Luce

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Ente fisico cui è dovuta l’eccitazione nell’occhio delle sensazioni visive, cioè la possibilità, da parte dell’occhio, di vedere gli oggetti. Si distingue generalmente la l. naturale, emessa da una sorgente luminosa naturale, dalla l. artificiale, emessa da un apparecchio di illuminazione artificiale. L. naturale è fondamentalmente e per antonomasia quella del Sole (l. solare o diurna), che, secondo le ore d’illuminazione, può dirsi l. dell’alba, l. crepuscolare, l. meridiana ecc.; in secondo luogo la l. della Luna e la l. delle stelle. Per la natura della sorgente luminosa, o per l’alterazione che subisce attraversando schermi colorati o altri corpi diafani, o per altre sue intrinseche caratteristiche, la l. può essere bianca, gialla, rossa, verde, azzurra ecc., livida, o fosforescente ecc. In particolare: l. coerente, costituita da onde elementari coerenti tra loro (➔ coerenza; laser); l. fredda, emessa per luminescenza, così detta per la sua natura non termica; l. naturale, che non è coerente né polarizzata (la denominazione deriva dal fatto che la l. emessa dalle sorgenti ordinarie è appunto incoerente e non polarizzata); l. polarizzata, che ha subito un processo di polarizzazione.

Teorie sulla natura della luce

Le teorie del mondo greco e latino. - Le concezioni greche si rifanno generalmente a interpretazioni metafisiche dei dati dell’esperienza sensibile. Pitagora e i pitagorici riducono il meccanismo della visione a un processo di percezione tattile: dall’occhio emanano raggi visuali rettilinei che, toccando i corpi, eccitano la sensazione visiva. Democrito e gli atomisti ipotizzano invece che dai corpi luminosi partano atomi, costituenti immagini dei corpi medesimi, che, raccolti dall’occhio, generano la visione. Per Platone, la visione è dovuta all’incontro di effluvi rettilinei che emanano dall’occhio e dai corpi. Aristotele si pone sia contro la teoria dei raggi visuali sia contro la teoria atomista. La l. per Aristotele non è una sostanza corporea bensì una modificazione di un mezzo, il diafano, ovunque presente, eccitato dal colore del corpo, dal fuoco o dall’etere (nel significato aristotelico di quinto elemento). Nel mondo latino, Lucrezio segna, con suoi studi sperimentali sulla rifrazione, un progresso sensibile sulle opere similari dei predecessori.

Dal 1500 al 1800. - Un grande fervore di nuovi studi si ha, soprattutto in Italia, al principio dell’era moderna. G. Benedetti afferma possibile la propagazione della l. attraverso il vuoto (1585). G. Galilei immagina la l. derivata dal fuoco per «altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili», considera finita la velocità di propagazione e prevede, genericamente, una conseguente influenza sull’apparente posizione degli astri. R. Descartes tenta di spiegare il meccanismo di trasmissione della l.: la sua teoria è oscura e farraginosa, ma resta a lui il merito di avere trovato (1637) per via teorica le leggi della rifrazione che, forse senza che egli ne avesse notizia, erano state sperimentalmente già stabilite (1615) da W. Snellius. Il principio di Fermat (enunciato da P. Fermat intorno al 1640), secondo il quale la l. percorre fra due punti il cammino di minimo tempo (e non il cammino più breve, come sosteneva Erone), resta uno dei principi fondamentali dell’ottica geometrica. Nella seconda metà del Seicento a C. Huygens si deve la prima organica, fondamentale teoria ondulatoria della luce. Per Huygens (1678), l’ether, una certa materia elastica tenuissima (non quindi l’etere aristotelico), compenetra tutto lo spazio, sia esso occupato o no da materia ordinaria. La l. non è che un movimento dell’etere «per superficie e onde sferiche», generate dall’agitazione delle particelle del corpo luminoso. Ma il movimento della materia eterea è locale; ciò che si sposta nello spazio è l’onda, che nel suo «movimento successivo» investe le particelle dell’etere e le mette in vibrazione. Per il «movimento successivo» Huygens afferma che «c’è bisogno di tempo»: ammette che la propagazione della l. non sia fenomeno istantaneo e ciò è confermato dalla scoperta di O. Römer sui ritardi e anticipi delle eclissi del satellite più interno di Giove. L’autorità di I. Newton e le difficoltà, da Huygens stesso riconosciute, di spiegare determinati fatti con la sua teoria ondulatoria, finirono col dare il sopravvento alla teoria corpuscolare, emissionistica, proposta dallo stesso Newton (1704). Secondo tale teoria la l. sarebbe dovuta al fatto che i corpi luminosi lanciano in ogni direzione minutissimi corpuscoli che colpendo l’occhio generano la visione.

Dal 1800 al 1850. - La precisazione della nozione d’interferenza tra due raggi luminosi, dovuta a T. Young (1801-03), segna l’inizio di una ripresa della teoria ondulatoria rispetto a quella corpuscolare. Ma nonostante i significativi risultati ottenuti da Young nella spiegazione dei fenomeni interferenziali, solo per l’opera di A. Fresnel la teoria ondulatoria finisce con l’avere pressoché incondizionata accettazione.

J.C. Maxwell. - Intorno al 1850 la teoria ondulatoria della l. si presenta come un organico complesso di dottrine e di fatti sperimentali, alla cui base resta sempre peraltro l’interpretazione elastica del fenomeno delle vibrazioni luminose, pur considerate, dopo Fresnel, non più longitudinali, come quelle sonore, ma trasversali. Ciò porta ad attribuire all’etere proprietà contraddittorie (tra l’altro una piccolissima densità e una grandissima rigidità). Il chiarimento fondamentale viene da J.C. Maxwell, la cui lunga e poderosa ricerca (1861-73) si conclude con l’affermazione di una natura delle vibrazioni luminose diversa da quella elastica. La l. è costituita da onde elettromagnetiche (e non elastiche) appartenenti a un ben determinato intervallo di lunghezze d’onda (da circa 0,7 a circa 0,4 μm). L’esistenza dell’etere non è negata da Maxwell, il quale, non diversamente da quanto avevano ammesso Huygens e Fresnel, continua a pensare tutto lo spazio riempito da questo ipotetico mezzo, con proprietà diverse da quelle di un ordinario mezzo materiale. La natura elettromagnetica della l. risulta chiara per Maxwell principalmente dalla coincidenza tra il valore ottenuto teoricamente per la velocità delle onde elettromagnetiche e i valori ottenuti sperimentalmente per la velocità della l. (∿ 300.000 km/s). La sua teoria elettromagnetica della l. (➔ elettromagnetismo) è ben presto confermata sperimentalmente da H. Hertz, cui va anche il merito di avere intuito che non è affatto necessario, per la propagazione di una perturbazione elettromagnetica, supporre l’esistenza di un mezzo quale l’etere. Nella teoria di Maxwell l’etere è considerato come un mezzo in perfetta quiete nell’Universo; per la quiete assoluta attribuitagli, l’etere assume un ruolo analogo a quello delle stelle fisse nella meccanica newtoniana: quello cioè di un ente di riferimento privilegiato. Solo che, mentre nella meccanica sostituendo alle stelle fisse un sistema di riferimento in moto rettilineo uniforme rispetto a esse le leggi del moto non si alterano, nell’elettromagnetismo, sostituendo all’etere (supposto in quiete) un altro sistema in moto traslatorio uniforme rispetto a esso, le equazioni di Maxwell andrebbero sostituite con altre più complicate. Affermare che l’etere è in quiete significa ammettere che vi è un moto relativo della Terra rispetto all’etere e un tal moto, se vi fosse, non potrebbe restare nascosto a convenienti esperienze: viceversa né i tentativi fatti da D.-F. Arago nella prima metà dell’Ottocento, né la successiva celebre esperienza di A.A. Michelson e E.W. Morley (1881), ripetuta centinaia di volte nelle condizioni più varie, valsero a mettere in evidenza il moto suddetto.

A. Einstein. - Una radicale modifica delle vedute tradizionali si ha con l’introduzione (1905) della teoria della relatività di A. Einstein. Per quanto riguarda in particolare la propagazione della l., Einstein, rinunciando all’ipotesi dell’etere o di un sistema di riferimento privilegiato, ammette, in accordo con il 1° postulato fondamentale della sua teoria (il postulato della relatività einsteiniana), che le leggi della fisica (e in particolare quelle dell’elettromagnetismo) devono avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali; e al 1° postulato affianca il 2°, oggi ricordato come principio della costanza della velocità della l., secondo il quale la velocità della l. nel vuoto (e, in generale, delle onde elettromagnetiche nel vuoto), relativamente all’osservatore, è una costante indipendente dal moto della sorgente e dell’osservatore. La teoria della relatività ha ricevuto numerosissime conferme che assicurano la validità dei postulati che ne sono alla base. Per quel che concerne in particolare la natura e le modalità di propagazione della l. è da aggiungere che la teoria della relatività non distrugge affatto l’edificio creato da Maxwell, ma al contrario lo perfeziona, liberando altresì definitivamente l’ottica fisica dall’ormai superflua ipotesi dell’etere.

La teoria quantistica. Accanto ai problemi della propagazione, oggetto di lunghe ricerche erano stati frattanto, nella seconda metà dell’Ottocento, i problemi relativi all’emissione e all’assorbimento dell’energia. Tali ricerche hanno come sostanziale punto di arrivo la concezione quantistica dell’energia raggiante, dovuta a M. Planck (1900). Ricollegandosi a tale concezione e accentuandone il motivo corpuscolare, nello stesso anno (1905) in cui gettava le basi della teoria della relatività, Einstein ipotizza la struttura granulare della l. considerandola costituita da elementi, o quanti di luce, detti poi (1926) fotoni da G.N. Lewis, moventisi rettilineamente con la velocità della l., emessi e assorbiti per unità indivisibili. Laddove la teoria della relatività non intacca la concezione maxwelliana, l’impostazione quantistica ripropone l’antico contrasto fra teorie ondulatorie e teorie corpuscolari. Difatti la concezione «corpuscolare» di Einstein – che ha avuto conferme sperimentali di capitale importanza, quali gli effetti fotoelettronico esterno (➔ fotoelettrone), Compton (➔ Compton, Arthur Holly) e Raman (➔ Raman, sir Chandrasekhara Venkata) –, se bene spiega le modalità dei fenomeni di emissione e di assorbimento e se ha agevolato l’interpretazione di numerosi fenomeni di scambio di energia, male si presta a dar spiegazione di altri fenomeni, quali quelli d’interferenza, che trovano la loro più naturale spiegazione nell’ambito delle teorie ondulatorie.

La conciliazione tra le due concezioni è avvenuta nell’ambito della meccanica quantistica; nella sintesi che essa attua, la concezione maxwelliana ondulatoria e quella einsteiniana «corpuscolare» si presentano come aspetti complementari di un’unica teoria che si completano e insieme si escludono; a interpretare i quali occorre una trasformazione e un adeguamento del significato corrente di certi termini e concetti, quali «onda», «corpuscolo», «posizione», «individualità» ecc. In tale quadro unitario la teoria quantistica della l. si può interpretare come una teoria che dà statisticamente la probabilità che un fotone possa trovarsi in una determinata posizione, e le onde vanno interpretate come «onde di probabilità».

Misurazione della velocità della luce

fig. 1
fig. 2

La questione se la propagazione della l. sia o no un fenomeno istantaneo, cioè se avvenga con velocità infinita o finita, si pose, come già detto, sin dai tempi antichi; essa fu dapprima risolta in base a osservazioni astronomiche (di O. Römer), poi con esperienze terrestri. La prima di tali esperienze fu eseguita da A.-H.-L. Fizeau nel 1849 con un dispositivo schematicamente rappresentato nella fig. 1 (metodo della ruota dentata). La l. emessa da un’intensa sorgente puntiforme a viene concentrata dalla lente convergente b, previa riflessione sulla lastra semitrasparente c, sulla periferia d di una ruota dentata e. Una lente convergente f rende paralleli i raggi luminosi emergenti da d; questi, raccolti da una terza lente g, vanno a riflettersi su uno specchio h, ripercorrono in senso inverso il cammino e, attraversando parzialmente c, pervengono, per il tramite di una lente oculare, all’occhio dell’osservatore. La ruota viene posta in rotazione a velocità angolare esattamente nota e crescente; a una certa velocità di rotazione, l’occhio dell’osservatore non riceve più luce: ciò accade quando i raggi, tornando indietro, trovano in d un dente della ruota. Se D è la distanza fra d e h, N il numero dei denti e n il numero dei giri compiuti nell’unità di tempo dalla ruota, la velocità della l. è espressa dalla formula v = 4 D n N. Nelle prime esperienze di Fizeau, la distanza D fu di 8633 m; in esperienze eseguite successivamente (1872-74) da M.-A. Cornu fu portata a 22.910 m: il valore ottenuto per v fu di 3,004∙108 m/s. Quasi contemporaneo al metodo di Fizeau è quello di L. Foucault (1850), detto anche metodo dello specchio rotante (fig. 2): esso ha sul primo il vantaggio di essere più preciso e, potendo essere usato su distanze molto ridotte, quello di essere in grado di fornire il valore di v anche in mezzi diversi dall’aria. La disposizione sperimentale di Foucault è schematizzata in fig.: la l. proveniente dalla sorgente puntiforme a, dopo aver attraversato la lastra semiriflettente b, viene raccolta dalla lente convergente c, di grande distanza focale, e incide sullo specchio piano d (rotante intorno a un asse perpendicolare al piano della fig.). La lente forma un’immagine di a sullo specchio concavo e, sicché la l., riflettendosi su quest’ultimo, ripercorre in senso inverso il cammino precedente e, giunta su b, perviene in parte su un oculare micrometrico f. Posto d in rapida rotazione, l’osservatore nota, per valori sufficientemente elevati della velocità di rotazione, un certo spostamento dell’immagine sul reticolo di f: la l., infatti, tornando su d, lo trova spostato di un piccolo angolo rispetto alla posizione di andata. Note che siano la velocità angolare di d e la distanza tra d ed e, dallo spostamento dell’immagine su f si ricava il valore v della velocità della luce. Nelle esperienze di Foucault, la distanza tra i due specchi era di circa 4 m e lo specchio rotante compiva circa 800 giri al secondo.

Le misure di gran lunga più accurate della velocità della l. sono quelle ottenute attraverso due misurazioni distinte, di cui la prima consiste nella determinazione della frequenza ν, particolarmente stabile, di una delle righe di emissione di un laser del tipo He-Ne; la seconda misurazione porta alla determinazione della lunghezza d’onda λ della stessa radiazione; la velocità c della l. si ottiene semplicemente dal prodotto λν. L’esame dei risultati così ottenuti, opportunamente corretti dai vari fattori perturbanti, e in particolare dagli effetti dell’atmosfera terrestre, ha portato ad assegnare per la velocità della l. nel vuoto (o meglio velocità delle onde elettromagnetiche nel vuoto) il valore: c = 299.792.458 m/s. In effetti, la 17a Conferenza generale dei pesi e misure (che definisce il Sistema internazionale delle unità di misura, SI), nel 1983 ha scelto questo valore come esatto, e introdotto la definizione di metro come spazio percorso dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo di 1/299.792.458 s.

La l. nei processi biologici

La l. è indispensabile a tutti gli esseri viventi, che, nel corso dell’evoluzione, si sono adattati all’impiego delle radiazioni visibili, localizzate nella fascia dello spettro elettromagnetico tra le lunghezze d’onda di circa 0,4 e 0,7 μm. I quanti di l. possono essere assorbiti, sia negli animali sia nelle piante, da un numero relativamente piccolo di molecole; l’energia a essi convogliata è sufficiente a provocare l’eccitazione di livelli energetici degli elettroni esterni di molecole come quelle delle clorofille e dei carotenoidi. La presenza di queste molecole rende possibile l’utilizzazione dell’energia luminosa, la quale viene, in definitiva, impiegata per sintetizzare le molecole organiche che costituiscono gli esseri viventi. Questi dipendono, quindi, dalla l. solare utilizzata nell’attività fotosintetica delle piante (➔ fotosintesi clorofilliana). Anche se la fotosintesi è il più importante processo biologico che si svolge sulla Terra, con il quale si hanno, a un tempo, arricchimento di energia dei sistemi biologici e sintesi di composti organici partendo da materiali inorganici, la l. ha sugli esseri viventi un’influenza ben più complessa che, per le piante, si riferisce ai fenomeni di movimento tropico (curvature) e tattico (spostamento orientato di avvicinamento e allontanamento rispetto alla sorgente di l.), e ai fenomeni di accrescimento, sviluppo e differenziamento. C’è, nelle piante, un insieme di fotorisposte, che, nel loro complesso, si definiscono di fotomorfogenesi. Esse dipendono dall’informazione genetica specifica dell’organismo e dall’ambiente che lo circonda. Nelle piante superiori, il fattore principale dell’ambiente esterno è la l., la quale, pur non essendo portatrice di informazione specifica, agisce elettivamente influenzando il modo di utilizzazione dei geni. I fenomeni di fotomorfogenesi dipendono da reazioni fotochimiche e comportano l’esistenza di una sostanza colorata (pigmento) che assorbe le radiazioni luminose di lunghezza d’onda efficace per essi; tali fenomeni comportano anche relazioni causali tra le reazioni fotochimiche e le risposte fotoindotte, suscettibili di essere osservate e misurate. Il pigmento che assorbe le radiazioni efficaci per la fotomorfogenesi è il fitocromo; esso governa svariati fenomeni come la germinazione dei semi, la sintesi degli antociani, l’inibizione dell’allungamento dell’ipocotile, l’accrescimento dei cotiledoni, l’induzione della fioritura ecc.

Applicazioni terapeutiche ed effetti nocivi

La l. è presa in considerazione sia per le sue applicazioni terapeutiche sia per gli effetti nocivi cui in determinate condizioni può dar luogo. A scopo terapeutico vengono utilizzate le proprietà della l. mediante i bagni di l., solare (bagni di sole) o artificiale (bagni di l. propriamente detti): essi mirano a sfruttare gli effetti calorifici dei raggi infrarossi e quelli biologici dei raggi ultravioletti (➔ elioterapia; fototerapia).

Effetti nocivi della l. si hanno per una prolungata esposizione alla l. sia naturale sia artificiale, se ricca di raggi ultravioletti. La prima manifestazione è l’eritema, mentre nei casi più gravi si hanno flittene e bolle, con o senza febbre. Per azione protratta si possono avere dermatosi eczematoidi croniche, sotto forma di eritema, desquamazione e vescicole, o di ipercromie localizzate, e dermatosi come xeroderma, eritemi pellagroidi. Dosi eccessive di radiazioni luminose possono provocare tumori, come il melanoma. Importante l’azione delle radiazioni attiniche sull’occhio, che viene colpito nell’epitelio corneale e congiuntivale (tipica l’ophthalmia nivalis che si può osservare in soggetti che hanno soggiornato in alta montagna tra le nevi e i ghiacci); in caso di azione più intensa possono instaurarsi gravi oftalmiti per fenomeni di retinite (come nella cosiddetta cecità da sole). ➔ fotodermatosi.

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