ACCIO, Lucio

Enciclopedia Italiana (1929)

ACCIO, Lucio (L. Accius)

Cesare Giarratano

Nacque a Pesaro da genitori libertini l'anno 170 a. C., passò la vita a Roma e giunse all'estrema vecchiezza. Era di piccola statura, ma d'animo fiero e superbo, e sentiva altamente di sé e dell'arte sua. Visse agiato e onorato, ma crebbe ancora di fama fra i posteri.

Accio fu soprattutto poeta tragico. Scrisse almeno quarantacinque tragedie, di cui restano circa settecento versi. Tutti i grandi cicli leggendarî vi sono rappresentati. Quattordici titoli (Achilles, Myrmidones, Antenoridae, Deiphobus, Armorum iudicium, Astyanax, Epinausimache, Eurysaces, Neoptolemus, Troades, Hecuba, Nyctegresia, Philocteta, Telephus) ricordano il ciclo troiano; otto (Aegisthus, Clutemestra, Agamemnonidae, Erigona, Atreus, Chrysippus, Oenomaus, Pelopidae) quello dei Pelopidi; sei (Alcmeo, Alphesiboea, Antigona, Epigoni, Phoenissae, Thebais) il tebano; due (Athamas, Hellenes) il tessalo. La favola degli Argonauti è trattata in due drammi (Medea e Phinidae), in tre quella di Meleagro (Diomedes, Melanippus, Meleager). Appartengono ad altre leggende le tragedie Minos sive Minotaurus, Prometheus, Alcestis, Stasiastae vel Tropaeum Liberi, Amphitruo, Persidae, Tereus, Eriphyla, Bacchae, Andromeda. Circa la metà delle tragedie di Accio deriva, quasi in egual misura, da Sofocle e da Euripide; ma anche Eschilo fu da lui imitato, come pure i poeti minori o dell'età ellenistica. Accio trattò con molta libertà i suoi esemplari, come dimostra il confronto dei frammenti delle Bacchae e delle Phoenissae con i modelli euripidei. Talvolta nella composizione d'una sola tragedia attinse da più poeti, contaminandoli alla maniera dei comici. I frammenti rimasti sono poco estesi: il più lungo, di dodici versi, descrive la meraviglia d'un pastore che dalla vetta di un monte scorge la prima nave, quella degli Argonauti.

Scrisse anche due preteste: il Brutus, in onore di quel D. Giunio Bruto che fu console l'anno 138 e trionfò dei Galleci e dei Lusitani, e gli Aeneadae sive Decius. Il Brutus rappresentava la cacciata di Tarquinio il Superbo e la fondazione della repubblica: i due frammenti più lunghi narrano un sogno del re e l'interpretazione datane dagl'indovini. L'altra pretesta celebrava P. Decio Mure, che nella battaglia presso Sentinum dell'anno 295 si sacrificò per la patria. Di queste due tragedie ci son rimasti circa quaranta versi.

Le scarse reliquie del teatro di Accio non possono rivelare pienamente le sue qualità artistiche. Ma il suo stile è alto e sonoro: gli artifizî retorici come l'allitterazione, la paronomasia, l'antitesi, il parallelismo, sono adoperati con singolare efficacia. Alcune frasi hanno straordinario vigore, come oderint dum metuant, come virtuti sis par, dispar fortunis patris. Nuove parole furono da lui felicemente coniate. La tragedia romana raggiunse con Accio la massima grandezza. Le lodi degli antichi sono senza riserva. Cicerone lo chiamò gravis, ingeniosus, summus, Orazio altus, Ovidio animosi oris. Vitruvio, Persio, Columella lo ricordano con molto onore. Quintiliano diede a lui e a Pacuvio la palma, Velleio Patercolo giunse a dire: in Accio circaque eum romana tragoedia est.

Accio aveva scritto anche altre opere: 1. Didascalica, una storia della poesia greca e romana con particolare riferimento alla drammatica, in almeno nove libri, scritta con mescolanza di prosa e di versi; 2. Pragmatica, in settenarî trocaici, che trattavano di poesia e di rappresentazione drammatica; 3. Sotadica, forse di contenuto erotico; 4. Annales, una storia in esametri delle feste dell'anno, in almeno ventisette libri; 5. Parerga, forse un carme georgico in senarî giambici. Di queste opere ci restano scarsi frammenti. Si occupò anche di questioni ortografiche. P. es. scriveva due volte la vocale lunga, fuorché la i che indicava col dittongo ei, non accettava le lettere greche y e z, sostituiva nel corpo delle parole gg a ng, gc a nc (quindi aggulus non angulus, agceps non anceps): tutte innovazioni che non ebbero fortuna.

I frammenti delle tragedie si trovano in O. Ribbeck, Trag. Rom. fragmenta, 3ª ed., Lipsia 1897, pp. 157-263; delle preteste, ibid., pp. 326-331; delle altre opere in Morel, Fragm. poët. lat., Lipsia 1927, pp. 34-40. Essi ci sono stati conservati per lo più da Nonio, ma anche da Cicerone, da Varrone; da grammatici e da scoliasti.

Bibl.: G. Hermann, Dissertatio da L. Attii libris Didascalicon, Lipsia 1842; H. Grotemeyer, De L. Attii tragoediis, Münster 1851; G. Boissier, Le poète Attius, Parigi 1856; W. S. Teuffel, Caecilius Statius, Pacuvius, Attius, Afranius, Tubinga 1858; J. Wulff, Quaestiones Accianae, Colonia 1875; J. N. Madvig, Opuscula academica, 2ª ed., Copenaghen 1887, pp. 70-89; L. Müller, De Accii fabulis disputatio, Berlino 1890; A. Götte, De L. Accio et M. Pacuvio veteribus Romanorum poëtis tragicis, Rheine 1892; F. Leo, Geschichte der röm. Litt., I, pp. 384 segg.; M. Schanz e C. Hosius, Geschichte der röm. Litt., I, 4ª ed., Monaco 1927, pp. 131 segg. § 47 a.

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