FOSCARINI, Ludovico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FOSCARINI, Ludovico (Alvise)

Giacomo Moro

Nacque a Venezia nel 1409 da Antonio e da Beruzia di Federigo Giustinian. Il padre, che fu senatore, ricoprì vari incarichi rettoriali, anche se non di primissimo piano, tra cui quelli di podestà a Conegliano (1425), podestà e capitano a Rovigo (1428), rettore a Retimno nell'isola di Creta (1437).

Non abbiamo notizie precise sui maestri che curarono i primi gradi della sua educazione: da sue dichiarazioni si può solo concludere che condivise, se non proprio le stesse lezioni, l'ambiente e le tendenze culturali in cui si formarono altri nobili veneziani della sua generazione, quali Bernardo Giustinian, Bernardo Bembo, Daniele Vitturi, Domenico Barbarigo e Pietro dal Monte.

Appassionatosi agli studi filosofici, ancora in giovanissima età intraprese un viaggio a Ferrara per vedere di persona l'averroista Paolo Nicoletti, più noto come Paolo Veneto, la cui fama gli aveva meritato il soprannome di "monarca" della sua disciplina (ciò avvenne probabilmente nell'estate del 1420: ma l'episodio è di controversa datazione) Studiò poi alla facoltà degli artisti dell'università di Padova, dove appunto Paolo Veneto, al rientro dal bando che lo aveva allontanato dal territorio veneziano (1420-1428), fu promotore della sua licenza, il 27 genn. 1429. Nel 1430 sposò Elisabetta Zane di Andrea. Per il F. non era tuttavia ancora concluso il periodo degli studi universitari: il suo interesse si indirizzò allora verso le discipline giuridiche, in cui ottenne il dottorato presso la facoltà padovana il 22 ag. 1434; promotore fu Prosdocimo de' Conti, famoso docente di diritto canonico.

Piuttosto eccezionale per un patrizio veneziano il doppio titolo universitario, ma mentre della formazione filosofica non sono molto evidenti le tracce nei suoi scritti, un più duraturo interessamento nutrì per le discipline mediche (tra i suoi amici e interlocutori furono numerosi i medici, e spesso egli accenna a problemi della medicina, specialmente da una prospettiva egocentrica, quasi da ipocondriaco). Fu però soprattutto la competenza giuridica da lui acquisita a lasciare ammirati i suoi contemporanei, da Biondo Flavio a Ciriaco d'Ancona al pontefice Pio II; essa si manifestò in espliciti interventi per la riorganizzazione statutaria nei vari reggimenti in Terraferma (Feltre, Brescia, Friuli), oltre che più in generale nella frequenza con cui nelle sue lettere fece ricorso a citazioni legali, e nell'impostazione tipicamente da giurista con cui gli capitò di affrontare anche argomenti di teologia morale (così, per esempio, nel corso della discussione con Isotta Nogarola sulla responsabilità di Adamo e di Eva nel peccato originale).

Già nel 1437 fu eletto in Consiglio dei dieci, inaugurando una carriera delle più ragguardevoli tra i patrizi della sua generazione. Una responsabilità così alta in ancor giovane età non era certo usuale: gli valse un così distinto trattamento sicuramente la fama di esperto di diritto, ma certo non dovettero essere estranee all'eccezionale promozione anche l'appartenenza a una famiglia fra le più cospicue nel patriziato veneto e l'appoggio del partito sostenitore del doge Francesco Foscari, del cui figlio Jacopo il F. era amico, anche se più tardi prese le distanze dalla politica bellicistica del doge, e in qualità di avogadore pronunciò sentenza di condanna contro Jacopo. Subito dopo incominciarono anche i primi incarichi rettoriali: podestà di Ravenna nel 1438, podestà e capitano di Feltre nel 1439-40: durante questa reggenza provvide alla codificazione delle leggi municipali della cittadina. Volle lasciare un segno anche della sua devozione abbellendo la sepoltura dei ss. Vittore e Corona, nell'omonimo santuario presso Feltre, con una sopraelevazione su quattro colonne marmoree e un'iscrizione commemorativa: il F. si riconosceva graziato dai due martiri, che scelse perciò quali propri protettori particolari, traducendo anche in latino, nello stesso periodo, la narrazione della loro vita e passione (dedicata a Jacopo Foscari).

Dopo aver alternato alcuni altri incarichi di responsabilità in zone di confine (luogotenente del Friuli e castellano di Modone) a magistrature cittadine (consigliere a più riprese, nuovamente in Consiglio dei dieci e savio di Terraferma), fu inviato ambasciatore a Bologna nel 1445-46: nel corso della missione riuscì a conciliare le opposte fazioni dei Bentivoglio e dei Canetoli, in vista dell'impegnativa lotta contro Filippo Maria Visconti, nemico comune dei Bolognesi e dei Veneziani; il suo operato fu così apprezzato da meritargli la concessione della cittadinanza e l'ascrizione alla nobiltà bolognese. Ritornato in città, mentre continuava a essere scelto per importanti incarichi interni (in questo periodo fu a più riprese savio di Terraferma e consigliere), fu varie volte designato ambasciatore. A Milano nel 1446-47 avrebbe dovuto intimare l'ultimatum di Venezia a Filippo Maria Visconti perché cessasse le ostilità nei confronti di Francesco Sforza; di fronte alla risposta arrogante e minacciosa del duca (che non ammise neppure il F. alla sua presenza), i Veneziani passarono alle vie di fatto e il Visconti rimase sconfitto dal condottiero Micheletto Attendolo. Dopo una felice missione a Firenze nel 1448-49 (a seguito dei difficili momenti successivi alla sconfitta dei Veneziani a Caravaggio), fu inviato a Genova nel 1449-50: doveva perorare la proposta di una benevola neutralità tra le due Repubbliche, per contenere la minacciosa espansione dei Catalano-Aragonesi (era fresca la dichiarazione di guerra contro Venezia da parte di Alfonso il Magnanimo, con l'esplicito intento di sottrarle il predominio sull'Adriatico).

La proposta, che pretendeva di gettare un colpo di spugna su secoli di ostilità irriducibile, non poteva non essere accolta con perplessità dai Genovesi, e sospettata di essere in realtà volta solo a ottenere quel respiro immediato nel settore tirrenico di cui Venezia aveva estremo bisogno.

Per di più nel corso dell'ambasceria del F. si seppe dell'improvviso voltafaccia per cui Venezia, rompendo i patti conclusi con lo Sforza, concedeva il proprio appoggio all'effimera Repubblica Ambrosiana, instauratasi dopo la morte dell'ultimo Visconti: Genova, che soprattutto nello Sforza vedeva il garante di un assetto territoriale meno pregiudizievole ai suoi interessi, quasi si sollevò contro l'ambasciatore veneto, la cui missione si concluse con uno scacco totale.

Il netto insuccesso con cui si risolsero le missioni a Milano e Genova dopo i risultati positivi ottenuti a Bologna e a Firenze mostrano come di fatto il F. non ebbe mai la flessibilità del grande diplomatico. Egli era indubbiamente capace di affascinare gli interlocutori più colti per la profonda e sincera convinzione con cui investiva le proposte politiche contingenti dei più alti valori etici, e per l'eloquenza dei suoi interventi (notevole a questo proposito la lettera a D. Tedaldino, scritta appunto nel corso dell'ambasceria genovese, in cui rifiuta sdegnosamente la sola ipotesi di poter ricorrere a fictiones, sia pure per l'interesse della patria: tutta tramata di riferimenti a Cicerone, Ambrogio, Aristotele e altre auctoritates pagane e cristiane, costituisce un esempio significativo di temi e stilemi dominanti nel suo epistolario), e per questo altamente apprezzato; ma ben pochi si illusero che i suoi ideali corrispondessero agli intendimenti e agli indirizzi reali della politica veneziana. Tuttavia, se non sempre gli esiti delle sue ambascerie furono quelli sperati, la Repubblica continuò a lungo ad avvalersi della sua opera per missioni diplomatiche; e indubbiamente i suoi discorsi e la sua azione contribuirono anche a diffondere un'immagine più positiva dell'operato veneziano.

Nel 1451-52 il F. sostenne la carica di podestà di Verona: benché la città fosse insidiata dalla peste, e tra l'altro toccasse al F. fronteggiare una sollevazione dei soldati nella fortezza di Legnago (risolta facendo ricorso solo alla persuasione della parola), fu quello un periodo sostanzialmente sereno, in cui poté con un certo agio dedicarsi anche agli otia letterari, stringendo rapporti d'amicizia con i principali letterati attivi in città: Damiano dal Borgo, Aleandro Pindemonte, Giorgio da Lazise e, soprattutto, Isotta Nogarola.

Salutato dalla nobildonna con un'eloquente lettera d'omaggio, il F. volle conoscerla di persona; ne nacquero ripetuti incontri e colloqui (di essi resta testimonianza nella contentio, stesa dalla Nogarola, De pari aut impari Evae atque Adae peccato, in cui si confrontano il punto di vista dell'autrice, che sostiene una maggiore responsabilità di Adamo nel peccato originale, e quello opposto del F.), e un'amicizia che durò, non priva di incrinature, fino alla morte della Nogarola (1466); del periodo successivo alla pretura veronese si sono conservate diverse lettere del F., mentre non ci sono pervenute quelle della corrispondente. Pure da Verona figura indirizzata una sua lettera all'imperatore Costantino XI Paleologo, in cui sembra che l'autore, mentre lamenta il pericolo incombente dei Turchi, accenni a un proprio precedente viaggio in una città greca (ma il testo non è esente dal sospetto di essere una composizione fittizia).

Ben diverso il quadro che gli si presentò nel periodo in cui sostenne la podestaria di Brescia (1453-54, dopo essere stato ancora chiamato, nel 1452, a far parte del Consiglio dei dieci): duramente impegnato nella difesa della città dall'inatteso attacco dello Sforza, non ebbe certo molte occasioni di coltivare i prediletti studi letterari, anche se dichiarò in seguito che il successo fu dovuto, dopo che a Dio, alla lettura degli esempi antichi.

In quell'occasione, più che dei nemici il F. ebbe a lamentarsi delle truppe al soldo dei Veneziani: le operazioni belliche, che pure misero seriamente a repentaglio la solidità del dominio veneziano in Lombardia, non furono molto cruente, mentre la rapacità dei mercenari della Repubblica risultava intollerabile. Ripetutamente il F. intervenne, scrivendone anche al Senato e a vari ecclesiastici perché sostenessero i suoi sforzi, volti soprattutto a lasciare liberi e indenni i più poveri.

La pace fu raggiunta tramite la mediazione dell'agostiniano Simone da Camerino, caldamente ringraziato dal F., che gli chiese anche di adoperarsi a far ottenere non solo il perdono, ma il favore del Senato per quei centri del Bresciano che s'erano mostrati più tiepidi nell'opporsi allo Sforza.

A Brescia lo raggiunse la notizia della caduta di Costantinopoli, che anche in lui destò enorme impressione: ma la sua speranza che alla composizione delle cose d'Italia (sostanzialmente ottenuta con la pace di Lodi dell'aprile 1454) potesse seguire un'iniziativa di riconquista da parte delle forze cristiane fu subito smentita dalla pace siglata pochi giorni dopo da Venezia con i Turchi. Il F. rimase comunque sempre coerentemente tra i più assidui sostenitori della necessità di una guerra santa. Un altro evento luttuoso fu deplorato dal F. in quell'anno con eloquenti parole: la morte di Francesco Barbaro, uno degli amici e dei modelli più importanti per la sua formazione intellettuale, morale e politica.

Mentre proseguiva la serie degli incarichi interni (in qualità di avogadore, 1455-56, condannò il figlio del doge, Jacopo Foscari, che in gioventù era stato suo amico), e dopo due brevi missioni nel 1455 a Roma (ambasciatore a Callisto III per congratularsi della sua elevazione al soglio pontificio) e a Genova (per la liberazione di alcune galee catturate dal Grimaldi, signore di Monaco) con grande riluttanza accettò l'incarico di capitano di Verona, che sostenne nel 1456-57. Inizialmente avrebbe voluto rifiutarsi per motivi di salute, e poi, a seguito di svariati consulti medici, fu più volte sul punto di rinunciare prima del termine del mandato. Al precario stato di salute si aggiungeva anche l'ostilità dimostratagli dal predecessore, Giovanni Memo (da cui, qualche mese avanti, aveva acquistato un cospicuo lotto di terreni): l'unico motivo che lo fece rimanere a Verona fino alla scadenza del mandato fu l'imperversare della peste a Venezia, che peraltro lo riempiva di ansia per la salute dei suoi familiari.

Seguiva intanto con interesse, ma con diffidenza per i velleitari tentativi bellici messi in atto, gli sviluppi del problema orientale: proprio per la conclusione di una lega antiturca fu ambasciatore a Roma (con Orsatto Giustinian), su richiesta di Callisto III: ma la missione fu vanificata dalla morte del papa (1458). Gli stessi ambasciatori furono scelti a rappresentare la Repubblica presso la Dieta di Mantova indetta (1459) dal nuovo pontefice, Pio II, per lo stesso fine.

Alla prospettiva della lega la maggioranza dei patrizi veneziani era contraria: gli interessi commerciali in Oriente e le caratteristiche geografiche dei loro domini di là dal mare, che ne rendevano difficile e onerosa la difesa, facevano temere un danno certo, a fronte della dubbia riuscita di un contrattacco cristiano, il cui peso finanziario avrebbe ben presto spaventato re e signori d'Occidente, facendoli desistere da un'impresa nobile, ma per loro di scarsa remuneratività. Accentuava la riluttanza di Venezia all'impegno bellico anche un motivo particolare di risentimento nei confronti del pontefice: questi, alla morte del vescovo di Padova Fantino Dandolo (17 febbr. 1459), aveva investito della diocesi il cardinale Pietro Barbo, non tenendo in alcun conto la designazione di Gregorio Correr, abate di S. Zeno, fatta dal Senato della Repubblica. Perciò tra le istruzioni date ai due ambasciatori figurava il divieto di omaggiare il Barbo e di trattare con lui, come pure di negoziare o favorire qualunque materia ecclesiastica, anche personale.

Giunto a Mantova il 23 settembre, il giorno seguente il F. tenne un'orazione pubblica davanti al concistoro e a tutti i rappresentanti diplomatici presenti: in essa lamentava l'ardire dei Turchi, mentre deplorava la lentezza dei cristiani ed elogiava lo zelo del pontefice. Il discorso fu altamente apprezzato, tra gli altri dallo stesso Pio II e da F. Filelfo, oratore alla Dieta a nome dello Sforza. Tuttavia, nel corso delle trattative svoltesi nei mesi seguenti per concretare il progetto, risultò evidente il rifiuto del governo veneziano a impegnarsi, a meno che non fossero garantite condizioni che la situazione politica europea rendeva evidentemente irrealizzabili: tale atteggiamento suscitò molte critiche, rendendo difficile la posizione del F. e determinando alla fine il fallimento della Dieta. Prima di rientrare fu nuovamente eletto alla pretura di Brescia, ma si fece dispensare, forse proprio per seguire gli sviluppi delle trattative, al cui successo era personalmente e fortemente interessato.

Proprio le critiche mosse da varie parti alla politica dei Veneziani, colte nel corso della missione mantovana, fecero concepire al F. il progetto di interessare un illustre umanista a scrivere della storia veneziana. La dignità letteraria della scrittura, ispirata ai modelli antichi, sarebbe stata, nelle sue intenzioni, il veicolo di un'interpretazione ideologica e positiva della storia veneziana, volta a evidenziare soprattutto eventi, uomini, istituzioni e valori in cui la città lagunare si dimostrava degna erede cristiana dell'antica Roma. Il candidato ideale per questo compito sarebbe stato per lui Biondo Flavio, che aveva avuto occasione di frequentare durante la Dieta: il progetto non ebbe tuttavia modo di concretarsi.

Appena ritornato a Venezia, il 31 genn. 1460, il F. dovette subire l'umiliazione di una condanna a due anni di esclusione da ogni ambasceria, con la motivazione di essersi intromesso nell'affare del vescovado di Padova. Il fatto che fosse con lui punito il collega Orsatto Giustinian, di orientamento non del tutto concorde con il suo, rende probabile che questa fosse in realtà una reazione degli avversari per il ruolo da loro sostenuto a Mantova. La condanna lasciò il segno, anche se non impedì la prosecuzione della sua carriera politica, con l'assunzione di altre importanti cariche di governo: sempre più spesso e con toni sempre più risentiti nelle sue lettere il F. ebbe a lamentare critiche e mene di malevoli avversari. Avogador nello stesso 1460, nel 1461-62 fu luogotenente in Friuli, impegnandosi con grande energia per ricondurre la tranquillità nel territorio, non senza suscitare risentimenti e odi tra i nobili del luogo.

Quasi a compensazione, sempre più importante diventava per lui la distrazione degli otia letterari: mentre era a Udine profittò della ricca biblioteca riunita nella vicina San Daniele da Guarnerio d'Artegna (con cui rimase poi sempre in cordiali rapporti, ottenendo e propiziando a sua volta frequenti prestiti di codici) per ampliare la sua conoscenza dei classici: tra gli altri storici greci Tucidide, Erodoto e Appiano. A Guarnerio chiese anche di fare da padrino a uno dei suoi figli.

Un aspetto particolare della luogotenenza friulana, significativo di un atteggiamento in lui profondamente radicato da antica data, fu la politica ostilissima alle comunità ebraiche. Del suo antisemitismo le lettere recano frequente traccia, tra l'altro deplorando la concessione fatta agli ebrei di esercitare la professione medica, ma il F. condivideva anche i più fanatici pregiudizi antigiudaici, come l'accusa di omicidio rituale e il sospetto di un complotto per sterminare i cristiani.

Avogador nel 1463, nello stesso anno concorse, ma senza successo, all'elezione a procuratore di S. Marco; dopo aver rifiutato un paio di ambascerie a cui era stato designato, alla fine dell'anno sotto la minaccia di una forte multa dovette però recarsi a Roma, per trattare con Pio II il problema dell'impresa comune contro gli Ottomani. Venezia, attaccata dai Turchi nella Morea, aveva ora pressante esigenza di associarsi altre potenze cristiane per non portare da sola l'immane peso della guerra: Pio II riuscì solo a coinvolgere il duca Filippo il Buono di Borgogna, che avrebbe dovuto partecipare personalmente, alla guida di un importante contingente (ma inviò poi solo 2.000 armati al comando dei figli illegittimi Antonio e Baldovino); il pontefice tuttavia s'impegnò a fondo nel progetto, in cui investì le residue energie del suo fisico ormai provato. Il F., inviato con commissione dell'8 dicembre, seguì il papa nei suoi spostamenti preliminari (Siena, Petriolo, Viterbo tra la fine del 1463 e l'anno dopo), e poi ad Ancona, punto di raccolta della spedizione: ma il pontefice prima di morire il 14 ag. 1464 fece appena in tempo a sapere dell'arrivo delle galee veneziane personalmente condotte dal doge Cristoforo Moro. La scomparsa di Pio II e l'incertezza sugli orientamenti del successore vanificarono il poco che si era riusciti a organizzare a prezzo di tanti sforzi: dopo aver reso gli onori funebri al defunto pontefice il F. rientrò a Venezia con il doge e i quattro consiglieri che l'accompagnavano. Con altri nove patrizi fu poi inviato, il 5 sett. 1464, a congratularsi a nome della Repubblica con il neoeletto Paolo II, il veneziano Pietro Barbo. Richiamato da Roma il 24 dicembre, l'anno dopo fu in tutta fretta inviato in una missione segretissima presso il Colleoni a Malpaga. Nel 1466-67 rivestì per l'ultima volta un incarico di responsabilità in Terraferma: podestà a Padova, benché impegnato in un compito difficile, che gli parve al solito complicato dalle trame dei suoi avversari personali, e senza sottrarsi ai doveri della sua carica (opere idrauliche, edilizia pubblica, provvedimenti relativi all'università, ma anche feste), riuscì anche a profittare del vivace clima intellettuale del centro universitario per entrare in contatto con i dotti colà residenti: tra gli altri con il trevigiano Bernardino Bononigena, che gli dedicò un libro di poesie.

Chiamato nuovamente a far parte del Consiglio dei dieci nel 1468-69, di fronte alla sempre più minacciosa pressione dei Turchi, il F., che non aveva mai abbandonato il sogno di una crociata contro gli infedeli, il 25 apr. 1470 fu ancora inviato quale ambasciatore a Roma, insieme con Andrea Vendramin, con l'incarico di sollecitare la conclusione di una pace tra gli Stati italiani. Rimase impegnato nelle trattative fino al maggio dell'anno dopo; nel corso di quell'ambasceria, l'ultima da lui sostenuta, sollecitato da Paolo Morosini a promuovere un'alleanza con Firenze, gli rispose il 15 luglio, con l'ultima sua lettera sicuramente databile pervenutaci, di aver avuto da un non meglio precisato "sapientissimo" cardinale l'invito a lasciar perdere, data l'attuale incostanza dei Fiorentini e l'ormai scarso peso della loro politica: chiedendo lumi al Morosini, il F. lo invitava tuttavia a tener conto che il giudizio era stato da lui raccolto a Roma, ambiente infido, in cui dominavano la simulazione e la dissimulazione.

Dal 1471 fu chiamato solo a cariche cittadine, tra cui l'onorifica dignità di procuratore di S. Marco, e, per due volte (1471 e 1473), rivestì la funzione di elettore ducale, facendo confluire sul proprio nome anche qualche voto, insufficiente tuttavia a fargli raggiungere la suprema carica (risultarono invece eletti, rispettivamente, Nicolò Tron e Nicolò Marcello). Dal 1474, certo per il suo cattivo stato di salute, si diradarono anche gli incarichi importanti, benché ancora negli ultimi anni del decennio venisse chiamato a far parte delle zonte del Consiglio dei dieci.

Il 16 dic. 1477 si preoccupò con un codicillo "ante testamentum factum" di dar vigore alle ultime volontà del defunto padre Antonio sulla celebrazione di messe di suffragio; l'atto, che si conserva in minuta tra i documenti del notaio Giuseppe de Moysis, è anche in originale entro il vero e proprio testamento del F., datato 17 giugno 1478: per garantire il lascito di 6 ducati d'oro all'anno, disposto dal padre per una messa quotidiana, egli vincolava gli affitti non solo di una casa "de statio" in San Polo, come suggerito dal genitore, ma vi aggiungeva anche quelli di altre sei casette vicine e di un'altra in calle del Forno. Nel testamento le disposizioni per la sepoltura sono improntate ad austera severità: il suo corpo doveva essere accolto in una semplice arca di pietra da porsi sopra o accanto al sepolcro del padre in S. Maria dei Frari, escludendo esplicitamente statue di marmo e ornamenti dorati (gli eredi vollero però onorarne la memoria, commissionando un monumento a Pietro Lombardo, di cui sopravvivono in loco l'iscrizione e pochi elementi decorativi); il funerale doveva essere accompagnato dai capitoli di S. Geminiano e di S. Polo e dai canonici di S. Marco, ma solo perché questo rappresentava "potius solacia vivorum quam merita mortuorum". Oltre a vari lasciti particolari per beneficenza o per suffragio, il F. si preoccupò di prevedere il mantenimento delle figlie, nel caso non si maritassero o restassero vedove o in disaccordo col marito (la sola Barbarella a quell'epoca era sposata).

Particolare attenzione fu dedicata alla sorte della biblioteca, "in qua constitit omnis mea felicitas": il nucleo delle opere più importanti (due codici delle sue lettere, otto volumi "variarum sentenciarum", il florilegio di Francesco da Montagnana e un codice con le orazioni desunte dalle storie di Tito Livio) fu lasciato al figlio più giovane, Vittore, che il F. destinava agli studi, con la condizione di farne un insieme di beni inalienabili, esclusi perfino dal prestito a chiunque non appartenesse alla famiglia; Vittore, erede anche di tutti gli altri libri del padre, compresi quelli di diritto, aveva tuttavia facoltà di vendere questi ultimi, nel caso non seguisse studi legali. Madre e fratelli venivano comunque pregati di garantirgli "omnes commoditates studendi", "ita ut habeat aliquod gradum dignitatis": spesato integralmente finché restasse con i fratelli durante gli studi a Padova doveva poter contare su un assegno annuo di 80 ducati, oltre alle spese per il vestiario. Per le figlie Foscarena e Cristina veniva costituita una dote di 2.000 ducati ciascuna: ma nel caso che non si fossero sposate avrebbero potuto disporre liberamente solo di un decimo della somma. L'insieme del patrimonio, certo cospicuo (il testamento non specifica la consistenza dei beni immobili, che dovevano comprendere oltre alle case e ai terreni già citati anche la nuova residenza nella parrocchia di S. Geminiano, sestiere di San Marco, mentre il genitore aveva abitato nella parrocchia di S. Polo; il F. parla poi di più di 1.800 ducati in contanti e di varie migliaia di ducati in titoli del debito pubblico al 4%), detratti i beni esplicitamente citati, era lasciato in comunione pro indiviso alla moglie Elisabetta e ai figli Nicolò, Girolamo e Vittore, con la clausola che non si potesse procedere a divisione se non dopo che Vittore avesse compiuto venticinque anni.

La morte colse il F. a Venezia il 17 ag. 1480, mettendo fine a un'esistenza spesa quasi integralmente al servizio della patria e a una delle carriere più prestigiose tra i patrizi della sua generazione.

Generalmente annoverato tra gli umanisti veneziani, il F. fu soprattutto un uomo di governo, educato al culto delle lettere, che tuttavia non giunse a concepire come attività autonoma, ma sempre subordinata ai dettami della religione, della morale e ai doveri civici. La lettura dei classici, avidamente ricercata, gli fornì spunto essenzialmente per la scelta di massime ed exempla atti a confermarlo nelle convinzioni (e perfino nei pregiudizi) tradizionali, o per rendere più forbito lo stile delle sue orazioni (ammiratissime dai contemporanei) e delle sue lettere, talvolta anche a scapito dell'organicità del discorso. Scarsamente interessato al lavorio filologico e ben lontano da spregiudicate posizioni critiche, riuscì a conciliare la conoscenza degli antichi con le proprie cognizioni giuridiche, gli interessi per la medicina e un'intensa religiosità di stampo prevalentemente tradizionale in un insieme singolare ma a volte alquanto dissonante. Ciò non toglie che gli vada riconosciuta un'indubbia funzione positiva nel consolidarsi di un clima culturale nuovo a Venezia per le relazioni da lui intrattenute con figure di primo piano nella politica e nella cultura contemporanea, per la protezione concessa ad alcuni letterati, per il progetto di favorire una storiografia veneta ispirata ai canoni dell'umanesimo, per lo sforzo stesso di elevare lo stile dei suoi scritti latini.

Non conservate le orazioni, di cui abbiamo solo echi indiretti, restano invece oltre trecento lettere, fonte storica di primario interesse, per la maggior parte ancora inedite. Il codice fondamentale è quello della Österreichisches Nationalbibliothek di Vienna (Cod. Lat. 441, corrispondente al primo citato nel testamento, mentre il secondo è perduto); altre lettere isolate si conservano sparsamente. Pure conservati la vita dei ss. Vittore e Corona e uno degli otto volumi di massime e brani di autori classici.

Delle intense e importanti amicizie letterarie che il F. intrattenne nel corso della sua lunga e operosa vita, testimoniate in particolare dagli scambi epistolari con Francesco Barbaro e il Filelfo, un frutto particolare è costituito dalle numerose opere dedicategli: oltre al già citato Bononigena, gli intitolarono vari scritti Antonio Baratella, Giorgio Merula, Iacopo Ragazzoni, Porcellio Pandioni, Giovanni Iacopo Cane, Ermolao Barbaro, Francesco Diedo, Domenico Michiel, Damiano Dal Borgo, Giorgio Bevilacqua da Lazise.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia: Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, III, c. 541r (per la carriera); Indici, 86 ter, 2: G. Giomo, Indice per nome di donna dei matrimoni dei patrizi veneti, II, p. 490 (per il matrimonio); Cancelleria inferiore. Misc. testamenti, b. 27, n. 2596 (per il testamento; il codicillo anche Ibid., b. 727, n. 119; alle disposizioni sui libri accenna B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, sussidii allo Studio in Venezia nei secoli XIV e XV, in Archivio veneto, XXXII [1886], p. 338). Per l'acquisto di terreni del 1456: Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P.D. C 751,35. Per i titoli universitari: Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini, II, a cura di G. Zonta - G. Brotto, Padova 1970, pp. 158, 226 s. Le lettere alla Nogarola (o su di lei) sono pubblicate in I. Nogarolae Opera queae supersunt omnia…, a cura di E. Abel, II, Vindobonae-Budapestini 1886, pp. 28-126, 157-160, 181-184. Singole lettere o gruppi sono pure pubblicati negli interventi sul F., a cominciare da A.M. Quirini, Diatriba praeliminaris… ad Francisci Barbari et aliorum ad ipsum epistolas, Brixiae 1741, passim; Id., Decas epistolarum…, ibid. 1742, pp. III-XVII (epist. VII, num. propria); F. Barbari et aliorum ad ipsum epistolae, a cura di A.M. Quirini, ibid. 1743, pp. 247-250, 264-267; App., cc. 2v-4r (sei lettere); G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, I, Venezia 1752, pp. 45-107; L. de Monacis, Chronicon de rebus Venetis…, a cura di F. Corner, Venetiis 1758, pp. VI-IX (una lettera); M. Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854, pp. 70, 224, 245-247, 383, 484 s., 541; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, Venezia 1824-53, II, pp. 44, 56; IV, pp. 185, 461 s.; VI, pp. 444, 577, 607; T. Gar, I codici storici della Collezione Foscarini, conservata nella Imperiale Biblioteca di Vienna, in Arch. stor. italiano, s. 1, V (1843), p. 408; E. Abel, in I. Nogarolae Opera…, cit., I, pp. XLVII- LXIV; G. Dalla Santa, Due lettere di umanisti veneziani (Lauro Querini e L. F. a Paolo Morosini), in Nuovo Archivio veneto, XIX (1900), pp. 92-96 (una lettera); G.B. Picotti, Le lettere di L. F., in Ateneo veneto, XXXII (1909), pp. 24-49 (poi in Ricerche umanistiche, Firenze 1955, pp. 205-226); Id., La Dieta di Mantova e la politica de' Veneziani, Venezia 1912, passim (con sette lettere e documenti); P. Gothein, Francesco Barbaro (1390-1454): Früh-Humanismus und Staatskunst in Venedig, Berlin 1932, pp. 301-308; Id., Paolo Veneto e Prosdocimo de' Conti maestri padovani di L. F., in Rinascita, V (1942), pp. 236-243; Id., L'amicizia fra L. F. e l'umanista Isotta Nogarola, ibid., VI (1943), pp. 394-413; G. Zippel, L. F. ambasciatore a Genova nella crisi dell'espansione veneziana sulla Terraferma (1449-50), in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo e Archivio muratoriano, LXXI (1959), pp. 181-225 (con nove lettere e documenti); F. Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in Storia della cultura veneta, 3, Dal primo Quattrocento…, I, Vicenza 1980, pp. 35-44 (con due lettere); G. Gardenal, L. F. e la medicina, in Miscellanea di studi in on. di V. Branca, Firenze 1983, III, 1, pp. 251-263 (con vari estratti di lettere); M.L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, Roma 1989, passim (in particolare, II, pp. 545-550, con bibl. e riferimenti alle fonti).

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