LORENZO di Credi (Lorenzo d'Andrea d'Oderigo). - Nacque a Firenze tra il 1456 e il 1460 dall'orafo Andrea d'Oderigo e da una non meglio identificabile monna Lisa.
Dubbi permangono pure intorno al nome completo di Lorenzo.
A fronte di tali incertezze un dato sembra essere comunque sicuro, corroborato non solo da una lunga tradizione cominciata già con Vasari, ma accertabile pure per evidenze documentarie, vale a dire l'apprendistato e la continuativa presenza di L. presso la bottega di Andrea del Verrocchio almeno dal 1480.
Certo questo ambiente dovette riuscire congeniale al giovane pittore che proprio nello studio verrocchiesco ebbe modo di conoscere e frequentare alcune delle personalità di maggiore spicco sulla scena artistica del Rinascimento non solo fiorentino: il Perugino, il Botticelli, Leonardo. Ma a differenza di questi egli rimase sempre fedele alla bottega - quella stessa che era già stata di Michelozzo e di Donatello - situata nel "popolo" di S. Michele Visdomini, l'odierna via dell'Oriolo, secondo quanto attesta con precisione un documento del 1495 (Dalli Regoli, 1966, p. 93). Dello studio del maestro L. finì infatti per essere erede diretto, come risulta dal testamento di Andrea, datato 25 marzo 1488, in cui al discepolo non solo è affidata la conduzione dell'attività della bottega, ma è persino conferito il ruolo di esecutore legale per i restanti beni, privilegio comprensibilmente poco gradito al fratello Tommaso di Andrea, il quale, due anni dopo, nel 1490, intentò una causa a L., evidentemente scontento dell'operato di questo (Gaye, I, pp. 367-369; Dalli Regoli, 1966, p. 92).
Proprio la prolungata e assidua collaborazione di L. con Andrea del Verrocchio, nonché la costante presenza e il ruolo attivo, ma diversificato, all'interno dei meccanismi di produzione della bottega, hanno peraltro contribuito a rendere più difficile l'individuazione e il riconoscimento delle sue prime opere compiutamente autografe. È il caso della tavola con la Madonna in trono e i ss. Giovanni Battista e Donato, originariamente destinata all'oratorio della Vergine di Piazza a Pistoia e ora conservata nella cattedrale della stessa città, mutila dell'originaria predella, oggi divisa in tre tavolette distinte e spartite fra il Museo del Louvre di Parigi, l'Art Museum di Worcester e la Walker Art Gallery di Liverpool (quest'ultima opera per lo più concordemente ascritta al Perugino).
Intorno a questo medesimo giro di anni si può collocare anche l'esecuzione di una serie di opere di piccole e medie dimensioni, destinate per lo più alla devozione privata, in cui è già chiaramente riconoscibile l'impronta personale della maniera di L., pur nell'ossequio a modelli iconografici consolidati e sotto il segno dell'inevitabile suggestione di ascendenza leonardesca.
Questa stessa maniera contraddistingue pure la produzione ritrattistica - che, sempre secondo Vasari, dovette essere assai cospicua - nell'ambito della quale fa spicco l'Autoritratto della National Gallery of art di Washington.
Nel corso del suo apprendistato L. acquisì certamente adeguate competenze tecniche anche nell'ambito della scultura, con particolare riguardo a quella in metallo, circostanza persino scontata se si considera l'eminente vocazione della bottega verrocchiesca e la tradizione artigianale ben consolidata nella famiglia da cui L. proveniva. Tuttavia, e a dispetto di quanto tramandato dalle fonti, nessuna traccia rimane di una sua personale produzione scultorea. Tanto più degno di nota è dunque il fatto, certificato nel già menzionato testamento del Verrocchio, che l'anziano maestro decidesse di affidare al suo affezionato allievo il prestigioso quanto impegnativo compito di portare a termine la grande statua equestre di Colleoni lasciata incompiuta a Venezia, motivando con perentoria chiarezza la sua scelta: "quia est suffitiens ad id perficiendum" (Gaye, I, p. 369). Nonostante la fiducia accordatagli, L. non ritenne comunque opportuno incaricarsi personalmente della non facile commissione, tanto che, il 7 ottobre dello stesso 1488, mediante regolare contratto, preferiva cedere oneri e onori allo scultore suo concittadino Giovanni d'Andrea di Domenico, il quale venne poi a sua volta sollevato dall'incarico per decisione del governo della Serenissima, che risolse di appaltare definitivamente l'impresa al veneziano Alessandro Leopardi (Milanesi, in Vasari, p. 565).
L'ultimo decennio del secolo vide, invece, affermarsi la piena maturità artistica e professionale di Lorenzo a Firenze. Nel 1490 il pittore era convocato nella commissione di "esperti" chiamati a esprimersi in merito alla sistemazione della facciata di S. Maria del Fiore (Dalli Regoli, 1966, p. 92). Il 20 febbr. 1493 veniva esposta al pubblico dei fedeli, nella chiesa di S. Maria Maddalena de' Pazzi, la tavola raffigurante la Madonna con il Bambino e i ss. Giuliano e Nicola, che L. aveva eseguito a istanza di Filippo di Francesco Mascalzoni quale pala d'altare per la cappella di famiglia.
Di qualche anno più tarda, e forse da collocare già agli inizi del Cinquecento, è poi la pala con l'Adorazione dei pastori, anch'essa oggi custodita nella Galleria degli Uffizi, ma originariamente realizzata per una cappella laterale della chiesa fiorentina di S. Chiara, su commissione del mercante di stoffe Iacopo Borgianni (o Bongianni), che volle probabilmente essere effigiato tra i personaggi dipinti nella scena.
Il fatto che il nome del pittore venga citato espressamente e per esteso nel testamento - circostanza in effetti infrequente, almeno a questa altezza cronologica - ha indotto taluni a immaginare che fra l'artista e il committente potessero intercorrere rapporti di fiducia o addirittura di amicizia non meramente occasionali. Lo lascerebbe inferire anche un altro documento pure collegato a Borgianni, il quale infatti, in una lettera indirizzata all'amico Pandolfo Rucellai, riferiva di aver udito, proprio nella bottega di L., il racconto di alcuni frati domenicani che testimoniavano della veridicità di un miracolo operato da Girolamo Savonarola nel convento di S. Marco (Kent, p. 541). Le simpatie savonaroliane di un committente, sia pure abituale frequentatore della bottega, restano nondimeno elemento troppo labile per concludere circa le presunte personali convinzioni o propensioni religiose del pittore e tanto più per fare illazioni su possibili "riflessi" stilistici o iconografici nelle sue opere, benché non si possa escludere che il diffuso clima di turbolento fervore provocato a Firenze dal riformatore domenicano nell'ultimo scorcio del Quattrocento abbia influenzato L. o persino animato una più attiva adesione a quel movimento, come peraltro già riferisce la biografia vasariana, seguita dalla letteratura successiva.
Con l'inizio del nuovo secolo l'attività di L. si fece più intensa ma nello stesso tempo più selettiva, preferibilmente mirata alla produzione di dipinti di destinazione privata di piccole o medie dimensioni, evitando invece le commissioni di grandi pale d'altare pubbliche come pure la realizzazione di opere ad affresco. Una simile specializzazione poteva essere dettata da una ponderata strategia di mercato piuttosto che da una scarsa fiducia della committenza nelle possibilità e nelle competenze tecniche vantate dalla bottega. Non mancano, al contrario, copiose testimonianze che rivelano la stima e la considerazione che la cittadinanza, i colleghi e le istituzioni fiorentine tributavano alla professionalità e all'autorevolezza del pittore.
I fatti nuovi che si affacciarono sul panorama artistico fiorentino tra il primo e il secondo decennio del XVI secolo dovettero comunque progressivamente far aumentare lo iato tra la consolidata maniera tradizionale di L., ben radicata nel modello verrocchiesco al quale il pittore si tenne sempre sostanzialmente fedele, e gli esiti sorprendenti cui mettevano capo le prove di una più giovane generazione di artisti, quella di Andrea del Sarto (Andrea d'Agnolo), del Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Jacopo), del Pontormo (Iacopo Carucci). Ancorché sensibile e aggiornato alle mediazioni ireniche di fra Bartolomeo, ma senza il respiro monumentale di quello, lo stile di L. resta vincolato a una concezione tecnico-esecutiva e iconografica tardoquattrocentesca della pittura, più che cercare il confronto con le spregiudicate sperimentazioni della nuova maniera.
A spiegare il generale decremento qualitativo della produzione ultima di L. si è spesso invocato l'intervento progressivamente più attivo e cospicuo degli allievi, che certo operavano numerosi a fianco del maestro nella conduzione di uno studio fiorente e ben avviato. Fra questi si possono almeno ricordare Giovanni Antonio Sogliani, poi omaggiato da Vasari di una propria biografia, e Giovanni Cianfanini, la cui mano, pur nella difficoltà di sceverare con certezza, è sembrato di poter riconoscere sempre più prevalente nelle opere tarde licenziate dalla bottega, a scapito di un'integrale autografia del maestro.
Il 1( apr. 1531 L., ormai più che settantenne, decise di ritirarsi nel convento di S. Maria Nuova, dove avrebbe condotto gli anni estremi della sua esistenza. A qualche giorno dopo risale la decisione di stendere le proprie volontà testamentarie che portano la data del 3 apr. 1531 (Milanesi, in Vasari, p. 569; Gaye, I, p. 372).
L. morì pochi anni più tardi, il 12 genn. 1536, secondo quanto riferisce la testimonianza di un oscuro Vettorio Rosso "tintore" trascritta nel Libro dei debiti e crediti dello Spedale di S. Maria Nuova a Firenze (Milanesi, in Vasari, p. 569).
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