DOMENICHI, Ludovico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DOMENICHI, Ludovico

Angela Piscini

Nacque a Piacenza nel 1515 da una famiglia appartenente alla nobiltà cittadina, ma non certo ricca: il padre Giampietro esercitava la professione di notaio e mori, quasi novantenne, nel 1556.

Dopo aver compiuto a Piacenza i primi studi di grammatica e di retorica, il D. passò alle più prestigiose università di Padova e Pavia: qui, negli anni 1530-37, insegnavano umanisti come Celio Secondo Curione, amico di L. Socino e simpatizzante luterano, ed A. Alciato, giurista e filologo di fama europea, corrispondente di Erasmo; è probabile che il D., come altri giovani piacentini della più alta aristocrazia, abbia subito l'influenza del loro pensiero. Laureato in legge a Padova, il D. fu iscritto nel Collegio dei notai e giudici piacentini nell'agosto del 1539. A Piacenza restò fino alla fine del 1543, esercitando la professione legale e frequentando gli ambienti letterari ed artistici. "Perdonate il fastidio che vi recano le mie ciancie ... ed imputate la rozzezza di quelle al ruvido e noioso delle leggi: delle quali io, qual io mi sia, son pur professore" scriveva all'Aretino da Padova nel gennaio 1541 (Lettere scritte, p. 253), ostentando disinteresse e fastidio per la professione legale.

Risale a questi anni infatti la conoscenza di P. Aretino, che il D. visitò a Venezia e gratificava dell'attributo di "divino" in una corrispondenza abbastanza fitta, con scambio di manoscritti e consigli letterari. Più stretta fu l'amicizia con A. F. Doni, che animava, col nomignolo di "Semenza", l'Accademia piacentina degli Ortolani di cui fece parte anche il Domenichi. La produzione letteraria degli Ortolani, d'ispirazione bernesca, ostentava atteggiamenti anticortigiani e gusti anticlassicisti. L'Accademia ebbe vita breve e si sciolse ufficialmente nel 1545; il D. aveva lasciato Piacenza (e la professione legale) da quasi due anni e non vi farà più ritorno se non, per un breve periodo, dopo la morte del padre.

I motivi di questo allontanamento restano oscuri: una grave lite con il padre, come suggerisce il Poggiali (p. 226), l'intrigo amoroso con una monaca ed il conseguente scandalo (Doni, Mondi, p. 165) o il sospetto di aver partecipato ad una congiura contro Ferrante Gonzaga (Doni, lettera citata in Tiraboschi, p. 386). Il D. preferi giustificare il suo allontanamento dalla patria con il linguaggio elegante e vago, tutto letterario, della "impresa" (un pesco carico di frutti) e del "motto" (translata proficit arbor) ch'egli scelse per sé: a significare che soltanto trapiantato in un territorio estraneo e più propizio il poeta-albero poteva fruttificare. A Venezia, cioè, o a Firenze.

Poeta dilettante in un'accademia politicamente compromessa, senza professione, esule e privo di fortuna personale, il D. era naturalmente attratto verso Venezia. La metà del secolo fu per l'industria tipografica veneziana un momento di grande sviluppo, sollecitato dai nuovi bisogni e gusti di un pubblico in netta espansione. Soltanto l'editoria, grazie alle diverse funzioni possibili al suo interno, poteva offrire lavoro e mezzi di sussistenza ad un letterato ancora sconosciuto, amico dello Aretino e del Doni, abbastanza indipendente per rifiutare un impiego a corte. Il D. vide subito nell'ambiente veneziano la possibilità di una vita più adatta ai suoi gusti, come spiega nel sonetto autobiografico "Qui dove il ciel dispensa eterna pace" in lode di Venezia (Rime, p. 36).

Aspettando la gloria letteraria, il D. legò la sua fortuna a quella del più intraprendente tipografo veneziano del momento, Gabriel Giolito de' Ferrari, trovando nella sua politica editoriale, che privilegiava i libri volgari moderni, le traduzioni e le stampe "riformate" dei classici, il terreno propizio per una intensa attività di volgarizzatore, correttore e curatore di testi. Il suo ruolo nell'officina giolitina era quello di collaboratore pagato del tipografo; questi si serviva delle capacità del suo impiegato in funzione delle proprie scelte imprenditoriali, favorendone l'ingresso nella società letteraria ed aumentando in tal modo il prestigio della sua impresa. L'esordio letterario del D. avvenne in quello stesso anno, con la stampa giolitina delle Rime.

È una raccolta di trecentoquindici sonetti e canzoni di argomento amoroso, con una forte presenza di motivi encomiastici, di temi bucolico-pastorali, di sonetti politici e d'ispirazione religiosa. Le Rime s'inseriscono agevolmente nel gusto, dominante a metà del secolo, della lirica d'imitazione petrarchesca: favorito a Venezia dal prestigio dell'insegnamento del Benibo. Inoltre il D., che stava allestendo il testo dei Rerum vulgarium fragmenta per la stampa giolitina del 1545, aveva una familiarità quasi quotidiana con il dettato petrarchesco. Calchi e variazioni sono dunque frequentissimi nelle Rime ("Italia mia se di valore antico", "0 dolce albergo al mio pensiero amaro"), fino alla scoperta ripresa di immagini tipiche come la "cameretta" ed il "letticciuol" di Petrarca, Rime, CCXXXIV. La biografia sentimentale ed amorosa che costituisce la linea unificante del testo è espressione di valori edonistici e talora scopertamente sensuali, come nel sonetto "Aventurosa notte e desiata"; le liriche d'ispirazione politica e religiosa appaiono invece più convenzionali, oratorie e retoriche. È difficile avvertire, dietro la personificazione reprobatoria dei protagonisti della storia europea (il "perfido Germano", il "Gallo crudel", "l'empio Ottomano", il "debil legno del buon Pietro", ecc.), passione o idee; il D. senti evidentemente il fascino di una personalità come quella del Guidiccioni, del quale conosceva bene le rime e stamperà a Firenze nel 1558 l'Oratione ... alla Repubblica di Lucca, ma senza possederne l'energia morale.

Nello stesso anno 1544 il D. tradusse e fece stampare presso la modesta tipografia "AI segno del pozzo" un'opera di s. Agostino, Del bene della perseveranza, e ne inviò una copia in omaggio a Camillo Caula, modenese, capitano dell'esercito veneziano, vicino agli ambienti ereticali della sua città e più volte "ammonito" dagli inquisitori; ringraziandolo, il Caula lo esortava a dedicarsi all'indagine della "letione evangelica" tralasciando gli "humani e vani studi della poesia" (D'Alessandro, p. 176).

I rapporti fra i due sembrano non essere soltanto di protezione ed encomio: il Caula è ricordato nelle Rime per i suoi "cristiani ragionamenti"; e il D. compose per lui un'impresa, un elefante rivolto verso la luna, che sottolineava gli interessi religiosi e la dimensione spirituale del suo insegnamento (Dialoghi, p. 176). In Plinio, tradotto dal D. l'anno precedente, l'elefante è infatti il simbolo della pietà religiosa.

In quello stesso anno il D. curò l'edizione delle commedie di E. Bentivoglio, i Fantasmi ed il Geloso; quest'ultima trae gran parte della sua vivacità da spunti di polemica anticuriale e antiromana. Sono i primi segni di un interesse religioso d'impronta eterodossa che accompagnò il D. per tutto il corso della vita e che egli espresse sotterraneamente, attraverso certe scelte editoriali (le traduzioni di Cornelio Agrippa, Della vanità delle scienze, Venezia 1547; di Luciano, Due dialoghi, Firenze 1548; di Erasmo; di N. Granier, La spada della fede, Venezia 1563; le stampe fiorentine anonime, ma a lui attribuite, di Calvino, Nicomediana, e di J. Sleidan, Commentarii, 1557) Piuttosto che in esplicite formulazioni o dirette prese di posizione: in questo senso il D. fu sempre estremamente prudente.

Nell'anno successivo, 1545, la capacità di lavoro e la fama raggiunta dal D. come "correttore" del Giolito furono tali da suscitare la gelosia del gruppo di personaggi, non tutti di secondo piano, ruotanti attorno alle stamperie veneziane. Curò infatti l'edizione di due classici volgari, il Boccaccio moralista del Laberinto d'amore, "di novo corretto con la tavola delle cose degne di memoria", ed Il Petrarca con l'esposizione di A. Vellutello, che comprendeva il testo delle Rime e dei Trionfi. Il suo intervento fu ancora più significativo nel primo libro delle Rime diverse di molti ecc.mi autori, una raccolta di autori contemporanei ideata dal Giolito come una vera e propria collana in nove libri. Anche la traduzione di Polibio, Delle imprese de' Greci, fatta in quell'anno dal D., sarà ristampata nel 1563 come volume di una collana di "storici antichi" curata da T. Porcacchi.

Sempre nel 1545, presso G. Scotto, il D. stampò il Morgante maggiore del Pulci e l'Orlando innamorato del Boiardo.

Il D., "signore eccellente, dottissimo in utriusque, attendeva al Morgante dello Scotto e al Boiardo", ricordava Doni (Marmi, p. 132), distinguendolo in tal modo fra gli altri "correttori" di stampe. Il lavoro del D. per questi due testi era infatti più impegnativo: nell'Orlando innamorato, ad esempio, non si limitò - ad emendare il testo dagli errori delle stampe precedenti (come aveva fatto coi Boccaccio e il Petrarca), ma interveniva direttamente con l'intento di "riformare" il dettato originale sul piano linguistico, adeguando la morfologia e la sintassi del Boiardo al gusto e alla coscienza linguistica postbembesca. Lo stile e, più raramente, la struttura stessa dell'ottava risultavano diversi. Che questa stampa del D. possa essere chiamata, con Dionisotti (p. 235), una "edizione critica" del Boiardo, così come la si intendeva nel Cinquecento, è probabile, ma implica una precisa valutazione dei principi di questa "filologia"; certo è che in più punti essa appare come un vero e proprio rifacimento, e del tutto irriconoscibili sono, ad esempio, le ottave proemiali e perfino un episodio famoso come l'incontro fra Bradamante e Ruggero. Qualche anno prima, nel 1542, era uscita la stampa milanese dell'Orlando innamorato "rifatto" da F. Berni che tra imitazione ariostesca egusto bizzarro, anticlassico, del suo autore segnò il momento di massima distanza dal Boiardo. Il D. sembra ignorare volutamente il rifacimento del Berni e la sua operazione fu, in complesso, di restaurazione: più fedele all'originale e moderato negli interventi personali, egli si preoccupò di normalizzare la lingua dell'Innamorato smussandone i tratti dialettali, banalizzandone lo spirito. Proprio per questo, forse la stampa "riformata" dal D. conobbe una ininterrotta fortuna mentre il testo boiardesco non fu più impresso fino al 1830, data dell'edizione Panizzi.

Sullo scorcio del 1545 il D. progettò di lasciare Venezia per Firenze; la già cit. traduzione di Polibio, Delle imprese de' Greci, Venezia 1545, era già dedicata, con chiari intenti encomiastici, a Cosimo I. Protetto dall'Aretino, che lo descrisse in termini leggermente ironici agli amici fiorentini e lo incaricò di presentare a corte il Terzo libro delle sue Lettere, ilD. giunse a Firenze nel marzo del 1546. Di li a poco si interruppe la corrispondenza e l'amicizia fra loro due: il D., che aveva tessuto le lodi dell'Aretino comparendo come interlocutore nel Raverta di G. Betussi (Venezia 1544), parlerà ormai di lui con freddo disprezzo moralistico (Dialoghi, pp. 389-90). Si rafforzò invece l'amicizia col Doni, che lo aveva preceduto a Firenze per aprire una piccola stamperia.

Qui il D. lavorò per un breve periodo, ma la tipografia ebbe vita difficile e fu presto schiacciata dalla concorrenza della più prestigiosa impresa dei Giunti. Per entrambi dunque si stava rivelando illusoria la possibilità di sostituire il servizio cortigiano con la libera professione intellettuale esercitata nelle tipografie. Il D. cerco una sostanziosa protezione nella corte medicea: dedicava a Cosimo anche le traduzioni di Agrippa e di Senofonte, mentre collaborava attivamente alla tipografia giuntina. Egli mantenne infatti il gusto di una certa indipendenza e il senso delle capacità acquisite nell'esercizio di un mestiere di cui ancora nei Dialoghi affermava il valore: "quel faticoso negotio tu di 'l vero: tuttavia mantengo altra dignità che non fanno costoro nelle corti ..." (p. 356). L'esperienza veneziana aveva dato infatti al D. una professionalità specifica: se l'attività di "correttore" era soltanto routine, quella di traduttore e "riformatore" di un testo classico o moderno implicava doti notevoli di cultura e di gusto, richiedendo insomma uno spiccato fiuto letterario. Negli anni fiorentini il D. sviluppò questa capacità professionale a scapito forse della qualità della sua produzione personale. Le sue opere originali in questo periodo ci appaiono meschini collages di citazioni e plagi, come la Historia del detti e fatti notabili di diversiprincipi et huomini privati moderni (1556), La nobiltà delle donne (1549), La donna dicorte (1564), oppure traduzioni "ammodernate" dai classici come la commedia Le due cortigiane (1563). La sua attività di editore permise invece la diffusione e la conservazione di testi spesso di sorprendente interesse, ed ebbe un'innegabile funzione culturale. A volte le due personalità del D., quella di autore e quella di editore, entravano in conflitto: è il caso delle Facezie et motti arguti di alcuni ecc.mi ingegni..., pubblicate dal D. a Firenze nel 1548 da un manoscritto appartenente a G. Mazzuoli, detto lo Stradino.

Con gusto spiccato per l'aneddotica e la lingua tre-quattrocentesca lo Stradino aveva trascritto i motti del Poliziano; l'intuizione di aver in mano un testo eccezionale e la fretta di pubblicarlo a suo nome spinsero il D. a mandare in tipografia un'edizione quasi diplomatica del manoscritto, che è ancor oggi documento fondamentale per gli editori del Poliziano "comico". Nel 1562, con lo stesso editore, egli ristampò il testo col titolo di Detti e fatti di diversi signori e persone private, rimaneggiandolo radicalmente: aggiunse al Bel libretto dello Stradino facezie tratte dai Conviviales sermones di J. Gast, eliminò i tratti satirici antifrateschi e blasfemi, completò ciascuna facezia con un commento moralistico, spesso insipido ed incongruente, uniformò lingua e stile al suo gusto aulico e classicheggiante. Cosi facendo egli mise insieme la più completa raccolta di facezie del Cinquecento, ma l'interesse testuale di "quella prima più tosto precipitazione che edizione" (Detti, prefaz.) è irrimediabilmente perduto.

Con l'editore Bernardo di Giunta, dopo il fallimento dell'impresa del Doni e la fine della loro amicizia, il D. pubblicò sempre nel 1548 l'edizione delle Prose di A. Firenzuola e, l'anno successivo, le Commedie, le Rime e, a Venezia nel 1550, l'Asino d'oro. Questa prima edizione a stampa costitui un corpus omogeneo di opere che, dopo la morte dell'autore, rischiavano la dispersione.

I manoscritti del Firenzuola, rivestiti "di saldo e nobil vestimento. si come è la stampa" vennero anche guariti "di molte e gravi ferite". Cosi il D. descrisse, nella prefazione ai Ragionamenti, il suo metodo di lavoro: "m'è pur convenuto, non senza qualche sospetto di Venir ripreso, imitare gli artefici moderni delle statue antiche ... i quali, veggendo a quelle opere belle mancare o braccia o teste od alcuno altro membro, con l'aiuto dell'arte suppliscono ai difetti di queste ... Perché ciò imitando 10, e veggendo questi ragionamenti ... in alcun luogo imperfetti, gli ho interposti alcuni pochi versi, per non lasciar rotto il senso ...". Egli interveniva sul manoscritto colmando le lacune, modernizzando il lessico e la grafia, eliminando i passi incomprensibili o irriverenti: creando insomma non pochi problemi ai moderni editori degli stessi testi. Tanto più che, come affermò L. Scala, coordinatore delle stampe giuntine, aprendo un interessante spaccato sui procedimenti del D., "egli s'è talmente adoperato che, avendo molta pratica delle cose del Firenzuola, l'ha così bene imitato che lo stile dell'uno non è punto differente dall'altro. Nella qual cosa grande obligo veramente gli haverebbe l'anima di messer Agnolo..." (Fatini, pp. 75 ss.).

L'attività del D. si definiva dunque come capacità di maneggiare i testi letterari individuandone l'interesse per i lettori e salvandoli dall'oblio; allo stesso tempo era intervento "attualizzante" sul testo stesso, a discapito della sua fisionomia originale. Il Doni, ormai nemico acerrimo del D., ne tracciò un ritratto impietoso, sottolineandone "l'arroganza di metter mano nelle opere dei Dotti, a titolo di volerle rassettare, correggere, accrescere e minuire... senza vergognarsi ..." (Libraria, p. 308).

Con i Giunti il D. pubblicò poche altre opere: una traduzione del X libro dell'Eneide (1556), la Floria di A. Vignali (1560), la Progne, tradotta dalla tragedia di G. Correr. Più intensa era la sua collaborazione con l'impresa di L. Torrentino, un fiammingo venuto a Firenze nel 1547, tipografo ufficiale della corte e dell'Accademia Fiorentina, che operava in regime di monopolio: per il D. traduttore dell'opera omnia del Giovio, di Curzio Rufò, di Luciano, fu un altro passo avanti nel favore di Cosimo I. Il Torrentino però traeva dalla sua origine nordica interessi religiosi ed esoterici per nulla ortodossi, tollerati, fino ad una certa data, dalla politica aperta in senso confessionale di Cosimo e favoriti da alcuni esponenti dell'Accademia come B. Panciatichi (D'Alessandro, p. 184). Egli stampò i testi della Riforma cattolica (Contarini, Carnesecchi, Morone, Valdes) e, servendosi direttamente della collaborazione del D., l'Idea del theatro di G. Camillo. Ilparagone della Vergine e del Martire di Erasmo, i Hieroglyphicorum libri del Valeriano (G. P. Dalle Fosse), i Commentarii dello Spandouginos ed i Costumie la vita de' Turchi di G. A. Menavino.

Due testi più decisamente compromettenti (cit. precedentemente), stampati alla macchia nel 1552 e nel 1557, la Nicomediana di Calvino ed i Commentarii dello Sleidan, misero seriamente in pericolo il tipografo ed i suoi collaboratori. Il D., nel febbraio 1552, fu condannato al carcere perpetuo nella fortezza di Pisa perché "già da alcuni anni atendendo a eresie e cose luteriane, procurò di liavere un libro pessimo di eresie, decto la Nicomediana, di G. Calvino ... el decto pessimo libro di latino in vulgare tradusse; e non contento a questo fece di nascosto stampare ..." (ibid., p. 183). Grazie all'intercessione di Renata di Francia nel maggio il D. venne trasferito alle Stinche di Firenze e in agosto la pena fu trasformata nel confino di un anno nel convento di S. Maria Novella: qui egli godeva di un trattamento speciale, poteva entrare ed uscire a suo piacere per procedere alla correzione delle Historie del Giovio, che Torrentino pubblicò nel marzo '53. Nel maggio di questo stesso anno venne scarcerato. Paradossalmente la sua posizione nella corte medicea usci rafforzata dal processo e dal carcere, prove brillantemente superate grazie ai suoi appoggi negli ambienti di corte. Si può anzi notare, d'ora in poi, una certa elegante "sprezzatura" nell'atteggiamento del D. verso la politica, più rigida in senso religioso e culturale, istaurata da Cosimo tra il '50 ed il '60. Si allontanava sempre più spesso da Firenze, tanto da dover nominare T. Porcacchi suo procuratore in città: nel 1554 era a Pescia, in provincia di Lucca, dove, amico della famiglia Turini, dei Della Barba e dello stampatore lucchese V. Busdraghi, tentò di avviare una piccola stamperia che pubblicava soprattutto opuscoli neoplatonici e rendiconti delle sedute accademiche. A Firenze, col Torrentino, stampò il Paragone di Erasmo e le Canzoni di L. Contile.

Nel 1556 fu ad Urbino, accolto con favore dalla corte mentre a Venezia usciva la sua traduzione delle Vite di Plutarco e, nel '61, della Historia naturale di Plinio. Tra il '58 ed il '59 era a Piacenza, per affari familiari come suggerisce il Poggiali, ed anche per seguire le stampe milanesi del suo Ragionamento d'imprese e del Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, da lui approntato sul manoscritto trivulziano, espungendone i passi pericolosi, contaminando la lezione originaria con passi del Boiardo e del Firenzuola, normalizzando, al solito, lingua e stile. Anche in questo caso le stampe del rifacimento del D. hanno soppiantato l'originale fino ai tempi nostri.

Già da qualche anno il D. lavorava ad una Storia delle guerre di Siena per incarico di Cosimo: questo lavoro, tuttora manoscritto nella Biblioteca nazionale di Firenze, approvato dal duca, gli procurò nel 1559 l'incarico di storiografo ufficiale della corte medicea, con un lauto stipendio e un appartamento nel palazzo. Entrato dunque a corte con tutti gli onori, il D. non modificò i suoi interessi e le sue abitudini: pubblicava a Lucca le Rime diverse d'alcune nobilissime donne, le Opere morali di Plutarco e le Rime di G. Torelli; soggiorno a Roma nel 1562 e nello stesso anno stampava a Venezia i Dialoghi.

I dialoghi... cioè d'amore, de' rimedi d'amore, dell'amor fraterno, della fortuna, della vera nobiltà, dell'imprese, della corte, et della stampa, Venezia, Giolito, 1562, sono una vera summa ideologica dell'autore; tuttavia la struttura del dialogo a più voci provoca un'ambiguità sostanziale del discorso, che non va soltanto attribuita all'imperizia ed alla frettolosità abituale del Domenichi. Il Dialogo della stampa, già pubblicato come opera propria dal Doni (Marmi, Venezia 1552), risolve in un'esaltazione della editoria veneziana l'apparente antinomia dello imprimere libri, "essercitio plebeo", e dello "scrivere carte", attività nobile ed onorata. Nello stesso tempo viene condannato l'eccessivo allargamento della società letteraria: "ogni pedante fa stampare una leggenda, rappezzata e rubacchiata ... e se ne va altiero per due fogliuzzi". Nel Dialogo di fortuna è sfiorata la tematica cristiana dell'origine del male e si contrappongono scienza e fede in termini vicini a quelli della "devotio moderna".

L'interesse del D. per la tematica religiosa riprese in questi ultimi anni: nel '63 a Firenze stampò il Libro della gratia e del libero arbitrio di s. Agostino e nella lettera dedicatoria ad Eleonora Cibo Vitelli esaltava la "santa ed esemplare disciplina e vita della ecc.ma Duchessa di Camerino, Caterina Cibo", zia di Eleonora e sua educatrice. E non era forse un caso se le glosse stampate in margine al testo richiamavano l'attenzione del lettore sui passi in cui era definita e condannata l'eresia pelagiana.

Tra il 20 ed il 22 ag. 1564, a Pisa, il D. morì.

L'ambiguo atteggiamento religioso che aveva caratterizzato la sua vita non si chiari neppure in punto di morte. Il frate pisano Domenico Arrighi descrisse al domenicano Botonio la morte del D. dopo una breve ma atroce malattia e la perdita della voce "onde non ha potuto disporre di nulla, né in quanto all'anima né in quanto al corpo". T. Porcacchi, in una lettera del settembre '64 diretta sempre al Botonio, affermava invece che egli "è morto santamente, et come christiano che tema Dio: il che è di gran consolatione agli amici et confusione a chi di lui aveva sinistra opinione" (Salza, p. 209).

Opere: Un catalogo delle opere composte, tradotte o semplicemente "curate" dal D. è in D. Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza, Piacenza 1789, pp. 221-293. Comprende sessantanove titoli, ai quali vanno aggiunti i manoscritti della Bibl. naz. di Firenze, la Historia della guerra di Siena ed il volgarizzamento della Vita di s. Brigida di Otto Magno Goto, arcivescovo upsalense; lettere manoscritte sono fra le Carte Strozziane della stessa biblioteca; il catalogo dei mss. italiani della British Library segnala (p. 42) rime autografe del D. non comprese tra quelle a stampa. Opere la cui stampa fu curata dal D., ignote al Poggiali, sono: M. Valerius Messalla Corvinus, Libro... della progenie sua, Firenze 1549; Rime di diversi illustri signori napoletani..., Venezia 1552; Il primo libro delle opere burlesche di Fr. Berni, Firenze 1552; L. Contile, Canzoni. Le sei sorelle di Marte, Firenze 1556; I. Pierio Valeriano, Hieroglyphicorum... libri octo, Firenze 1556; G. Torelli, Rime, Lucca 1561; Masuccio Salernitano, Nov. XLI, rifatta dal D., a cura di G. Papanti, Livorno 1868; G. Contarini, La Repubblica e i magistrati di Venezia, s.n.t. (forse trad. del D.). Ristampe moderne: P. Giovio, Le vite del gran capitano e del marchese di Pescara (volgarizzato dal D.), Bari 1931; Id., Dialogo delle imprese militari ed amorose, Roma 1978; Teatro umanistico veneto. La tragedia, Ravenna 1981 (contiene la Progne, trad. dal Domenichi).

Fonti e Bibl.: P. Aretino, Lettere, Milano 1960, s.v.; Id., Il terzo libro delle lettere, Parigi 1609, pp. 161, 271, 284, 304; Il quarto libro..., ibid. 1609, p. 41; Lettere scritte a P. Aretino da molti signori, comunità, donne di valore, Bologna 1873, pp. 252-55; A. Doni, La libraria, Milano 1972, pp. 306-308; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., Roma 1789, VII, 2, pp. 384-389; D. Moreni, Annali della tip. fior. di L. Torrentino, Firenze 1819, s.v.; S. Bongi, Vita di A. Doni, in A. Doni, IMarmi, Firenze 1863, I, pp. XLVII-L; Annali di Gabriel Giolito, Roma 1890-95, s.v.; A. Salza, Intorno a L. D., in Rass. bibliogr. della lett. ital., VII (1899), pp. 204-209, M. Belsani, I rifacimenti dell'Innamorato, in Studi di lett. ital., V (1903), pp. 3-40; L. Di Francia, Novellistica, Milano 1925, II, pp. 202-223; M. Maylander, Storia delle accademie d'Italia, IV, Bologna 1929, pp. 146-49; G. Folena, Sulla tradizione dei "Detti piacevoli" attr. al Poliziano, in Studi di filol. ital., XI (1953), pp. 431-448; G. Fatini, Per un'ediz. critica del Firenzuola, in Studi di filol. ital., XIV (1956), pp. 21-175; E. Carrara, Studi petrarcheschi ed altri scritti, Torino 1959, pp. 251 ss.; P.F. Grendler, Critics of the Italian world, London 1969, pp. 50-52, 65-69; C. Dionisotti, Fortuna e sfortuna del Boiardo nel 500, in Il Boiardo e la critica contemporanea, Firenze 1970, pp. 221-241; Ser Giovanni Fiorentino, Il Pecorone, Ravenna 1974, nota al testo; C. Di Filippo Bareggi, Giunta, Doni, Torrentino: tre tipografie fiorentine fra Repubblica e Principato, in Nuova Riv. stor., LVIII (1974), pp. 318-48; R. Klein, La forma e l'intelligibile, Torino 1975, pp. 125 s.; C. Vasoli, Noterelle intorno a G. Camillo Delminio, in Rinascimento, XV (1975), pp. 293-309; P. Bruni, Polemiche cinquecentesche: Franco, Aretino, D., in Italian Studies, XXXII (1977), pp. 52-67; A. Quondam, Mercanzia d'onore-mercanzia d'utile. Produzione libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel'500, in Libri editori e pubblico nell'Europa moderna, Bari 1977, pp. 96 s.; A. D'Alessandro, Prime ricerche su L. D., in Le corti farnesiane di Parma e Piacenza, II, Roma 1978, pp. 171-208; A. Dei Fante, L'Accademia degli Ortolani, ibid., pp. 149-170; D. Camerini, I Giunti tipografi editori di Firenze, Firenze 1978, s.v.; A. Poliziano, Detti piacevoli, a cura di T. Zanato, Roma 1983, introduz. e nota al testo.

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