettiva nel Discursus Florentinarum rerum, appunto, post mortem iunioris Laurentii, indirizzato a Leone X, che affida il governo di Firenze al cardinale Giulio, affiancato da Goro Gheri, già segretario di Lorenzo. E - nel malignare di Pasquino - tanto L. quanto lo zio Giuliano sarebbero "morti" per il veleno loro fatto propinare dal futuro Clemente VII.

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