LORENZO de' Medici, duca di Urbino. - Nacque a Firenze il 12 sett. 1492 da Piero di Lorenzo e da Alfonsina (1470 circa - 1520) di Roberto Orsini.
Con la cacciata da Firenze di Piero, L. - il quale "non ci ha colpa", come scriveva il padre a Piero Dovizi il 26 ott. 1494 da Empoli - fu coinvolto nella disgrazia paterna. Giunto furtivamente a Urbino, grazie alla sollecitudine di Antonio Dovizi, L. fu sistemato a Venezia, dove era riparato Piero Dovizi, e affidato alle cure di Girolamo Lippomano (uno tra i mallevadori, il 7 ott. 1495, di un prestito della Repubblica a Piero de' Medici), nella cui dimora rimase sino, almeno, al 29 febbr. 1500, con viva gratitudine dei Medici (come avrebbe riconosciuto lo zio cardinale Giovanni il 17 febbr. 1513 incontrando Vittor Lippomano, fratello di Girolamo).
Prossimo agli 8 anni e già alfabetizzato, il "Lorenzino" fu richiamato dalla madre Alfonsina che lo volle presso di sé a Roma, per poi seguire gli spostamenti del marito, impegnato militarmente nel Meridione per conto della Francia. Sicché L. prima risiedette a Montecassino, quindi a Gaeta. Ed è qui - dopo la tragica morte del padre, annegato nel Garigliano con altri 300 nel tentativo di traghettare l'artiglieria, il 28 dic. 1503 - che Bartolomeo d'Alviano, vincitore con Gonzalo Fernández de Córdoba, si prese cura della vedova e degli orfani sino a "redurli a salvamento", come scriveva il condottiero il 2 genn. 1504 al fratello Bernardino d'Alviano.
Una volta a Roma l'educazione di L. - che la madre volle accurata - proseguì.
Con il sacco di Prato e la deposizione di Pier Soderini maturò a Firenze la restaurazione medicea. Nella città recuperata, il 4 sett. 1512 L. fece il suo ingresso, cavalcando sino alla casa di Filippo Buondelmonti; lo aveva preceduto, il 1( settembre, lo zio Giuliano de' Medici e lo avrebbe seguito, il 14, l'altro zio, il cardinale Giovanni. Cogliendo la posizione di tutta eminenza così raggiunta, il 17 ottobre la Repubblica di Venezia aggregò alla nobiltà marciana il cardinale, "el magnifico Giuliano" e, per terzo, "domino Laurentio". A Firenze, tuttavia, L. conseguì in breve il primato, una volta arrestato un gruppo di congiurati antimedicei, il 18 febbr. 1513, e decapitati i maggiori indiziati, Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, il 23, e tacitata brutalmente ogni velleità oppositiva. L'elezione a papa di Giovanni de' Medici (Leone X), l'11 marzo 1513, segnò il definitivo consolidamento del potere mediceo.
L., dopo essere stato dichiarato abile agli uffici, fu ammesso tra i Duecento e destinato al nuovo scrutinio e il 22 apr. 1513 fu eletto alla Balia. Il 10 agosto fece il suo ingresso, ufficializzato con "grandissimo onore". Il papa, che lo aveva carissimo, nell'"Instructione" del 13 agosto lo richiamò tuttavia a un esercizio discreto dell'influenza personale, che si insinuasse rispettosa dell'assetto istituzionale, senza arbitri palesi. Vigeva per L. il criterio di "non forzar donne", di "non impedir iustitia", di "tener le mani nette de' denari del Comune": il minimo, insomma, perché la città - pur pesantemente condizionata - accettasse, senza reagire, la subordinazione alla volontà di Lorenzo. Egli cominciò a collocare negli uffici uomini fidati, premendo perché le cariche andassero a persone da lui segnalate e gradite. Nel settembre 1513, L. fu creato patrizio romano, al pari dello zio Giuliano, gonfaloniere della Chiesa.
Appariva "il primo della ciptà", non solo nella determinazione delle sue ambizioni, ma pure nella percezione della popolazione e dei diplomatici. Già il 5 sett. 1513, in un crocchio conversante in piazza, un mercante lo nominava come "el magnifico Lorenzo". L'immediata reazione di un popolano - "el magnifico merda", non si era trattenuto dal correggere - fu subito denunciata e punita con il bando da Firenze per 8 anni. Sempre più L. pretendeva riverenza e smaniava di figurare primo nelle cerimonie, nelle feste carnevalizie, nelle giostre, nei festeggiamenti del santo patrono. Lo zio pontefice, tuttavia, lo frenava, paventandone gli eccessi, così come ne troncava decisamente gli appetiti, attizzati dalla madre, su Piombino e persino su Siena. Di questa, non "se ne parli nemmeno": così replicò bruscamente Leone X al primo cenno in proposito.
Il 23 maggio 1515 fu conferito a L. il capitanato generale dei "fiorentini con 250 uomini d'arme" alla sua diretta dipendenza e altrettanti "sotto altri condottieri", tenuti a obbedirgli. Il "bastone" venne consegnato nella "mostra delle gienti d'arme" il 12 agosto. Anche se nel Consiglio dei settanta L. si era premurato di minimizzare il titolo cui si autocandidava (per il quale non avrebbe preteso "né genti né denari"), il capitanato si rivelò lucroso: uno stipendio di 35.000 fiorini, elevato, il 3 luglio, a 37.000, una durata di 4 anni, "tre fermi e uno a piacimento".
L. contava su un gruppo di elementi fidati, tra cui il cognato Filippo Strozzi e Francesco Vettori. Tuttavia la nomina a capitano registrava un'auctoritas costituzionalmente anomala e autorizzava ulteriori manomissioni e stravolgimenti delle regole. È così che l'intese il Favorino, già pedagogo di L. e nel frattempo diventato vescovo di Nocera, il quale si felicitò con l'allievo, quasi incoraggiandolo a procedere senza scrupoli: "or vedi che vestiremo a nostro modo [(] secondo ce parrà et le leggi non ce poteranno. Or vedi che gli statuti non staranno più sopra di noi". Invece per Leone X la condotta fu una sorpresa e si irritò fortemente che il nipote non gli avesse chiesto il preventivo assenso; tanto più che, a suo avviso, la carica si sarebbe dovuta assegnare non a L., ma a una persona di fede medicea, nel rispetto delle norme e soprattutto nell'esercizio di un'abile potestas indirecta su Firenze, preferita dal papa a un'assunzione di responsabilità in prima persona da parte dei Medici e, per di più, con lacerazione dell'involucro delle leggi.
Paventando l'ira del papa, L. inviava a Roma, a giustificarsi, il segretario personale Giovanni Lapucci. Ma Leone X, nell'udienza concessa a costui il 28 giugno 1515, non fece accenno alla disobbedienza del nipote, perché altri e più gravi erano i motivi di preoccupazione. Angosciavano il papa le mosse del nuovo re di Francia Francesco I. Il 29 giugno le forze pontificie furono mobilitate e poste sotto il comando del fratello del papa, Giuliano. Egli, malandato fisicamente, fu sostituito l'8 agosto da L., capitano generale supplente, ma a tutti gli effetti comandante supremo. E mentre, ancora il 17 luglio, il papa stringeva un'alleanza antifrancese con la Spagna e l'Impero, il 10 agosto Francesco I, con numeroso esercito, varcava le Alpi. Il 12 L. assunse il comando delle milizie fiorentine: 140 cavalleggeri e 4.000 fanti sfilarono incitati dal grido "palle, palle". Non è che L. - che partì il 16 per Bologna, per poi, dopo una sosta a Parma, fermarsi a Piacenza - fosse proprio intenzionato a battersi. La madre gli aveva fatto presente che con suo padre Piero la famiglia aveva già subito abbastanza disgrazie e un lungo esilio; che ben 80.000 erano gli effettivi del re di Francia; che Firenze era "devotissima alla corona francese". Dal canto suo Francesco Vettori gli fece capire che contro la Francia poteva battersi al più come comandante pontificio, non come fiorentino. Nemmeno il viceré di Napoli, Ramón Folch de Cardona, d'altronde, era propenso alla pugna. Sarebbe stato opportuno che le truppe concentrate a Piacenza avessero varcato il Po, anticipato il nemico occupando Lodi e raggiunto gli alleati svizzeri. Ma sia L. sia il viceré erano in preda all'attendismo. Lodi fu presa dai Francesi e il 13-14 sett. 1515 ebbe luogo la grande vittoria di Francesco I a Melegnano, che L. e Cardona appresero a Piacenza.
Di fronte alla necessità di un accordo tra il papa e Francesco I, L. fu designato da Leone X suo portavoce, essendo nominato, il 17 ottobre, anche ambasciatore della Signoria presso il re di Francia. Francesco I e L. così si incontrarono, prima a Vigevano e poi a Milano, e simpatizzarono: entrambi giovani e gaudenti, sul piano dei divertimenti si intendevano, con vantaggio dei rapporti franco-pontifici.
Tornato a Firenze, la morte dello zio Giuliano, 17 marzo 1516, consolidò l'eminenza di L. e facilitò il proditorio esproprio, a suo vantaggio, del Ducato di Urbino che Giuliano si era adoperato a sventare. Il 26 maggio, L., "capitano della Chiesa" e, insieme, "capitano de' fiorentini", mosse con gente d'armi "per pigliare Urbino per conto del papa", con "tutto el suo territorio". Imboccata la via di Figline, l'impresa riuscì agevole: "quanto cavalcava, tanto pigliava". Il 4 giugno L. entrò a Urbino con Giampaolo Baglioni e Renzo da Ceri e il 14 era di nuovo a Firenze, trionfalmente accolto. Nel concistoro del 18 agosto L. fu proclamato duca di Urbino e formalmente investito l'8 ottobre con sdegno di Pasquino nel vedere che il papa aveva "levato el ver signore" del Ducato per sostituirlo con "un tiranno disleal, fiorentin, crudo e rapace". Di nuovo a Urbino il 14 ottobre, con il cugino cardinale Innocenzo Cibo (figlio della zia Maddalena de' Medici), L. - a detta del Vettori, suo futuro biografo - in cuor suo non avrebbe voluto la titolarità del Ducato, se non altro per timore dell'ostilità di Francesco I; la responsabilità spetterebbe alla madre Alfonsina, instancabile nell'"infestare" il papa perché desse "uno stato al figliuolo". Comunque, in novembre, corse voce che Leone X volesse innalzare L. a "duca di Romagna", dandogli pure Bologna e parte del Regno di Napoli.
Per lo meno dalla fine del 1516, L. era "molto [(] oppressato dalle bolle francesi", dalla sifilide che lo stremava e lo costringeva in casa. Nell'azione di recupero del Ducato di Urbino, avviata nel febbraio 1517, dallo spodestato Francesco Maria Della Rovere, L. dette prova di qualità militari modeste e, se il 16 settembre l'avversario desistette, fu perché finanziariamente debole, mentre militarmente aveva ridicolizzato il pontefice e pure Lorenzo. Egli, ferito da una schioppettata "nella coloctola", il 29 marzo 1517, mentre si accingeva alla presa di Castel Mondolfo, fu costretto a una convalescenza ad Ancona; rimessosi, si portò a Firenze, il 24 maggio. Pertanto, fu soprattutto su Roberto Boschetti, nominato in settembre vicario di L. a Urbino e governatore, che ricaddero le incombenze belliche e quelle amministrative: del Ducato usurpato L. sostanzialmente si disinteressò. Era tempo, peraltro, che pensasse ad accasarsi.
Il matrimonio di L. con la diciottenne Madeleine de la Tour d'Auvergne fu contratto, "per verba de presenti", il 25 genn. 1518 e già il 4 febbraio giunsero a Firenze le relative lettere sottoscritte dal re. Soltanto il 22 marzo L. - che al carnevale a Firenze non aveva rinunciato - partì per la Francia, dove, nel castello di Amboise, rappresentò il papa al battesimo del delfino, il 25 aprile, e il 2 maggio furono celebrate le nozze con Madeleine. A fine agosto L. tornò di nuovo in Toscana, per entrare solennemente a Firenze il 7 settembre con la sposa; seguirono tre giorni di festeggiamenti. In ottobre L. si recò a Roma per convincere il papa ad autorizzare un'assunzione esplicita del principato su Firenze. Scoraggiato in questa pretesa, rientrò a Firenze, dove cadde ammalato per l'aggravarsi della sifilide, che il Vettori preferisce definire "malattia procedente da umori malinconici". L. giaceva "debole et estenuato", "pieno d'umori grossi", aggredito pressoché ogni giorno da "dolori colici", senza che i medici potessero giovargli. Era malata pure la moglie che - data alla luce, il 13 apr. 1519, Caterina, la futura regina di Francia - lo anticipò nella fine il 28.
L. morì a Firenze il 4 maggio 1519, non senza che la popolazione fiorentina tirasse un sospiro di sollievo, secondo i contemporanei; e senza, d'altronde, che Leone X se ne addolorasse profondamente. Quanto ad Alfonsina - che aveva impedito al figlio morente di lasciare testamento, facendo mancare notaio e testimoni -, sarebbe deceduta a Roma il 7 febbr. 1520.
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