VISCONTI, Luchino

Enciclopedia del Cinema (2004)

Visconti, Luchino

Lino Miccichè

Regista cinematografico, teatrale e lirico, nato a Milano il 2 novembre 1903 e morto a Roma il 17 marzo 1976. Con la sua attività, intensa fino alla morte, comprendente 96 titoli, con 3 regie coreografiche, 18 cinematografiche, 21 liriche, 45 di prosa, fu il massimo uomo di spettacolo italiano del primo trentennio postbellico. La sua produzione appare profondamente divisa tra una prima fase (in cui il mondo oggettivo riesce a prevalere sulla vena soggettiva, tutta intenta alla sconfitta, alla distruzione, al destino e alla morte) e una seconda (dove le grandi tematiche del decadentismo e crepuscolarismo di un mondo intento a commuoversi della propria agonia hanno il sopravvento sulle urgenze della Storia, dell'ideologia e della politica). Negli anni della società italiana in ricostruzione, pieni di furori e di speranze, il contrasto fra le due 'anime' di V. apparve come una feconda dialettica; negli anni del 'miracolo economico' e della 'grande bonaccia' politica quel contrasto rischiò di apparire soltanto come una irrisolta contraddizione. L'ultimo V. l'avrebbe superata cessando di combatterla. Nel corso della sua carriera tra gli altri riconoscimenti ottenne alla Mostra del cinema di Venezia il Leone d'argento nel 1957 per Le notti bianche, e il Leone d'oro nel 1965 per Vaghe stelle dell'Orsa, nel 1963 la Palma d'oro al Festival di Cannes per Il Gattopardo, e quattro volte il Nastro d'argento come miglior regista (per Rocco e i suoi fratelli, 1960; La caduta degli dei, 1969; Morte a Venezia, 1973; Gruppo di famiglia in un interno, 1974).

Figlio del duca di Grazzano e conte di Modrone Giuseppe Visconti e di Carla Erba, la sua consuetudine con l'arte e la cultura fu precoce, anche perché favorita dall'ambiente familiare; più tarda la sua prima 'gavetta' cinematografica (nel 1936, in Francia, fu nella troupe di Jean Renoir per Partie de campagne, La scampagnata, uscito solo nel 1946) e teatrale (nello stesso 1936 fece parte dell'équipe di Romano Calò); attorno ai 40 anni il suo autonomo esordio nel cinema, con Ossessione (1943), ancora più tardivi gli esordi registici nel teatro (Parenti terribili, 1945, di Jean Cocteau) e nella lirica (La Vestale, 1954, di Gaspare Spontini). Clamoroso fu l'impatto sull'Italia fascista della sua opera prima Ossessione, ispirata a The postman always rings twice di J. Cain, dopo molti tentativi, suoi e del gruppo della rivista "Cinema" di realizzare un film ispirato a testi verghiani: è un film che, delineando le tre figure di un anziano oste, il Bragana (Juan de Landa), di un'inquieta e giovane moglie-oggetto, Giovanna (Clara Calamai), e di Gino (Massimo Girotti), un vagabondo capitato nella loro trattoria, le immerge in un clima di passione e di delitto, sullo sfondo di un inedito paesaggio italiano, ora di campagna e fluviale (siamo nella piana polesana) ora urbano (Ancona e Ferrara), dove un adulterio, una vana fuga, un delitto, una maternità e un'inchiesta della polizia sugli amanti rosi dal rimorso, appaiono segni di un destino opprimente, che rende invivibile una vita rassegnata all'esistente, impraticabile una liberazione dall'esistenza falsa, inevitabili il delitto e la morte. Sul film scrissero entusiasti molti giovani futuri critici mentre Vittorio Mussolini uscì dalla proiezione profondamente sdegnato e la stampa cattolica invocò le autorità. Deplorati come cineasti, i componenti del gruppo, incluso V., di lì a qualche mese sarebbero stati ricercati come sovversivi.Nell'immediato dopoguerra V. fu fra i collaboratori del film di montaggio Giorni di gloria (1945) di Giuseppe De Santis e Mario Serandrei, e ideatore di numerosi progetti cinematografici destinati a non essere realizzati ma soprattutto si affermò come uomo di teatro, realizzando fra il 1945 e il 1947 dieci allestimenti di prosa che produssero una rivoluzione teatrale.Nel 1948 presentò alla Mostra del cinema di Venezia uno dei grandi capolavori del Neorealismo, La terra trema. L'impresa, partita come un documentario elettorale del Partito comunista, sarebbe dovuta consistere in una docufiction articolata in un 'episodio del mare', un 'episodio della solfara' e un 'episodio della terra' che, intersecati fra loro assieme a un più breve 'episodio della città', descrivessero in montaggio alternato altrettante situazioni di scontro sociale. Trasformati i Malavoglia di ieri nei Valastro di oggi, e mutati i rapporti di coppia di I Malavoglia ('Ntoni-Barbara, Mena-Alfio, Lucia-Don Michele) nei nuovi rapporti 'Ntoni-Nedda, Mara-Nicola e Lucia-Don Salvatore, regolati tutti dall'economia acitrezzina e della pesca, V. attinse a piene mani al capolavoro verghiano del 1881: in situazioni, rapporti, dialoghi, frasi, proverbi e perfino nell'uso 'strutturale' delle dissolvenze. Tuttavia, nonostante il continuo (anche se inconfessato nei titoli) ricorso alle pagine del romanzo, V. mutò le valenze del testo: sostituendo la lotta di classe alla verghiana "bramosia dell'ignoto", il bisogno di liberarsi dallo sfruttamento (impadronendosi dei 'mezzi di produzione') alle "prime irrequietudini pel benessere" (il "negozio dei lupini"). La terra trema costituisce un caso esemplare di fecondo rapporto tra letteratura e cinema: un testo letterario che la macchina da presa ricrea e propone come fosse una realtà materiale che l'obiettivo guardi per interpretarla poeticamente. E poi vi è la doppia anima di V., cui il regista riuscì, qui come mai più, a dare forza positivamente dialettica: da una parte il cuore con la sconfitta e l'impossibilità della rivoluzione; dall'altra la ragione con l'irrinunciabile fermezza della lotta e la necessità del mutamento. Nel film questa aporia, che è la condizione ontologica dell'arte viscontiana, ha evidenze anche linguistiche: da un canto l'estraneità dell'italiano che non è "la lingua dei poveri"; dall'altro l'empatia del siciliano, che è la lingua, sia pure aulicizzata, della quotidianità acitrezzina, dei suoi amori e dolori; e questi due sistemi linguistici appartengono l'uno agli sfruttatori e agli spettatori che guardano, l'altro agli sfruttati e alla realtà che essi vivono. Ma non è solo questione di lingua, bensì anche di linguaggio filmico in senso specifico: da un lato l'alto livello di formalizzazione che caratterizza il film, nei valori compositivi come in quelli dinamici dei suoi 527 piani; dall'altro l'enunciazione vibrante di un hic et nunc del Mezzogiorno italiano del 1948, l'autenticità neorealistica degli interni, i 'veri' volti dei pescatori di Aci Trezza.Conclusa l'avventura del film verghiano, V. alternò attività teatrale e attività cinematografica: negli anni immediatamente successivi girò due cortometraggi, un lungometraggio e coltivò vanamente altri progetti filmici. Il primo cortometraggio è Appunti su un fatto di cronaca (1951). Ispirato a un evento di cronaca nera di quelle stagioni (la violenza e uccisione della piccola Annarella Bracci a Primavalle) e sollecitato dall'iniziativa di un rotocalco filmato, Documento mensile, diretto da Riccardo Ghione e organizzato da Marco Ferreri, nel cui nr. 2 il cortometraggio si inserì, è un sopralluogo nella periferia romana, dove V. nulla mostra della bimba crudelmente strappata alla vita, se non gli abbacinati spazi, i prati deserti, i casamenti desolati, le mura scrostate, i cortili semivuoti che può aver visto o percorso. Il secondo cortometraggio è l'episodio Anna Magnani del polittico Siamo donne (1953), dove il regista diresse una mattatoriale Nannarella che, nel ruolo di sé stessa, rie-voca le ultime stagioni dell'avanspettacolo durante la guerra, a ribadire che l'illusione di realtà del Neorealismo è, appunto, solo illusione: per cui V. ‒ in implicita polemica con Cesare Zavattini, ideatore del film ‒ rinunciando a dare il falso 'vero' cinematografico dà il vero 'fittizio' del teatro. In tale senso l'episodio non è che il poscritto di Bellissima (1951) dove V. mostra il tramonto dell'utopia del cinema come strumento di liberazione e l'affermazione della 'macchina cinema' come disumano strumento di spettacolo e di profitto. Anche a Bellissima parteciparono Zavattini (l'autore del soggetto) e Anna Magnani (la protagonista). In realtà ‒ dietro la commedia 'donizettiana' di una madre, Maddalena, la quale vedendo la propria figlioletta, Maria, 'bellissima' appunto, la fa partecipare, nonostante lo scetticismo del marito, Spartaco, a un concorso di Cinecittà, quale protagonista di un film di Alessandro Blasetti, e rinuncia al progetto, quando vede la crudeltà del mondo del cinema ‒ V. contrappone principio del piacere (Maddalena, il sogno, la fantasia femminile) e principio di realtà (Spartaco, lo scetticismo, la progettualità concreta, la forza maschile), ovvero Cinema e Realtà, esterno (Cinecittà: una giungla) e interno (la Famiglia: unico luogo sicuro), ordine femminile (le rischiose ambizioni sbagliate, l'amore per il cinema) e ordine maschile (la concretezza realistica, il distacco dalle illusioni cinematografiche): contrapposizioni il cui epicentro è nella proiezione, nel cortile di casa trasformato in cinema, di Red river (1948) di Howard Hawks. Se nell'ambito del teatro di prosa chiuse le stagioni attorno a Bellissima uno splendido Come le foglie, dove V. rilesse la pièce di G. Giacosa come un testo di intensa interiorità Čechoviana, nel 1954 l'orizzonte operativo del regista si ampliò al teatro lirico, dove V. esordì dirigendo Maria Callas, con l'allestimento scaligero di La vestale di Gaspare Spontini cui sarebbe seguito un triennio di mirabili spettacoli lirici. Non casualmente il 1954 segnò anche l'adozione, da parte viscontiana, del modulo del 'melodramma' come chiave dei propri racconti cinematografici, che trovò esplicita attuazione nel film Senso, presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 1954, guadagnandosi l'esplicita avversione del governo nonché della censura.Ispirato a una novella di C. Boito, ampiamente rimaneggiata, Senso racconta degli amori veneziani della contessa Livia Serpieri (Alida Valli) per il tenente austriaco Franz Mahler (Farley Granger); del tradimento della donna verso i patrioti italiani (fra cui il cugino marchese Ussoni, Massimo Girotti) i cui fondi la donna consegna a Mahler perché, corrompendo un medico, si risparmi le battaglie; della gita improvvisata da Livia a Verona per vedere l'amante, che si sta sollazzando con una prostituta e la caccia; della vendetta di lei che lo denuncia al comando austriaco e lo fa fucilare, aggirandosi nottetempo per Verona come una pazza. Il film è scandito in macroepisodi che assomigliano a veri e propri atti, mentre tutte le dinamiche, filmiche e profilmiche, appaiono delineate o esaltate dalla musica di Anton Bruckner, qui usata tematicamente. Non pochi, comunque, rilevarono che dall'inizio 'operistico' così felicemente rievocativo di un'atmosfera e di un'epoca al finale di condanna (la fucilazione) goyesco Senso appariva (e tuttora appare) tra i migliori esempi di film storico dell'intera filmografia italiana.Fra Senso e il film successivo passarono tre anni, scanditi dalle numerosissime regie di prosa (da A. Miller ad A.P. Čechov), nonché, nel 1956, dall'esordio nel balletto, dal racconto di Th. Mann Mario und der Zauberer, con il ballerino Jean Babilée.

Che il pur particolare 'realismo' viscontiano sia stato comunque oggetto di qualche ripensamento lo attesta anche il quinto lungometraggio, Le notti bianche (1957), ispirato all'omonimo romanzo di F.M. Dostojevskij, un'opzione "neoromantica" o "neointimistica" (come affermò V. alla Mostra del cinema di Venezia, indispettito dai perduranti profeti del Neorealismo) con cui il regista rievoca ‒ in una favolosa Livorno interamente ricostruita in studio ‒ l'incontro di Mario (Marcello Mastroianni) e Natalia (Maria Schell), solitario impiegato in cerca di affetto, lui, che subito si innamora della fanciulla, fervida sognatrice, illusa del promesso ritorno di un fascinoso inquilino (Jean Marais), lei, che, nonostante tutto, proprio quando sta per arrendersi alle in-sistenze amorose di Mario, vede realizzarsi il proprio sogno e riapparire, dal mistero in cui era scomparso, l'amato bene. A parte la sua natura di saggio di virtuosismo registico, Le notti bianche non è un film da sottovalutare sia perché dà spazio a un cinema dei sentimenti in stagioni dove trionfavano i cascami postneorealistici, sia perché si apre al genere, desueto nel cinema italiano, del Kammerspielfilm.

Tre regie liriche (due opere di Verdi e una di Donizetti) e sette spettacoli di prosa separano il film del 1957 dal successivo, Rocco e i suoi fratelli, del 1960. Presentato ancora una volta a Venezia, anche quest'ultimo ha andamento, orchestrazione, organizzazione ritmica, struttura drammaturgica e costruzione del climax da melodramma: pochi assolo, alcuni duetti, e molti terzetti, quartetti, quintetti e sestetti, con coro o senza coro, si succedono lungo i cinque macrocapitoli in cui è suddiviso il film, uno per ciascuno dei fratelli della famiglia lucana, emigrata a Milano, che una volta, dice la madre, vedova, erano uniti come le dita di una mano, ma nella città si separano e si avversano. Melodramma ribadito dalla bella partitura di Nino Rota, Rocco e i suoi fratelli mette però anche in evidenza ambizioni romanzesche, più attente alla saldezza del modello manniano (Joseph und seine Brüder) che all'andamento rapsodico delle prose testoriane sulla borgata milanese (Il ponte della Ghisolfa, che pure è l'unico testo citato nei titoli). Se ciò non determina vistose contraddizioni, dando anzi al film un'unità epico-melodrammatica, lo si deve alle straordinarie virtù drammaturgiche viscontiane che impongono all'opera continue accensioni e costanti rallentamenti in un magistrale gioco retorico. Contro Rocco infierì la censura che colpì V. nel 1961 anche per l'allestimento teatrale di L'Arialda (G. Testori).Ispirandosi ad Au bord du lit di G. de Maupassant, V. realizzò nel 1962 il mediometraggio Il lavoro (episodio di Boccaccio '70), con Romy Schneider, un saggio di bravura ‒ e di graffiante satira della nobiltà milanese ‒ in 175 inquadrature. Tra queste una ‒ dove si vede, abbandonata su un divano, una copia tedesca del romanzo di G. Tomasi di Lampedusa ‒ preannuncia l'imminente Il Gattopardo: che infatti fu pronto a fine marzo 1963. A film fatto, si può constatare l'assoluta assenza di qualsiasi accenno a un positivo 'nuovo ordine' e un'identificazione totale fra l'autore e il proprio personaggio (interpretato da Burt Lancaster): sia sul tema del disprezzo misoneista, sia sul motivo della morte (e della bellezza come suo viatico) che occupa tutta la parte non storico-politica della vicenda, sino alla fusione fra le due linee, che caratterizza la macrosequenza del ballo. In realtà, a suddividere il film in un prologo, quattro movimenti o atti, e un epilogo, ci si rende conto che è soprattutto nei primi tre atti che ‒ al di là dell'altissimo livello della scrittura filmica, della ricchezza compositiva e dinamica dei piani, della felicissima partitura musicale di Rota, del virtuosismo di una direction fra le più memorabili di tutto il cinema viscontiano e del cinema europeo anni Sessanta ‒ i temi della politica del Regno d'Italia, del trasformismo delle classi dirigenti, dell'opportunismo della nuova e rampante borghesia proprietaria si giustappongono sul tessuto tematico più robusto, più ampio e soprattutto più sentito da V., del materialismo nobiliare e alto-borghese che oscilla fra l'orgasmo e la morte, dell'innamoramento come incontenibile istintualità, della sensualità come solo vitalismo.In chiave di contraddizione va visto il successivo Vaghe stelle dell'Orsa che appartiene in modo già più esplicito al secondo Visconti. Il film è un impluvio di richiami letterari (Sofocle, E. O'Neil, G. D'Annunzio, l'elisabettiano J. Ford, G. Bassani, M. Proust, Ch. Baudelaire, J.-K. Huysman, S. Freud e, naturalmente, G. Leopardi); adotta organicamente, a volte come 'musica di scena', più spesso come musica 'tematica', il pianistico Preludio, Corale e Fuga di César Frank; ribadisce l''impegno' storico-politico facendo del padre di Sandra (Claudia Cardinale) e di Gianni (Jean Sorel), una vittima ebrea dei lager nazisti, della madre (Marie Bell) dei due fratelli una pianista nevrotica cui Sandra rimprovera di avere consegnato il padre ai nazisti, in combutta con il suo futuro secondo marito e patrigno dei due fratelli, Gilardini (Renzo Ricci). Su questo composito tessuto, a prima vista consueto a una delle 'anime' viscontiane, prevalgono le dense tessiture dell''altro' V., quello della dannazione e della sconfitta, dei sentimenti torbidi e della solitudine ontologica, affidati allo splendido bianco e nero di Armando Nannuzzi.

Dopo la consueta serie di progetti rifiutati, rinviati o sfumati, ai primi del 1967 apparve il film Le streghe, di cui V. realizzò uno dei cinque episodi, La strega bruciata viva, e il successivo 6 settembre, a Venezia, venne presentato Lo straniero, dall'omonimo romanzo di A. Camus. L'episodio viscontiano di Le streghe è dedicato a una Diva (Silvana Mangano, moglie del produttore e protagonista di tutti e cinque gli episodi) e al suo zoo di vetro esistenziale, mondano e professionale; ma questa volta ostacoli, censure e modifiche imposte dal produttore-marito Dino De Laurentiis, resero assai meno graffiante l'elzeviro. Ancor peggio avvenne con Lo straniero, dove, oltre che con De Laurentiis, V. dovette scontrarsi con Francine Camus, vedova dello scrittore, che non accettò né il primo progetto viscontiano, né la sceneggiatura scritta da V. e Suso Cecchi d'Amico insieme a Georges Conchon, imponendo un suo co-sceneggiatore e ispettore di fiducia, Emmanuel Roblès, spingendo De Laurentiis ad aggiungere al tutto un proprio promemoria (in realtà scritto da Vittorio Bonicelli) camusiano, esigendo dal team creativo del film di attenersi scrupolosamente alle sue prescrizioni.L'evidente stagione di crisi viscontiana non apparve risolta che nel 1969, quando V. realizzò il primo capitolo di una 'Trilogia tedesca', La caduta degli dei. Qui, su un'ispirazione al Macbeth shakespeariano, si innestano suggestioni e memorie da Th. Mann e F.M. Dostojevskij, mentre i lavori storiografici di W. Manchester e di W.L. Shirer documentano lo sfondo storico, e testi storici romanzati sulla famiglia Krupp e sul Terzo Reich forniscono i singoli episodi della vicenda. Il film ha brani splendidi, fra cui la macrosequenza di docufiction della Notte dei lunghi coltelli; si avvale di una ragguardevole costruzione d'epoca e offre un ordito spettacolare di affascinante melodrammaticità nibelungica.

Nel successivo Morte a Venezia (1971), ispirato alla celebre e (quasi) omonima novella manniana del 1911, V. annulla la forma ironica del racconto e si arrischia in una contaminatio che in parte storicizza, in parte rilegge il testo anche alla luce del Mann successivo: per cui se Aschenbach ricorda il narratore del Doktor Faustus, e il suo mentore Alfried richiama Zeitblom, i discorsi sulla musica e sull'arte di Gustav e Alfried hanno talora le connotazioni demoniache del faustiano Adriano Leverkhün. V. rende più fisicamente definita, e al tempo stesso più ambiguamente eterea, la memorabile figura di Tadzio che, dal Fedro socratico alluso dalle pagine manniane, è qui trasformato in un vero angelo della morte, più simbolo di struggente nostalgia, di irrealizzabile quiete e di impossibile serenità contemplativa, che di carnale desiderio e di erotico appagamento. Il tema della polarità arte/vita, vista anche come opposizione bello/utile e/o come contrasto fra l'esistenziale e il politico, è ripreso nel terzo capitolo della Trilogia tedesca, Ludwig. Si parla non del Ludwig 'edizione carosello' che, approfittando della malattia di V., fu messo in circolazione nel gennaio 1973 con 114 minuti di tagli (sui 264 minuti dell'edizione integrale), un inerte monumento kitsch fatto di reticenze. Ma nell'editio larga, reintegrata, restaurata e riproposta dai coautori di V., quattro anni dopo la morte del regista: un vero e proprio kolossal, dove la dilatazione del tempo risulta la coerentissima chiave di un racconto e la durata ha un essenziale ruolo narrativo-strutturale. Dal Ludwig postumo emerge come e perché questo personaggio, che avrebbe potuto essere il più 'storico' del cinema viscontiano, sia in realtà uno di quelli su cui il regista più lavorò di fantasia, realizzando un film autunnale, malinconico del tutto coerente con il precedente.Già in Ludwig la prevalenza degli interni è netta. Nel successivo Gruppo di famiglia in un interno (1974) il rifiuto dell'esterno è totale. E non è solo una questione scenografica, per cui gli sfondi romani che si intravedono dal terrazzo sono dipinti, è anche una questione 'ideologica': una dichiarazione di entropia, che mediante la scenografica chiusura fisica allegorizza la chiusura esistenziale del Professore, un sopravvissuto d'altri tempi ‒ quasi un redivivo Gattopardo (non a caso ancora Burt Lancaster) ‒ che, come V., è stato antifascista, ha nascosto ebrei, ospitato partigiani e ora vive nel proprio appartamento-museo con qualche barlume di memoria, in una totale rinuncia alla dinamica del mondo esterno e in una pacata attesa della morte (il film è tutto narrato in flashback) turbata dalle dinamiche, anche affettive, che nella sua vita vengono introdotte da una rumorosa e anomala 'famiglia' di vicini.Anche l'ultimo film di V., L'innocente, dall'omonimo romanzo di G. D'Annunzio (uscito postumo a Cannes nel 1976), è un film di morte in cui V., come sempre, operò mutamenti e commistioni rispetto alla fonte. Storia di un altro vinto, propone il leitmotiv di tutta l'opera viscontiana: il crollo di un mondo, di una società e di un'epoca, visto attraverso la sconfitta di uno o più individui che ne rappresentano la classe egemone. Ed è qui soprattutto che L'innocente offre il meglio di sé: nelle visioni fantasmatiche di un bel mondo d'antiquariato, dove degli 'zombi' nerovestiti si stagliano immoti, lungo fondali di un rosso accesso, sussurrando parole spente su cui le note pianistiche di F. Chopin e di F. Listz echeggiano glaciali eternità.

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