LUCIO III

Enciclopedia dei Papi (2000)

Lucio III

Grado Giovanni Merlo

Non possediamo testimonianza alcuna sulla data di nascita del lucchese Ubaldo Allucingoli, anche se si può ragionevolmente pensare che fosse nato nel secondo decennio del XII secolo.

Nel 1138 Ubaldo era stato creato cardinale diacono di S. Adriano da Innocenzo II. Nel 1141, sotto lo stesso pontefice, passò alla titolarità presbiterale di S. Prassede. Nel 1158, con Adriano IV, fu cardinale episcopo di Ostia e Velletri. Al culmine della sua "carriera" cardinalizia fu al fianco di Alessandro III durante il non facile ventennio del suo pontificato: una volta eletto papa, il che dovette avvenire proprio grazie alla sua lunga esperienza di Curia e alla intensa collaborazione col pontefice Bandinelli, L. ereditò una situazione assai migliore nei rapporti con l'imperatore Federico I di Svevia, benché rimanessero consistenti residui dei passati contrasti e non poche questioni irrisolte.

Dopo un breve interregno l'elezione di Ubaldo avvenne il 1° settembre 1181 a Velletri e in quel medesimo luogo egli fu consacrato col nome di Lucio III il 6 dello stesso mese. Quando ciò avvenne il papa doveva avere un'età compresa tra i sessanta e i settant'anni.

Sul piano politico generale L. si trovò ad affrontare un Impero che stava irrobustendo le proprie posizioni nella penisola italiana a seguito sia della raggiunta conciliazione con la Lega lombarda, sanzionata dalla pace di Costanza del giugno 1183, sia dei nuovi legami intessuti con il Regno di Sicilia. Sul piano politico locale (ma con evidenti nessi con la situazione generale), dopo qualche mese di relativo accordo tra il settembre 1181 e gli inizi di marzo 1182, si riaprì il conflitto politico, giurisdizionale e territoriale con il Comune romano: a metà marzo del 1182 L. fu costretto a trasferirsi nuovamente a Velletri, rimanendovi tutto il resto dell'anno.

A Roma non riuscì a rientrare, soggiornando in varie località del Lazio sino al definitivo trasferimento a Verona nell'estate del 1184, dove si fermò e morì il 25 novembre 1185, trovandovi sepoltura.

Nei pochi anni del suo pontificato si assiste a un progressivo irrigidimento di L. nei confronti del Barbarossa, in tal senso consigliato da non pochi uomini di Curia. In un primo momento il potere imperiale viene visto come necessario supporto perché il ritorno nella propria sede episcopale fosse stabile e duraturo: di qui gli stretti rapporti con l'arcivescovo Cristiano di Magonza che furono interrotti dall'inopinata morte di quest'ultimo nell'agosto 1183. In modo rapido però la situazione muta e le occasioni di dissenso, se non di più o meno evidente scontro, si riaprono su fronti diversi.

In ambito ecclesiastico, con ricadute nei rapporti tra Chiesa romana e Impero, in primo luogo, rimaneva da risolvere la questione delle ordinazioni amministrate dai papi e dai vescovi scismatici: ordinazioni che nel 1179 il III concilio Lateranense aveva dichiarato nulle nella costituzione Quod a predecessore e che riguardavano soprattutto il clero tedesco. In secondo luogo, nel 1183 si era inaugurato un duro contrasto (destinato a permanere a lungo irrisolto) derivato da una duplice elezione alla carica di arcivescovo di Treviri: da una parte, Rodolfo di Wied sostenuto dall'imperatore e, dall'altra, Volcmaro rivoltosi al papa per ottenerne l'appoggio. Nel contrasto si inserì un'altra questione all'improvviso suscitata dalla volontà di Federico I di far consacrare coimperatore suo figlio Enrico VI: il quale, per di più, alla fine di ottobre del 1184 si unì in fidanzamento con Costanza d'Altavilla, zia di re Guglielmo II e ultima figlia di Ruggero II, fondatore della dinastia regia normanna di Sicilia. Papa e Curia intuirono che, nonostante i buoni rapporti con il re normanno al quale avevano concesso nel 1183 il nuovo arcivescovato di Monreale con sede in un monastero a lui particolarmente caro, si stava profilando una prospettiva politica nient'affatto propizia alla Chiesa di Roma: prospettiva che essi tentarono di controbilanciare favorendo il ritorno di Enrico il Leone dall'esilio inglese.

In tale complesso contesto di rapporti, qui delineati in forma necessariamente schematica, sono ancora da considerare le controversie territoriali e patrimoniali nell'Italia centrale in larga parte dipendenti dall'eredità della contessa Matilde: esse risalivano a parecchi decenni prima e si riproponevano nei primi anni Ottanta del XII secolo, anche in relazione alla necessità del papato, lontano da Roma, di trovare luoghi sicuri dove risiedere.

La necessità di un incontro tra papa e imperatore si stava imponendo in modo sempre più impellente. L'incontro si realizzò a Verona nell'ottobre-novembre 1184. Occorre dire subito che esso non ebbe esiti risolutivi. Anzi, dalle poche testimonianze che ne abbiamo, il convegno di Verona segna soprattutto un irrigidimento delle posizioni papali e curiali. Circa il problema delle ordinazioni da parte di papi e vescovi scismatici si decide di rinviare la soluzione a un futuro concilio generale da tenersi a Lione (che tuttavia non fu mai convocato). Il contrasto tra i candidati alla sede metropolitana di Treviri viene utilizzato da parte papale per negare la consacrazione imperiale a Enrico VI, prendendo a motivo che questi aveva esercitato violenze nei confronti dei sostenitori e seguaci di Volcmaro. D'altronde, su un altro piano, L., dopo iniziali esitazioni, condivise l'opinione di taluni cardinali circa la non opportunità ovvero circa l'illegittimità della contemporanea esistenza di due imperatori. Sul patrimonio di origine matildina le due parti continuarono a non trovare un accordo. Si rimase fermi sui fondamenti giuridici dei rispettivi diritti (veri o presunti), prolungando l'interminabile contenzioso: dopo che nelle trattative che precedettero il convegno, si era vista la parte pontificia rifiutare l'offerta imperiale di riservare a papa e cardinali due decime sulla totalità dei redditi imperiali nella penisola italiana. Tale proposta all'apparenza sembrava offrire alla Chiesa romana risorse e redditi stabili in un momento in cui i bisogni economici del papato crescevano e gli uomini di Curia sentivano l'urgente necessità di mettere ordine in questo settore - si ricordi che sotto L. dal camerario cardinale Gerardo di S. Adriano venne fatto redigere il Liber ecclesiae Romanae censualis, da ritenersi primo censimento di diritti e redditi spettanti al papato. Tuttavia nell'offerta federiciana si individuò, non a torto, una sorta di minaccia all'autonomia della Chiesa.

La contrastata dialettica tra papato e Impero trovò un unico punto di sicuro raccordo e accordo nell'irremovibile atteggiamento da tenere nei confronti degli eretici. Ne è chiara testimonianza la decretale Ad abolendam (cfr. Texte zur Inquisition) emanata a Verona da L. nel 1184, forse il 4 novembre, che verrà compresa nelle Decretales di Gregorio IX (V, titolo VII, cap. 9, De haereticis).

L'obiettivo di eliminare la "diversarum haeresium pravitas" (le cui dimensioni e il cui pericolo senza dubbio vengono sovradimensionati) coinvolge indissolubilmente il "vigor ecclesiasticus" e la "imperialis fortitudinis potentia": l'impegno antiereticale è assunto da L. alla presenza, col consenso e col supporto di Federico I, in pieno accordo con cardinali, prelati e principi giunti a Verona da ogni parte dell'Impero. La condanna dell'eresia è assoluta: "omnem haeresim, quocumque nomine censeatur, per huius constitutionis seriem auctoritate apostolica condemnamus". L'imperatore garantisce il proprio appoggio coercitivo contro ogni deviazione dottrinale e contro qualsiasi deviante, al tempo stesso lasciando alle autorità ecclesiastiche di definire modalità e forme della repressione antiereticale: probabilmente impegnandosi a emanare "imperialia statuta" (da affiancare agli "ecclesiastica statuta") che sanzionino l'obbligo della repressione antiereticale. Pertanto, le autorità di Chiesa sono autorizzate a imporre, sotto giuramento, ai detentori del potere politico-giurisdizionale lo stesso impegno, che non può essere tralasciato senza che siano violate le leggi imperiali ed ecclesiastiche: nel caso di non rispetto, i detentori del potere civile saranno privati legittimamente dell'"honor" e saranno colpiti da scomunica, mentre le aree territoriali da loro dipendenti saranno sottoposte a interdetto - le città, in particolare, saranno private della dignità episcopale e qualsiasi forma di commercio con loro dovrà essere sospesa. I fautori degli eretici perderanno i loro diritti in sede giudiziaria, né potranno ricoprire uffici pubblici. L'eresia si profila sempre più come violazione che, andando al di là della sua natura religiosa, sconfina nel crimine pertinente all'ordinamento pubblico.

Ma quali sono le eresie o, meglio, gli eretici contro i quali si rivolge la Ad abolendam? Nella decretale abbiamo una quadruplice identificazione. La prima è costituita da un'elencazione: "Catharos et Patarinos et eos qui se Humiliatos vel Pauperes de Lugduno falso nomine mentiuntur, Passaginos, Iosephinos, Arnaldistas". L'elenco comprende denominazioni non tutte facilmente attribuibili a gruppi precisi. Con Catari e Patarini si dovrebbero intendere gli eretici dualisti, anche se non è da escludere che con Patarini si possa far riferimento a individui non necessariamente collegati con concezioni dualiste, bensì a generici sostenitori di posizioni religiose radicali latamente riportabili al movimento religioso del secolo precedente. Passagini e Giosefini sono forse gruppi (della cui reale consistenza nella seconda metà del XII secolo, ed anche successivamente, poco o punto sappiamo) che si ispiravano alla tradizione dell'Antico Testamento ed erano accusati di commistioni con l'ebraismo. Il termine Arnaldisti dovrebbe riferirsi ai seguaci di Arnaldo da Brescia, benché esista più di una ragione per negare che, dopo la morte dell'eretico sul rogo, si sia perpetuata una qualche organizzazione da lui discendente o a lui ispirata. Più attendibile è la menzione di Umiliati e Poveri di Lione, accusati di usurpare nella loro denominazione le virtù evangeliche dell'umiltà e della povertà.

La seconda identificazione ereticale riguarda quanti si dedichino alla predicazione in pubblico o in privato, pur essendo stato loro proibito il farlo oppure senza averne avuta l'autorizzazione dalle gerarchie, cioè usurpando una funzione che loro non spetta e in contrasto con l'autorità di Romani 10, 15 ("Quomodo predicabunt nisi mittantur?"). Si direbbe, a buon diritto, che la scomunica abbia valore in conseguenza dell'esercizio di una predicazione non legittimata dal papato o dagli ordinari diocesani indipendentemente dai contenuti teologici e sacramentali della predicazione stessa. Lo si direbbe a buon diritto poiché soltanto in terza posizione stanno coloro che sono accusati di avere convinzioni o di insegnare dottrine, relative all'eucarestia e agli altri sacramenti, divergenti da quelle seguite e annunciate dalla Chiesa romana. Infine, esiste la generica categoria di coloro che sono stati giudicati eretici dalla Chiesa romana o dai vescovi "cum consilio clericorum", ovvero dai "clerici ipsi sede vacante cum consilio". Accanto agli eretici, così variamente definiti, sono colpiti da anatema anche quanti offrano loro forme di sostegno, oppure chi, sospetto d'eresia, non accetti di prestare giuramento, perché "ex hoc ipso" sarà giudicato eretico.

Il passaggio successivo porta dalla definizione (per quanto non precisa) delle categorie ereticali alle sanzioni (altrettanto generiche) che dovranno colpire i devianti. Qualora giudicato eretico sia un chierico o un membro di una qualsivoglia "religio", venga privato di "totius ecclesiastici ordinis prerogativa", oltre che di ogni ufficio e beneficio ecclesiastico, e consegnato al potere secolare per ricevere la giusta punizione, a meno che mostri una spontanea disponibilità a ritornare "ad fidei catholicae unitatem" e a pronunciare una pubblica abiura con relativa adeguata "satisfactio". Se l'eretico è un laico, salvo che intenda abiurare e ritornare alla fede ortodossa con connesse forme di "satisfactio", deve essere affidato al potere secolare per ricevere la punizione proporzionata alla "qualitas facinoris". Uguale decisione è estesa a chiunque appaia sospetto d'eresia. Non essendo pervenuti gli "imperialia statuta" che Federico I avrebbe dovuto emanare in coincidenza con la Ad abolendam, molti interrogativi permangono circa i contenuti attribuibili a natura e rilievo delle punizioni che il potere civile avrebbe dovuto distribuire e comminare. È abbastanza sicuro invece che la decretale papale preveda per l'eretico recidivo la consegna al braccio secolare per l'esecuzione della pena capitale. La decretale sanziona la centralità degli ordinari diocesani nell'azione antiereticale, i quali sono tenuti a dif-fondere il contenuto della Ad abolendam nelle principali festività e ogni qual volta l'occasione lo consenta o lo richieda: in caso contrario verranno sospesi per un triennio dalla dignità e dalla funzione episcopale. Gli stessi ordinari, siano essi vescovi o arcivescovi, hanno il dovere di procedere contro gli eretici recandosi due volte (o almeno una) l'anno, di persona oppure attraverso il loro arcidiacono o altro delegato, là dove si abbia notizia di una presenza eterodossa nella loro diocesi: qui vengano interpellati tre o più testimoni - se del caso tutta la vicinia - che sotto giuramento dovranno rivelare se sappiano della presenza locale di eretici, o della celebrazione clandestina di "conventicula", oppure dell'esistenza di individui che si comportino nella vita quotidiana in modo divergente "a communi conversatione fidelium". Sentite le testimonianze, gli accusati dovranno comparire davanti al vescovo, o all'arcidiacono, per essere "purgati": qualora non accettino i relativi provvedimenti dei giudici ecclesiastici o se, "post purgationem", ricadano nell'eresia, saranno puniti "episcoporum iudicio". Il potere dei vescovi in materia ereticale - poiché in tale materia gli ordinari diocesani agiscono in qualità di delegati della Sede apostolica - si estende anche su coloro che, in quanto soggetti direttamente alla Chiesa romana, siano esenti dalla giurisdizione diocesana. La decretale Ad abolendam di L. è un atto di assoluta importanza, al di là della sua effettiva traduzione in azioni repressive: soprattutto, essa sanziona, da un lato, la frattura delle gerarchie ecclesiastiche con i gruppi pauperistico-evangelici e con i laici desiderosi di sperimentare un più diretto impegno cristiano assai difficile da sanare e, d'altro lato, pone le basi delle non facili relazioni tra "sacerdotium" e "regnum" nella repressione antiereticale, introducendo il diritto delle gerarchie di Chiesa di imporre, attraverso il giuramento, ai detentori del potere pubblico di partecipare attivamente alla lotta della Chiesa cattolico-romana contro gli eretici: facendo diventare, tendenzialmente la repressione antieterodossa come una delle prerogative costitutive del loro "honor", che, se non rispettata, toglieva ogni legittimità alla loro autorità. La componente e la dimensione politica della lotta antiereticale, già presente nella costituzione Sicut ait beatus Leo del III concilio Lateranense del 1179, si facevano sempre più evidenti. Tali componente e dimensione, però, aprivano possibilità di incomprensioni e scontri sulle rispettive aree di competenza dei poteri ecclesiastico e civile e costringeranno a continui patteggiamenti tra loro per evitare (quando possibile) contrasti anche duri, oltre che usi, abusi e strumentalizzazioni dell'accusa di eresia per finalità non propriamente religiose e cristiane.

Infine, è da notare come sotto il pontificato di L. proseguano i processi di accentramento e di definizione giuridico-istituzionale dei poteri papali. In tale ambito si segnala la fissazione delle procedure, per quanto ancora assai rudimentali, di canonizzazione. Per la prima volta, si forma una commissione d'inchiesta presieduta da un cardinale affiancato da due commissari per indagare "in partibus" sui meriti e sui miracoli dell'eremita Galgano, morto nel 1181. Nel 1185 Corrado di Wittelsbach con i suoi assistenti si reca a Montesiepi (nei pressi di Siena) per ascoltare i testimoni e registrarne le deposizioni.

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