FARINI, Luigi Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FARINI, Luigi Carlo

Nicola Raponi

Nacque a Russi (Ravenna), il 22 ott. 1812 da famiglia della media borghesia romagnola - il padre Stefano era farmacista a Russi, la madre Marianna Brunetti veniva da una famiglia di medici - attiva nella vita politica locale, in contatto sia col notabilato di tendenze liberali sia col mondo delle sette che nelle Romagne della Restaurazione trovavano alimento nell'opposizione al governo clericale.

Il padre fu podestà di Russi negli anni 1811-12, membro della Municipalità negli anni 1813-15 e 1817-19, gonfaloniere nel 1820-21, anziano nel 1837-39. Lo zio Domenico Antonio Farini, col quale dopo i primi studi umanistici il F. studiò filosofia e scienze, era stato costretto ad andare esule in Toscana tra il 1821 e il 1824 per sfuggire all'azione repressiva del card. A. Rivarola e fu assassinato dai sanfedisti alla fine del 1834.

Ammesso il 10 nov. 1828 alla facoltà medica di Bologna, vi si distinse per il profitto negli studi ma anche per vivacità politica; nel 1830 rischiò d'essere allontanato dalla città avendo partecipato a una dimostrazione patriottica al teatro Centovalli in occasione di una rappresentazione della Francesca da Rimini di S. Pellico.

Secondo lo Zama, più recente biografo del F., è priva d'ogni certezza la notizia ch'egli abbia partecipato nel 1831 all'iniziativa del generale G. Sercognani contro Roma; fece parte invece della rappresentanza costituitasi durante i moti del '31 nell'ateneo bolognese per esprimere richieste e diritti degli studenti.

Nel dicembre 1831 conseguì la licenza in medicina; rientrate però le truppe austriache in Bologna e chiusa l'università, si trasferì a Ravenna a far pratica presso quell'ospedale. Il 27 giugno 1832 ottenne la laurea e il 14 dicembre seguente l'abilitazione all'esercizio della professione, che svolse per un decennio facendo perno nella nativa Russi, ma continuando pure gli studi occupandosi di febbri malariche, diffuse nel territorio umido e paludoso della provincia ravennate.

Frutto di questi studi furono alcune pubblicazioni che rivelano l'attenzione sia agli aspetti medico-scientifici sia alla rilevanza sociale della malattia e più in generale alla sanità come problema sociale.

Esigenze professionali e ragioni familiari (il 16 ag. 1833 aveva sposato la figlia di un agiato possidente di Dozza nell'Imolese, Genovieffa Cassani, dalla quale ebbe nel 1834 il figlio Domenico, più tardi anch'egli uomo politico, nel 1837 Ada, nel 1840 Armando, nel 1842 Ida) lo indussero a partecipare a concorsi per una condotta medica. Rifiutata nel 1833 quella di Civitella di Romagna, ottenne nel 1834 quella di Montescudolo (oggi Montescudo, Forlì), ma, nonostante le attestazioni avute da autorità civili ed ecclesiastiche sulla capacità e zelo profusi, non ottenne poi la nomina a medico effettivo, in quanto ritenuto dal governo un "settario" e "pregiudicato" in linea politica. Già nel 1833 il governatore di Russi, Federico Galeati, lo aveva segnalato come "nimicissimo del governo": il F. figurava infatti in una lista di pregiudicati per aver dissuaso i giovani dall'arruolarsi nel corpo dei centurioni, sorta di volontari sanfedisti nelle Romagne.

Nell'estate del 1835, lasciate le condotte appenniniche, si trasferì a Ravenna, ove strinse amicizia con patrioti locali come I. Guiccioli, F. Lovatelli, T. Rasponi, i fratelli Giuseppe e Giovanni Galletti Abbiosi. Escluso ancora dai concorsi a medico condotto indetti a Ravenna, nell'estate del '36 - all'avvicinarsi dell'epidemia di colera, che avrebbe fatto molte vittime nei territori pontifici e specialmente ad Ancona, dove il F. si offrì di andare per studiarvi la natura dell'epidemia - ebbe l'incarico di dirigere l'ospedale dei colerosi. Continuava intanto gli studi medici e nel 1839 pubblicava a Bologna l'importante studio Sulla pellagra. Osservazioni teorico-pratiche. Nello stesso anno otteneva finalmente la condotta medica a Russi. Profondamente partecipe dei problemi umani e sociali della sua terra, esercitò in questi anni la professione con una passione che - leggendone le lettere - si potrebbe definire più che umanitaria, evangelica (cfr. Epistolario, I, pp. 443, 445), accompagnata da un interesse scientifico per ciò che noi diremmo oggi malattie professionali e medicina del lavoro.

Compromesso nei moti romagnoli dell'agosto e del settembre 1843 per aver svolto una missione verso il confine napoletano per conto del comitato bolognese, il F. fu consigliato dal cardinale L. Arnat, che reggeva dal '37 con moderazione la Legazione di Ravenna. a lasciare il paese. ottenuto il passaporto e accompagnato - con F. Lovatelli e T. Rasponi - da don Giovanni Verità al confine toscano, il 14 agosto era a Livorno, da dove si imbarcò per Marsiglia; il 19 settembre era a Parigi. Quivi scrisse e pubblicò (1844) il Commentario sulla vita di Domenico A. Farini da Russi - lo zio caduto vittima di un'imboscata di reazionari rimasti sconosciuti e impuniti - che conteneva aspre critiche al governo pontificio ritenuto inconciliabile con la libertà civile. A Parigi riprese gli studi ed ebbe contatti con illustri medici e scienziati come F. Arago e F. Magendie; ma soprattutto entrò in relazione con patrioti esuli di varie tendenze, moderati come T. Mamiani, e mazziniani. Il F. e i suoi amici Lovatelli e Rasponi erano però visti con diffidenza da molti mazziniani, e da alcuni di questi, come P. Sterbini, considerati quasi traditori della causa rivoluzionaria; entrato nel Comitato misto, promosso da G. Lamberti e G. Ricciardi, dei patrioti non aderenti alla Giovine Italia, fu lo stesso designato da Mazzini, fra molte incertezze, a guidare l'insurrezione in Romagna. Partito da Parigi il 20 febbr. 1844 con un passaporto inglese intestato a un Lisandro Vallacchi di Zante, si diresse verso la Corsica. Il F. aspirava a tornare in patria, rivedere la famiglia, riprendere la professione: avuta notizia che era stata nel frattempo dichiarata vacante la sua condotta, il 22 febbraio scrisse una lettera al governatore di Russi, al nuovo legato card. F. S. Massimo e al segretario di Stato card. L. Lambruschini protestando e dichiarandosi, piuttosto imprudentemente, liberale. Mentre si consumava in Calabria la vicenda dei fratelli Bandiera (giugno '44), il F., segnalato alle polizie degli Stati italiani, sbarcava in Toscana. A Firenze, commissionatogli dalla soprintendenza di Sanità della Toscana per suggerimento forse di Maurizio Bufalini, e avvalendosi di notizie e dati statistici raccolti con un questionario da amici e collaboratori, scrisse e pubblicò il saggio Sulle questioni sanitarie ed economiche agitate in Italia intorno alle risaie. Studi e ricerche (1845), nel quale confermava l'interesse agli aspetti sociali della medicina e alla legislazione del lavoro.

Sulla questione delle risaie s'era discusso nei congressi degli scienziati italiani di Firenze (1841), Padova (1842) e Lucca (1843) e il F., che già se ne era occupato in precedenti scritti ed era stato interpellato in proposito da eminenti studiosi come F. Puccinotti, raccolse questa ponderosa memoria in tre libri. Basandosi sull'analisi della pratica seguita nella coltivazione del riso nel Ravennate e nel Lucchese, sull'esame delle opinioni degli scienziati e della normativa emanata dai vari governi, contro coloro che chiedevano l'eliminazione totale delle risaie egli vi sosteneva che si dovessero conciliare gli interessi della produzione e dell'economia pubblica con le esigenze igieniche e morali dei lavoratori. L'agro ravennate era divenuto più ubertoso ove le paludi erano state messe a coltura di riso, non v'era stato aumento di febbri malariche, bensì crescita dei salari e del benessere, tuttavia si dovevano migliorare le condizioni igieniche personali e abitative dei lavoratori, emanare leggi contro lo sfruttamento dei fanciulli e delle donne, istituire una magistratura di controllo delle condizioni del lavoro.

Da Firenze nel '45 si trasferiva a Lucca, ove incontrò amici liberali come G. B. Giorgini e F. Carrara. Il desiderio di tornare in patria lo indusse a presentare al governo pontificio un'istanza, che non ebbe seguito: anzi la polizia pontificia sollecitava quella toscana e quella lucchese a vigilare su di lui. Nell'estate di quello stesso anno, avvalendosi di suggerimenti d'altri patrioti, scrisse il Manifesto delle popolazioni dello Stato romano ai principi e ai popoli d'Europa, il ben noto manifesto di Rimini.

Stampato segretamente a Rimini, il manifesto proclamava il rispetto dell'autorità del pontefice come capo della Chiesa, ma chiedeva riforme radicali di governo, come la secolarizzazione dell'amministrazione, l'introduzione della giuria e della pubblicità dei dibattiti nel processo penale, l'elettività dei Consigli comunali, l'abolizione della censura preventiva, l'istituzione di un organo di rappresentanza politica centrale. Era un programma di riforme moderato, sebbene affacciasse il ricorso alle armi se quelle fossero state negate; Mazzini lo condannò come un tradimento dell'idea nazionale perché sostituiva al moto nazionale riforme locali, e alle grandi questioni dell'indipendenza, dell'unità e della libertà i miglioramenti economici ed amministrativi. In realtà il F. non aveva partecipato al moto romagnolo (Rimini, Faenza, Bagnocavallo...) del settembre '45, passato alla storia come i "Casi di Romagna" per merito dello scritto di M. d'Azeglio, al quale egli s'avvicinava sempre più mentre s'accresceva il distacco da Mazzini e il ripudio dei suoi metodi di lotta. Il Manifesto fu giudicato positivamente dalla diplomazia europea e gli ambasciatori lo sottoposero al papa in quanto rispondente ai principi del Memoriale del 1831 a Gregorio XVI.

Negatagli, per le pressioni del nunzio a Firenze e le diffidenze delle polizie lucchese e granducale, la residenza a Firenze, nel novembre del '45 il F. fu assunto come medico curante e maestro di casa del principe Gerolamo Napoleone Bonaparte - figlio dell'ex re di Vestfalia Gerolamo Bonaparte e perciò fratello del principe Napoleone, futuro sposo di Clotilde di Savoia, e cugino del futuro Napoleone III - bisognoso di assistenza costante: poté così ottenere un passaporto pontificio per tutti i paesi. In compagnia del Bonaparte, alla fine del maggio '46 giungeva - via Livorno e Genova - a Torino, dove incontrò l'Azeglio, L. Valerio, C. Balbo.

"Mi sono innamorato, alla lettera, di Balbo... È uno dei pochi uomini di gran fama che veduti da vicino ingrandiscono invece di impicciolire, come sovente avviene. Anima più bollente non ho visto mai, né testa più ordinata e forte", scriveva all'amico A. Bertini a Lucca (Epistolario, I, pp. 456-460). A Torino tutto lo impressionò positivamente: "la confidenza e la concordia tra governanti e governati... ; la attuale fusione ed intelligenza de' migliori fra la casta aristocratica co' migliori del terzo stato. Il Re - scriveva sempre al Bertini - favorisce simigliante concordia e sicuramente ama e favorisce il moderato progresso, ma non vuole che persona o popolo gli forzino la mano... Per me ti assicuro che se fossi piemontese seconderei in tutto e per tutto le attuali tendenze del governo e ti assicuro che essendo italiano non posso che desiderare che si calmino tutte le impazienti smanie e che ognuno intanto faccia quei passini che può su quella retta via colla fede di anime alla meta e colla speranza di arrivarvi presto, se Dio aiuterà". Dando notizia di aver assistito ad una parata militare aggiungeva d'aver fatto "un'oncia di sangue benigno a vedere tanta e così bella truppa" (ibid.). Datano insomma sicuramente da questo soggiorno torinese le simpatie filopiemontesi del F. destinate a diventare più tardi un convincimento impenetrabile ad ogni dubbio.

Ad Aosta, dov'era con il principe Bonaparte, ebbe notizia dell'elezione di Pio IX; tornato a Torino ebbe incontri ancora con l'Azeglio e Balbo, e dopo una sosta ad Acqui Terme si recò a Genova, dove partecipò all'ottavo congresso degli scienziati italiani ("un Parlamento di tutta la colta e viva nazione" ove si parlò "di progresso civile, di riforme, di libertà e di italiano reggimento": Lo Stato romano, I, p. 190); egli stesso vi fece un intervento sulla pellagra. Il F. riteneva esagerati l'entusiasmo e le dimostrazioni in favore di Pio IX fatte in patria (che riferite al Balbo diedero occasione a questo di indirizzare al F. le Lettere politiche al signor D., s.l. [ma Torino] 1847), ma questo evento servì a distoglierlo sempre più dalle cospirazioni, in favore di un programma moderato di collaborazione fra aristocrazia patriottica e borghesia, come scriveva in una lettera all'Azeglio pubblicata sulla Antologia italiana di G. Pomba (I, 2 [1847], marzo, pp. 145-168), prendendo lo spunto dagli studi di P. Litta sulla nobiltà. Il 12 maggio 1847 moriva il principe Bonaparte e il F., dopo un viaggio col figlio Domenico in Francia per Torino - ancora ospite del Balbo - Ginevra, Losanna (ove Gioberti gli fece dono di una copia del Gesuita moderno), poteva tornare a pieno tempo alla sua attività, assumendo la condotta medica di Osimo, dove si affermò anche come uno dei capi del liberalismo moderato della regione. Fra il '47 e il '48 tenne una fitta corrispondenza con gli esponenti più in vista dei patriottismo liberale piemontese, toscano, romano (Azeglio, L. Galeotti, G. P. Vieusseux, G. Pasolini, M. Minghetti), sostenendo la necessità di un riformismo graduale e riconoscendosi pienamente nel Programma per l'opinione nazionale italiana dell'Azeglio, insieme col quale auspicava la nascita di un partito nazionale liberalmoderato, contro il populismo di F. D. Guerrazzi. Il F. mostra di avversare tanto le "cospirazioni" ultra-liberali, quanto le mene dei reazionari e dei monarchici assolutisti, è preoccupato tanto della libertà della Chiesa quanto della libertà delle popolazioni dello Stato pontificio.

È in questo periodo che divenne più sistematica e vivace l'attività giornalistica del F., per più di un decennio strumento principale della sua partecipazione alla vita politica. Dopo la liberalizzazione della stampa nello Stato pontificio ispirò e appoggiò il giornale bolognese Il Romagnolo (30 sett. 1847-26 luglio 1848), nel quale sostenne il programma di riforme di Pio IX, indicato con Carlo Alberto e Leopoldo II modello ai principi "renitenti alle riforme italiane", come scriveva l'8 genn. 1848 (Epistolario, I, pp. 654, 782). Collaborò, con Diomede Pantaleoni, al settimanale di Ancona IlPiceno, giornale liberalcostituzionale ma senza pregiudiziali antirepubblicane. Più tardi collaborerà al giornale romano La Speranza d'Italia, espressione del liberalismo costituzionale romano fortemente critico verso il governo repubblicano, dal quale fu sospeso il 28 apr. 1849 poco prima della caduta della Repubblica.

Dopo la creazione della Consulta di Stato da parte di Pio IX, e la ventata statutaria ai primi del '48, il F. scrisse una serie di indirizzi ed appelli: ai Pari di Francia, alle donne osimane, ai popoli dello Stato della Chiesa, a Pio IX a nome dei cittadini anconetani (cfr. Epistolario, II, pp. 110 ss.) in cui traspare con vivacità il suo pensiero e il nuovo clima politico. Egli aspirava ormai a un ambiente più consono alle sue aspettative: Bologna o Roma. Il 27 marzo 1848 fu nominato sostituto, cioè segretario generale, al ministero dell'Interno, con il compito di procedere alla laicizzazione della burocrazia pontificia. Ne Lo Stato romano egli descriverà esattamente le difficoltà di riformare l'amministrazione statale, la resistenza degli impiegati al principio della "responsabilità" e della "pubblicità": "torri di inerzia contro le quali si rompeva ogni sforzo di volontà" (ibid., II, pp. 73 ss.).

Con l'allocuzione pontificia del 29 apr. 1848 che segnava la rottura fra Papato e politica risorgimentale nazionale, e mentre per conseguenza l'antitemporalismo si venava d'anticlericalismo, il F., credente, condivise il disagio dei cattolici patrioti; tuttavia per incarico del card. G. Antonelli accettò una missione presso il quartier generale di Carlo Alberto per sollecitare il re ad assumere il comando delle truppe pontificie. Per tutta la durata della missione (6-27 maggio '48) non cessò di scrivere lettere e appelli per la causa nazionale: fra cui uno diretto al governo provvisorio di Milano e ai popoli della Lombardia perché, superato ogni municipalismo, si rivolgessero alla causa nazionale: "Non siate più lombardi che italiani; non siate più liberali che nazionali... ; proclamate il Regno dell'Alta Italia" (Epistolario, II, pp. 257 ss.). Lasciato il quartier generale del re, rientrò a Roma. Nelle elezioni del 18 maggio per il Parlamento romano era stato eletto deputato del collegio di Faenza e Russi con 123 Voti su 129 votanti; inaugurati ai primi di giugno i lavori parlamentari, il F. vi partecipò attivamente, intervenendo nel dibattito sull'abolizione della pena di morte e per sostenere il programma della lega fra i principi italiani. Ancora sostituto al ministero dell'Interno nel ministero Mamiani e nella difficile situazione del governo costituzionale di fronte al papa, il F. presentò più volte le dimissioni, sempre respinte. Caduto il governo Mamiani (25 luglio '48), rifiutò l'incarico, a lui e a Pasolini offerto da Pio IX, di formare il nuovo governo. Costituito dall'effimero ministero Fabbri un commissariato di Stato per le Legazioni per mantenere l'ordine e organizzarvi la guardia civica dopo la partenza dei soldati austriaci, il F., designato a rappresentarvi il governo, vi ristabilì l'ordine rivelando l'abilità e l'energia che preannunciavano già il dittatore dell'Emilia del '59.

Tornato a Roma, fu nominato il 3 nov. '48 direttore generale della Sanità e delle carceri dal nuovo governo presieduto da Pellegrino Rossi, e conservò l'incarico anche dopo l'assassinio di questo (15 nov. '48). Proclamata la Repubblica Romana (9 febbr. '49), rifiutò di farvi adesione per "mantenere inviolato il santuario della coscienza, liberi i pensieri, liberi gli affetti, indipendente l'opinione", com'egli affermava; formatosi il triumvirato Mazzini, Armellini, Saffi, venne anzi destituito (2 apr. '49) dall' ufficio.

Rifugiatosi temporaneamente a Firenze presso amici toscani e romagnoli, iniziò qui a scrivere il saggio su Lo Stato romano. Caduta la Repubblica e tornato il 29 luglio '49 a Roma, non riottenne l'ufficio di direttore della Sanità, accusato di infedeltà al papa, sicché poco dopo ripartiva per Firenze e di qui, il 22 dicembre, a Torino col figlio Domenico che all'inizio del '50 era ammesso all'Accademia militare sarda. Torino diveniva per lui la patria: "un paradiso di libertà e di sicurezza", come scriveva il 3 genn. 1850 alla moglie; il Piemonte sabaudo "il solo membro sano del gangrenato corpo d'Italia", il re "così liberale, leale e italiano, come re nol fu mai" (Epistolario, III, p. 203). Naturalizzato sardo, per interessamento del d'Azeglio fu nominato membro del Consiglio superiore di Sanità.

A Torino il F. riprendeva il lavoro su Lo Stato romano, con documenti raccolti da lui e altri inviatigli da D. Pantaleoni, T. Mamiani, G. Pasolini, A. Rosmini, G. Durando e altri protagonisti del breve esperimento costituzionale romano: il primo volume, scritto in brevissimo tempo, uscì nel giugno del '50 a Firenze con una lettera dedicatoria a Cesare Balbo; a fine anno usciva, presso Le Monnier, il secondo volume; nel luglio '51 il terzo e nel dicembre '52 il quarto (sempre a Firenze), dedicato a W. E. Gladstone, che aveva tradotto e fatto conoscere l'opera in Inghilterra.

Nell'autunno del 1850 il F., che già aveva diretto La Frusta (27 marzo-30 nov. 1850), giornale di pieno appoggio al ministero d'Azeglio, anche se di modesta diffusione, accettò la redazione e la direzione de Il Risorgimento, in luogo di Cavour, divenuto ministro dell'Agricoltura, con uno stipendio di 2.000 lire annue. Al giornale, nella cui redazione egli si avvalse della collaborazione di esuli ed emigrati come R. Bonghi, T. Mamiani, D. Pantaleoni, V. Salvagnoli, sostenne il programma di un "liberalismo non gretto, non giacobino, ma largo, civile, nazionale" (Zama, p. 401), in sintonia con il governo d'Azeglio, ma con un atteggiamento più moderno, sensibile al disegno cavouriano di un rinnovamento della finanza pubblica e di un più deciso liberalismo economico, e incline a dare più ampio spazio agli enti locali nella gestione degli affari e degli interessi locali, contro l'accentramento statale. Il 21 ott. 1851 il F. venne chiamato a sostituire al ministero della Pubblica Istruzione il dimissionario Pietro Gioia; la nomina sollevò riserve e proteste dei piemontesisti di destra e di sinistra: Brofferio lo attaccò in quanto privo di precedenti esperienze politiche in Piemonte, né distintosi per "alti compiti" nello Stato romano; il F. si difese con nobiltà e calore. Presentando il 19 nov. 1851 il bilancio della Pubblica Istruzione annunciò vari provvedimenti per l'istruzione superiore impegnandosi a presentare un progetto organico di riforma della scuola. Intanto, dopo essere stato candidato senza esito nel collegio di Dogliani alle elezioni per la IV legislatura, fu eletto deputato in una elezione suppletiva del collegio di Varazze il 17 dic. 1851; verrà rieletto nelle elezioni della V legislatura per il collegio di Cigliano.

Nelle vicende del "connubio" il F. rimase, più che non Il Risorgimento, vicino alle posizioni cavouriane, il che provocò il disimpegno di Cavour dalla stessa gestione economica del giornale, ma anche l'esclusione dello stesso F. e di Cavour dal secondo ministero Azeglio. Il F. restò fuori anche dal ministero Cavour (che invece il giornale appoggiò: il che non impedì che poco dopo, il 31 dic. 1852, Il Risorgimento cessasse le pubblicazioni) costituitosi il 4 nov. 1852: Cavour tuttavia spiegò in una lettera le ragioni dell'esclusione chiedendo la sua collaborazione. Poco dopo il F. assumeva la direzione de Il Parlamento (2 genn. 1853-31 dic. 1854), interprete e sostenitore della politica cavouriana: difesa dello statuto, indipendenza reciproca e piena libertà di Stato e Chiesa, sviluppo economico e civile, rafforzamento militare del Piemonte. Il F. diresse anche, con la collaborazione di G. Massari, il giornale subentrato al Parlamento, cioè Il Piemonte (28 dic. 1854-31 marzo 1856), anch'esso decisamente filo-governativo.

Dalla doppia tribuna, del Parlamento e della stampa, intervenne nel 1855 in favore del prestito dei 30 milioni e dell'alleanza di Crimea: il Piemonte avrebbe in tal modo combattuto contro il fanatismo russo che minacciava "ogni libertà di religione e di coscienza" e avrebbe portato sui campi orientali "le forze d'uno Stato libero e fermo nella sua libertà..., la riputazione e la forza di uno Stato italiano costituito..., un simbolo nazionale costituente"; nel 1857 si espresse in favore del rafforzamento delle fortezze militari. Sul problema dei rapporti Stato-Chiesa sostenne la politica di laicizzazione dello Stato, ma suggerendo al Cavour stesso una linea schiettamente liberale, senza inasprire il conflitto con il clero; nel 1854 scrisse una lettera al card. L. Amat perché facesse sapere a Pio IX ch'egli era come nel '48 "italiano e liberale, ma sincero cattolico e sincero promotore della libertà della Chiesa" (Epistolario, IV, pp. 99-102). Sulla stampa e in Parlamento sostenne il principio della libertà d'insegnamento e nella seduta del 17 genn. 1857 concordò con D. Berti e Cavour un odg sul progetto di legge Lanza sulla scuola orientato in tal senso. Il 14 apr. 1858, nel dibattito per la legge sulla stampa dopo l'attentato Orsini a Napoleone III, sostenne la necessità dell'alleanza con la Francia e difese la legge affermando ch'essa puniva l'apologia dell'assassinio politico e non colpiva i principi di libertà: "La nostra libertà è una perenne cospirazione molto più efficace di quella delle sette" (Atti del Parlamento subalpino, Camera dei deputati, Discussioni, VI, 1, p. 1189). Dall'inizio del '59 l'attività pubblicistica e politica del F. divenne frenetica, mettendo a prova la sua salute. Oltre alla collaborazione alla nuova serie de Il Risorgimento, inviò corrispondenze alla Presse, alla Continental Review e alla Morning Post; si rivolse con lettere aperte ai più autorevoli uomini politici inglesi a sostegno della politica di Cavour e del Piemonte.

Fra questi scritti rientrano le due brochures intitolate La diplomazia e la questione italiana. Lettera al signor G. Gladstone, Torino 1856, e La questione italiana. Lettera del 19 febbr. 1859 a lord John Russel, Torino 1859, ambedue riedite insieme con altri scritti e alcuni discorsi parlamentari nella raccolta Lettres sur les affaires d'Italie, Paris 1860. L'intento del F. era quello d'illustrare la questione italiana mostrando la necessità di favorire il partito liberale nazionale rappresentato da Cavour, e presentando invece la politica mazziniana come fonte di discordia e alimentatrice di congiure; duramente criticato anche il potere temporale, causa insieme di congiure e di interventi stranieri. La penna e l'oratoria vulcaniche del F. e la sua apologia di Cavour sollevarono talora malumori da parte dei politici più legati alla tradizione sabaudista: il conte 0. Revel additava ad esempio il Mamiani e il F. come "eloquenti oratori che non ebbero i loro natali in questo stato, ma che da qualche anno vi conseguono cittadinanza, onori e favori"; essi "sorgono a parlare e si sbracciano a vituperare gli atti di un passato che male conoscono e peggio apprezzano, quasiché per far brillare di più viva luce il quadro del presente, fosse necessario di oscurare con mezzi colori quello del passato".

Redattore del discorso della Corona con il quale si aprì la sessione parlamentare del 1859 - il discorso del "grido di dolore" - il F. incoraggiò il programma della Società nazionale e l'afflusso di volontari in Piemonte. Suo fu anche il proclama del re per la guerra all'Austria. Iniziata la guerra fu preposto da Cavour alla Direzione generale delle province annesse, costituita - senza esser resa nota pubblicamente - per l'amministrazione delle regioni che secondo il trattato con la Francia sarebbero passate sotto la sovranità piemontese; il 17 giugno era però nominato governatore delle province modenesi. Richiamati dopo Villafranca i governatori delle province parmensi e modenesi, il F., che il 13 luglio aveva dato le dimissioni, si rifiutò di rientrare a Torino e il giorno successivo indiceva le elezioni per un'Assemblea costituente che avrebbe dovuto decidere la sorte di quelle popolazioni secondo i nuovi accordi di Villafranca, e il 28 luglio accettò l'invito del Municipio di Modena di restarvi come dittatore. "Terrò il potere con dignità, perché io rappresento la dignità di tutti voi liberi cittadini: sarò sempre moderato, non molle; giusto ma inesorabile" proclamò il F., che iniziava in tal modo una sua personalissima politica nei Ducati per portarli alla piena unione con il Piemonte. Il 23 ag. 1859 l'Assemblea nazionale delle Province modenesi, che il 21 aveva votato l'unione al Piemonte, confermò la dittatura al F.; nei giorni precedenti anche le Province parmensi, che pure avevano votato l'annessione al Piemonte, avevano offerto la dittatura al F., che l'aveva accettata il 18 agosto.

Con mano ferma e con una passionalità un po' tribunizia - "duca di Modena" lo chiamava il Massari, mentre L. Zini e A. Brofferio lo criticavano per il suo atteggiamento di "dittatore pomposo" - il F. respinse ogni ipotesi di restaurazione ducale condannando duramente la politica di Francesco V, allontanò i gesuiti dal territorio degli antichi Ducati e vi estese le leggi Siccardi: "tra un mese non ci sarà più traccia del vecchio", scriveva l'11 sett. 1859 al Rattazzi (Epistolario, IV, p. 311). Il 9 novembre assumeva anche la dittatura delle Romagne a Bologna (dove l'11 e il 12 novembre aveva un duro scontro con Garibaldi intenzionato ad avanzare nello Stato pontificio): anche in quelle province estese la legislazione piemontese, abolì la censura, allontanò i gesuiti, destituì i professori della facoltà di teologia dell'università di Bologna dotandola di nuove cattedre, decretò la pubblicazione delle opere di Pellegrino Rossi e l'erezione di una statua in suo onore.

Il 30 nov. 1859 fece pubblicare il decreto che unificava, a datare dall'8 dicembre, le province parmensi, modenesi e delle Romagne, che il 25 dicembre assunsero il nome di Provincie dell'Emilia; il 30 novembre il F. scriveva a M. Castelli: "Ho fatto il colpo. Ho cacciati giù i campanili e costituito un governo solo. Ad anno nuovo da Piacenza alla Cattolica tutte le leggi, i regolamenti, i nomi ed anche gli spropositi saranno piemontesi" (Epistolario, IV, pp. 334 s.).

La prova di energia che aveva dato in quei mesi suscitò ampi consensi negli ambienti monarchici e moderati. Con la costituzione del nuovo ministero Cavour il 21 genn. 1860 il F. era designato ministro dell'Interno. Sua prima preoccupazione, anche perché nel gennaio Pio IX aveva ribadito i diritti di sovranità sulle Romagne e l'intangibilità del potere temporale, fu di indire i plebisciti per le annessioni, superando il parere contrario di B. Ricasoli. Votata l'annessione l'11 e il 12 marzo, portò a Torino i risultati della votazione per l'annessione delle Province dell'Emilia, presentandoli il 18 marzo con un discorso prima a Cavour e poi a palazzo reale; oltre alle cittadinanze onorarie conferitegli in Emilia e ad altri onori accolti con compiacimento, ebbe dal re, in questa occasione, il collare dell'Annunziata. Il 24 marzo 1860 assumeva frattanto le funzioni di ministro e uno dei suoi primi atti fu la firma, dopo Cavour, della cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Nelle elezioni generali per i deputati delle antiche e delle nuove province, il 25 marzo - i moderati avevano presentato la candidatura degli uomini più in vista del partito in più collegi, per contrastare gli esponenti della Sinistra che si presentavano agguerriti - il F. fu eletto in 8 collegi: Cigliano, Modena I, Parma I, Milano IV (dove aveva come avversario Giuseppe Ferrari), Torino VI (dove sconfisse C. Solaro della Margherita con 201 voti a 14), Ravenna e Russi, Cesena, Faenza: egli optò per il suo antico collegio di Cigliano. Autore del discorso della Corona anche per l'apertura della VII legislatura, il 2 apr. 1860, il 12 dovette replicare all'interpellanza Garibaldi sulla cessione di Nizza e Savoia, ribadendo la costituzionalità dell'atto e della procedura; sulla cessione intervenne ancora il 25 maggio in polemica col Guerrazzi e il 28 maggio quando la Camera approvò il trattato.

Nel discorso della Corona, rivisto del resto da Cavour, aveva posto in bocca al re espressioni calorose in difesa dei principi di libertà, di indipendenza dalla Chiesa, pur nell'ossequio alla religione e al pontefice, e un chiaro impegno a porre mano al nuovo ordinamento dello Stato. Intervenendo in un dibattito alla Camera nel quale deputati della Sinistra avevano posto il problema del decentramento e delle autonomie locali, il 13 giugno il F. rispose a nome di Cavour, pronunciandosi in favore di un rispettoso processo di unificazione ("Noi siamo unificatori giudiziosi, non violenti conquistatori"). Egli aveva infatti già presentato un disegno di legge per l'istituzione di una commissione temporanea di studio presso il Consiglio di Stato per la preparazione di progetti di legge per l'ordinamento amministrativo del nuovo Regno: "un ordinamento amministrativo - affermava il F. - pel quale si accordino le ragioni dell'unità e della forte autorità politica dello stato colle libertà dei comuni, delle province e dei consorzi; libertà che deve prendere il posto delle vecchie autonomie politiche spente per sempre, e bene usare in vantaggio dello stato tutti i benefizi dell'istruzione patria e del costume antico, tutte le virtù e tutti gli esiti della civiltà moderna". La commissione fu istituita con legge 24 giugno 1 860 e i suoi lavori (protrattisi dal 13 ag. 1860 al 4 marzo 1861, quando il ministero dell'Interno era stato già assunto da Minghetti) furono inaugurati con una Nota del F. che illustrava i principi e le linee generali della riforma amministrativa dello Stato.

Il programma del F. sull'ordinamento amministrativo e sulle regioni è senz'altro la parte più originale e importante della sua opera di politico. Egli vi esponeva l'esigenza di chiarire i rapporti fra Stato e società, fra potere statale e poteri locali che la legge Rattazzi del '59 aveva fatto pendere in favore dello Stato mortificando i poteri locali. Egli avrebbe voluto favorire le libertà e lo spirito di iniziativa locali allentando il peso e i vincoli della burocrazia centrale dello Stato; rendere "più spedita e facile l'amministrazione", sottrarre il governo a "pretensioni indiscrete" e alle pressioni degli interessi particolari che dovevano essere lasciati alla gestione degli enti locali, consentire al Parlamento di badare ai fini generali dello stato formulando i "grandi giudizi politici". Il F. rilanciava l'istituto della provincia, composta di due corpi: uno deliberante, il consiglio provinciale, e uno esecutivo, la deputazione provinciale. Al disopra delle province la regione, che la maggior parte della commissione intese come circoscrizione territoriale, come divisione amministrativa dello Stato, presieduta da un governatore, mentre il F. intendeva verosimilmente come corpo morale, come ente con un proprio organo deliberante elettivo e con competenza su quelle materie di cui l'amministrazione statale poteva liberarsi senza pregiudizio "per l'unità e la forza dello Stato".

Come ministro dell'Interno il F. ebbe contatti con F. Crispi che preparava la spedizione di Sicilia e la favorì; quando l'impresa di Garibaldi nel Sud consigliò l'intervento dell'esercito regio, il F., che insieme col gen. E. Cialdini aveva avuto un incontro a Chambéry con Napoleone III ottenendo se non l'assenso la tolleranza all'impresa, fu designato da Cavour ad accompagnare il re attraverso le Marche verso il Napoletano. Lasciata il 2 ott. 1860 a G. B. Cassinis, ministro della Giustizia, la reggenza del ministero dell'Interno (affidato il 31 ottobre al Minghetti), raggiunse il re che muoveva con l'esercito di Cialdini, frenandone con fermezza gli impulsi e suggerendo prudenza, in una collaborazione che anche a un altro uomo di Cavour vicino al re, Emilio Visconti Venosta, sembrava pesante. Entrati i Piemontesi a Napoli (il 24 ottobre avveniva l'incontro con Garibaldi a Teano), il 6 novembre il F. era nominato luogotenente generale delle province napoletane.

La scelta del F. a guidare una situazione così delicata e difficile come quella napoletana fu certamente suggerita, oltre che dalla carica ch'egli rivestiva sin'allora di ministro dell'Interno, dalla brillante esperienza con la quale aveva operato in Emilia dopo Villafranca e dal fatto di non esser per nulla compromesso col mondo napoletano. Ciò gli dava "un'autorità che ben difficilmente altri avrebbe potuto rivendicare di fronte all'opinione liberal moderata del settentrione" (Passerin d'Entrèves, L'ultima battaglia, p. 501). Ma nella difficile situazione napoletana, caratterizzata dai contrasti fra garibaldini ed esercito regio, da scontri fra i vari partiti, la sua azione divenne incerta. Isolato fra le correnti "ugualmente avverse" dei municipalisti, fossero o meno filoborbonici, e dei garibaldini, anticavouriani, egli si appoggiò al partito degli emigrati, cioè dei liberali meridionali reduci dal Piemonte (come A. Scialoja, P. S. Mancini, R. Bonghi, G. Massari che egli chiamò a far parte del Consiglio di luogotenenza), ma senza troppo successo. Le proposte di autonomia amministrativa fatte dal F. in coerenza con il suo progetto di decentramento, mentre non soddisfacevano gli autonomisti, apparivano pericolose agli emigrati, in quanto avrebbero favorito le tendenze municipali e le tendenze separatiste, sopravvalutate, dei "murattiani".

Il F. si sentiva sommerso dai problemi, dai contrasti, dal numero e dall'insistenza dei postulanti. Pur adottando alcuni provvedimenti, come l'estensione alle province napoletane della legge elettorale piemontese, la creazione di una giunta consultiva di Finanza e della Consulta di Stato, era restio a prendere decisioni e aspettava la riunione del Parlamento perché fosse esso a decidere e nel contempo per avere più ampi consensi alla propria opera. Si lamentava con Minghetti della propria impotenza: "Ho trecento carabinieri e trentamila ladri...; ho distretti interi in balia dei briganti e non ho soldati da mandarci, ho centomila postulanti d'intorno, i garibaldini che ringhiano... e credete che io ora possa speculare la perfezione delle leggi civili e la euritmia della annessione"? (La liberazione del Mezzogiorno, III, pp. 325-328). Anche a Cavour scriveva che se avesse avuto più mezzi - soldi e uomini capaci - avrebbe tentato una rivoluzione sociale, iniziando una politica di lavori pubblici, favorendo "ogni sorta di operosità, usando ogni artificio stimolativo, creando nuovi interessi, dando un altro indirizzo alla cupidità" (ibid., IV, pp. 22 s.). Ma altri consiglieri e lo stesso Cavour esigevano piuttosto più energia contro gli avversari, municipalisti e garibaldini; accentuandosi le difficoltà e diventato più precario il suo stato di salute, a metà dicembre Cavour gli scriveva: "Per carità non lasciatevi abbattere. Curatevi, ristabilitevi e andate avanti senza troppa inquietudine ... Fate alcuni atti che indichino chiaro che si vuole unificare l'Italia, che a patto nessuno non si vuole transigere coi municipali, gli autonomisti ..." (ibid., IV, pp. 67-68).Malato, scosso per la morte del genero e segretario F. Riccardi (22 dic. 1860), il 2 genn. 1861 era dispensato a domanda dall'ufficio di luogotenente; in sua vece fu nominato il principe Eugenio di Savoia. Cavour avrebbe detto poco dopo che l'errore del F. era stato quello d'aver trattenuto troppo il re a Napoli, il che sminuiva la sua autorità; anche la presenza di molti ufficiali piemontesi che secondo E. Visconti Venosta mostravano di pensare "che l'aver guadagnata mezza Italia [era] una seccatura e una noia" aveva condizionato la sua opera (Passerin d'Entrèves, L'ultima battaglia, p. 508).

11 7 genn. 1861 lasciava Napoli e un mese dopo era a Genova e poi a Saluggia. Nelle elezioni per l'VIII legislatura venne eletto, oltre che nel solito collegio di Cigliano, nei collegi di Chieti e Crescentino. Pregato da Cavour, scrisse ancora il discorso della Corona per l'apertura del Parlamento italiano "4 faremo l'Italia degli italiani") e fu presente alla Camera il 13 marzo 1861 per la risposta al discorso della Corona. Dopo la morte di Cavour, scosso ulteriormente nella salute, fece in Parlamento solo qualche intervento. Dopo Aspromonte e la caduta del ministero Rattazzi fu chiamato a presiedere il nuovo ministero, costituito l'8 dic. 1862 soprattutto per iniziativa di G. Pasolini, che vi assumeva il ministero degli Esteri, e del presidente della Camera G. B. Cassinis. Il F. si apprestò a leggere il discorso di presentazione "consunto, emaciato, cadente..., insicura e fioca la voce" (Moscati, I ministri, p. 292). Il 22 marzo 1863, ormai quasi incosciente, era sostituito alla presidenza da Minghetti.

Gli ultimi anni di vita si protrassero fra dolori familiari (il 17 apr. 1864 era morta di parto la figlia Ada, sposatasi in seconde nozze) e il suo progressivo declino mentale; nel delirio degli ultimi tempi gli ricomparivano alla mente i grandi eventi del Risorgimento: non con la serenità degli ultimi istanti del Cavour, bensì con fantastiche allucinazioni che lo straordinario dispendio d'energie fisiche e mentali degli ultimi anni e le difficoltà più recenti avevano propiziato. Si spense a Quarto di Genova, trasferitovi per un ultimo tentativo di miglioramento, il 1º ag. 1866. Morto povero, la Camera dei deputati assegnò alla vedova una pensione annua e un assegno per i servizi resi dal F. alla patria.

Medico e studioso di problemi di medicina, giornalista, uomo politico, storico, il F. ha lasciato numerosi scritti. Oltre ai contributi scientifici già ricordati sulle febbri malariche, non pochi sono i saggi giovanili di epidemiologia e sulla terapia della malaria (cfr. R. Guerreri, Pubblicazioni scientifiche della Società medica chirurgica di Bologna dal 1823 al 1923, in Primo centenario della Soc. medica chirurgica di Bologna, Bologna 1924, p. 13-401, 431, 486), sulla pellagra (cfr. L. Messedaglia, 1914-15), sul problema sanitario come problema sociale (cfr. G. L. Masetti Zannini, 1959), saggi che hanno attirato a più riprese l'attenzione degli studiosi. L'attività giornalistica del F., vivace scrittore politico, solo parzialmente è stata studiata, anche per la mancanza, ad eccezione della ricordata silloge di Lettres sur les affaires d'Italie (sulla quale cfr. Manzotti, Il problema italiano nelle corrispondenze di L. C. F. sulla "Presse", 1959), di una raccolta completa o di un indice dei suoi articoli, sparsi in molti giornali e periodici.

Delle sue opere storiche (sulle quali ha dato ampi giudizi W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, pp. 221-252), oltre al già ricordato Lo Stato romano dall'anno 1815 all'anno 1850, in 4 voll. (Firenze 1850-1853; Torino 1850-1853; trad. inglese di W. E. Gladstone: The Roman State from 1815 to 1850, 4 voll., London 1851-1854), è da ricordare la Storia d'Italia dall'anno 1814 sino ai nostri giorni (2 Voll., Torino 1854-59). Concepita nel 1853 come una grande opera in 10 volumi in continuazione della Storia d'Italia dal 1789 al 1814 del Botta e ad emulazione del Balbo, morto il 3 giugno di quell'anno, la narrazione si fermò alla morte di Pio VII nel 1823. Seguace della Scuola moderata - Lo Stato romano è dedicato, come s , e detto, al Balbo; il primo vol. della Storia d'Italia all'Azeglio, il secondo al Capponi - esponente rappresentativo del liberalismo cavouriano con venature cattolico liberali, i suoi scritti storici sono piuttosto opera politica senza assurgere a dignità scientifica. Ne Lo Stato romano sottolinea il disordine del governo pontificio dopo la Restaurazione, i vantaggi delle riforme di Pio IX e della laicizzazione dell'amministrazione statale avviata dai governi laici dopo l'esperimento costituzionale del '48 e la politica del Mamiani; critico dell'esperienza della Repubblica Romana e della politica del Triunivirato, riconosce però a Mazzini - che pure giudica più un fanatico apostolo religioso che un rinnovatore sociale e politico - di aver appoggiato Carlo Alberto nella ripresa della guerra all'Austria nel '49. Nonostante la sua avversione per le sette e la simpatia per Pio IX, la sua opera fu fortemente criticata dalla pubblicistica cattolico-clericale: G. Spada scrisse la sua Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del governo pontificio (1846-1849) (3 voll., Firenze 1862-69) in esplicita polemica col Farini. Nella Storia d'Italia, per la quale si avvalse di documenti dell'Archivio di Stato di Torino messigli a disposizione con larghezza dall'Azeglio e da Cavour, il F. interpreta la storia d'Italia dal Settecento alla Restaurazione come preludio al Risorgimento, ed esalta i meriti dello Stato sabaudo, che con le sue istituzioni e la politica liberale dei suoi uomini politici costituisce la forza morale e lo strumento materiale per il compimento di esso. Sarebbe inesatto ridurre il F. politico a ombra di Cavour e la sua adesione piena alla politica sabauda a cieco piemontesismo. L'attenzione ai problemi dell'organizzazione del nuovo Stato e i progetti di ordinamento amministrativo e regionale da lui elaborati (e sui quali offrono materiali e analisi i lavori di C. Pavone, di G. Astuti, di A. Porro) gli danno veste di vero uomo di Stato.

Fonti e Bibl.: Tra le fonti edite, in primo luogo gli atti del Consiglio dei deputati dello Stato romano (in Le Assemblee del Risorgimento. Roma, I, Roma 1911, pp. 19, 21, 34, 42 ss., 46, 51, 87, 89 s., 114 s., 135 s., 156, 163 s., 367, 382 ss., 405 s., 532 s., 546, 564, 598, 679, 685-688, 769, 774 ss.), che testimoniano la sua già ricordata prima attività parlamentare; gli interventi al Parlamento piemontese, in Atti del Parlamento subalpino. Camera dei Deputati: Discussioni, e al Parlamento italiano in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, ad annos (non c'è infatti una raccolta dei discorsi parlamentari del Farini). Cospicua invece la corrispondenza ufficiale, inframezzata da lettere private, edita soprattutto nei carteggi cavouriani, e in particolare nei Carteggi Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, I-IV, Bologna 1926-29; La questione romana negli anni 1860-61, I-II, Bologna 1929; La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia. Carteggi di C. Cavour con Villamarina, Scialoja, Cordova, F. ..., I-V, Bologna 1949-1954 (soprattutto i voll. III-IV contenenti il carteggio con Cavour durante la spedizione nelle Marche a fianco del re e durante la difficile luogotenenza di Napoli): la documentazione relativa al F. nel vol. dell'Indice generale dei primi quindici volumi (1926-1954), a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, pp. 72 ss.

Cospicuo il corpus di lettere private (anche queste però inframmezzate spesso di corrispondenze ufficiali) del F., iniziato da F. Miserocchi, Lettere di L. C. F. con una introduzione di A. Borgognoni, Ravenna 1878; altre lettere e notizie in C. Salsotto, Lettere inedite di C. Cavour, M. Minghetti, C. Correnti, L. C. F. ed altri a Francesco Guglianetti, in Il Risorgimento italiano, III (1910), pp. 644-693; L. C. Bollea, Come fu compilato l'epistolario di L. C. F. (La rivendicazione postuma dell'onore di un onesto), in Boll. stor-bibliogr. subalpino, XVII (1912), pp. 63-89; Id., Tre lettere inedite di L. C. F.: 1858-1860, in IlRisorgimento italiano, VIII (1915), pp. 212-221; L. Rava, Antonio Panizzi a L. C. F. dittatore dell'Emilia. Lettere, ibid., VI (1913), pp. 489-517. La raccolta sinora più ampia di lettere è l'Epistolario di L. C. Farini... con lettere inedite di uomini illustri al F. e documenti, a cura di L. Rava, I-IV, Bologna 1911-1935. Altre lettere sono state edite nella rivista Il Risorgimento e L. C. Farini da G. Maioli, Lettere di L. C. F. e di F. Canuti, I (1959), pp. 65-74; G. Zama, Aggiunte all'Epistolario di L. C. Farini, pp. 75-88, 173-187; L. Franzoni Gamberini, Ancoradue lettere inedite di L. C. F., pp. 89-95; A. Mambelli, Lettere inedite di L. C. F. nella Biblioteca Piancastelli, pp. 97- 112; A. Grilli, L. C. F. nelle sue lettere inedite custodite nell'Autografoteca Bastogi di Livorno, pp. 295-309.

Un'ampia ricognizione delle fonti archivistiche sull'attività del F. negli anni 1859-60 conservate negli Archivi di Stato di Torino, Modena, Parma e Bologna si trova nei volumi de Gli archivi dei governi provvisori e straordinari 1859-1861, I, Lombardia, Province parmensi, Province modenesi. Inventario, Roma 1961, specialmente pp. 261 ss., e II, Romagne, Provincie dell'Emilia, Roma 1961. In questo secondo vol. è una breve Notizia sulle carte Farini (pp. 369-377) conservate in altre sedi: nel Museo centrale del Risorgimento a Roma (cfr. anche E. Morelli, I fondi archivistici del Museo centrale del Risorgimento. XXXI. Le carte di L. C. F. dittatore dell'Emilia, in Rassegna storica del Risorgimento, IV [1968], pp. 465 ss.); nel fondo L. Rava della Biblioteca Classense a Ravenna (sul quale cfr. Bibl. comunale Classense, G. Cortesi, Inventario delle carte Farini, Ravenna 1960); nella Miscellanea Farini di Casa Traversari sempre a Ravenna; nella Biblioteca Piancastelli di Forlì (125 lettere inedite su cui cfr. A. Mambelli, Lettere inedite di L. C. F. nella Biblioteca Piancastelli, in Il Risorgimento e L. C. Farini, I [1959], pp. 97-112) e nell'Archivio centrale dello Stato a Roma, su cui cfr. anche Guida generale degli Archivi di Stato italiani, I, Roma 1981, p. 250. Delle carte della luogotenenza del F. a Napoli nel 1860 non esiste un inventario specifico, ma solo notizie sugli archivi degli uffici e delle magistrature di quel periodo nel vol. III della cit. Guida generale degli Archivi di Stato italiani, Roma 1986, pp. 58 ss.

Documenti e testimonianze, fra l'altro, in: Atti dell'Ottava Riunione degli scienziati italiani tenuta in Genova dal 19 al 29 sett. 1846, Genova 1847; M. Minghetti, I miei ricordi, 3 voll., Torino 1888-1890, ad Indices; G. Finali, Memorie, con intr. e note di G. Maioli, Faenza 1955, pp. 246 ss.; G. Massari, Il diario delle cento voci (1858-1860), a cura di E. Morelli, Bologna 1959, ad Indicem.

Un'ampia, ma non completa bibliografia sul F. in G. Talamo, I liberali e i moderati dalla Restaurazione all'Unità, in Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A. M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 208-209.

Biografie, commemorazioni e studi sino allabiografia di Zama: V. Bersezio, L. C. F., Torino 1860 e Napoli 1861; S. Gherardi, Sui meriti scientifici del dott. L. C. F. con menzione de' suoi meriti politici, Torino 1863; L. Frapolli, L. C. F. Quadri storici degli ultimi anni dettati dall'autore di "Una voce", Torino 1864; A. Mauri, L. C. F., in Nuova Antologia, agosto 1866, pp. 607-627; settembre 1866, pp. 5-39 poi in Id., L. C. F. Commemorazione, Firenze 1866, e in Id., Scritti biografici, (n. ed., Firenze 1894, II, pp. 1-83); A. Marescalchi Matteuzzi, L. C. F. (1812-1866), Roma 1877; E. Parri, L. C. F. Commemorazione, Roma 1878; G. Badiali, L. C. F., Ravenna 1878; F. Borgatti, L. C. F., Ravenna 1878; Articoli e notizie su L. C. F. del Fanfulla", del "Ravennate", della "Patria" di Bologna, del "Dovere" di Roma, Ravenna 1878; G. Finali, Ricordi della vita di L. C. F., Roma 1878; T. Sarti, I rappresentanti del Piemonte e d'Italia nelle tredici legislature del Regno, Roma 1880, pp. 380 s.; Inaugurazione di un ricordo marmoreo a L. C. F. in Saluggia, Vercelli 1894; G. Sifingardi, L. C. F. a Modena nel 1859, Modena 1894; G. Finali, La vita politica di contemporanei illustri, Torino 1895, pp. 251-323; R. De Cesare, La fine di un regno, Milano 1969, pp. 357, 903, 931, 953, 956, 967); L. Rava, Manfredo Fanti, Garibaldi e L. C. F. (Lettere e documenti inediti), in Nuova Antologia, il sett. 1903, pp. 127-148; T. Casini, L. C. F., in Id., Ritratti e studi moderni, Roma 1914, pp. 283-332; T. Palamenghi Crispi, L. C. F. rivoluzionario, in Il Risorgimento italiano, VII (1914), pp. 641 ss.; L. Rava, L'imperatrice Eugenia, Felice Orsini, il dott. Conneau e L. C. F., in Rivista d'Italia, 15 apr. 1925, pp. 529 ss.; Id., Lettere di Crispi a Fabrizi e L. C. F. nella preparazione per la spedizione dei Mille, in Rass. stor. del Risorg., XVIII (1931), Suppl. al fasc. 1 (Atti del Congresso sociale di Palermo), pp. 360 ss.; L. Rava, L. C. F., in Dizionario del Risorgimento nazionale, Milano 1933, pp. 41 ss.; Enciclopedia biografica e bibliografica "italiana", F. Ercole, Gli uomini politici, II, pp. 92-95; G. Maioli, Il giornale bolognese "L'Italiano" (1847-1848), in Giornalismo, III (1941), 4, pp. 43-55; E. Viviani Della Robbia-P. J. Bertini Rigacci, Luci e ombre dell'Ottocento, Firenze 1949, passim; F. Fonzi, I giornali romani del 1849, in Arch. della Soc. romana di storia patria, s. 3, III (1949), pp. 97-120; L. Rava, L. C. F., in Encicl. Ital., XIV, Roma 1951, pp. 813 s.; P. Zama, Il "manifesto" di L. C. F. e i moti romagnoli del 1845, in Studi romagnoli, II (1951), pp. 363-387; IV (1953), pp. 285-299; A. Moscati, Iministri del Piemonte dopo Novara (1849-1860), Salerno 1952, pp. 271-294; R. Moscati, La fine del Regno di Napoli. Documenti borbonici del 1859-60, Firenze 1960, p. 133; F. Manzotti, Il problema italiano nelle corrispondenze di L. C. F. sulla Presse, sulla Morning Post e sulla Continental Review (1857-1859), in Rass. stor. del Risorg., XI-VI (1959), pp. 45-60; P. Zama, Aurelio Saffi e L. C. F. nei consensi e nei dissensi, in Atti e mem. della Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, n. s., XII (1960-1963), pp. 57-72.

Sull'influenza dello zio Domenico Antonio Farini e l'ambiente delle Romagne all'inizio dell'Ottocento, oltre alla biografia del nipote cfr. L. Rava, Il maestro di un dittatore (D. A. Farini), Roma 1899; Id., La Romagna dal 1796 al 1828, Roma 1899, pp. 96, 138-140, 147, 149, 154, 162-164, 170, 175-176, 181.

Studi sul F., medico e cultore di studi medici: A. Messea, Tre patrioti medici, Giovanni Lanza, L. C. F., Agostino Bertani, Casale 1900; G. Faldella, Medici della patria, Torino 1911, pp. 53-202; L. Messedaglia, Per la memoria di L. C. F. medico. Una lettera del F. sopra i sistemi medici oltremontani, in Il Movimento sanitario, II (1913), 5, pp. 45 ss.; Id., L. C. F. medico nel suo carteggio ela medicina italiana del suo tempo, in Atti e mem.dell'Acc. di scienze, lettere ed arti di Verona, s. 4, XII (1911), pp. 307-398; Id., La giovinezza di un dittatore: L. C. F. medico, con introd. di L. Rava, Roma 1914; Id., Uno scritto inedito di L. C. F. sulla pellagra, in Atti e mem . del R. Ist. veneto di scienze, lettere e arti, LXXIV (1914-15), 2, pp. 1339 ss.

Il vol. di P. Zama, L. C. F. nel Risorgimento italiano, pref. di G. Martino, Faenza 1962, è la più ampia e aggiornata biografia del F., pubblicata dapprima in capitoli separati nella rivista Il Risorgimento e L. C. Farini; altri articoli comparsi sulla rivista nelle tre annate edite (1959-1961) hanno contribuito a mettere ulteriormente in rilievo la personalità del F. medico, scienziato, storico, politico; ricordiamo i seguenti: G. L. Masetti Zanini, L. C. F. e le risaie del Ravennate, I (1959), pp. 19-54; L. Montanari, Iconti Rasponi e L. C. F., ibid., pp. 55-64; A. Morselli, L. C. F. "cittadino modenese", ibid., pp. 165-172; G. L. Masetti Zanini, L. C. F. e Francesco Lovatelli, ibid., pp. 311-328; F. Manzotti, L. C. F. a Modena, ibid., pp. 419-421; E. Nasalli Rocca, La concessione dei patriziati di Reggio Emilia e Modena a L. C. F., ibid., II (1960), pp. 41-47; P. Zama, L'azione politica di L. C. F., ibid., pp. 101-110; G. Forni, L. C. F. medico, ibid., pp. 111-120; F. Manzotti, Il progetto Farini-Minghetti sulle regioni e le osservazioni di L. Carbonieri, ibid., pp. 121-149; Fr. Di Pretoro, L. C. F. e la sua attività legislativa nel campo degli studi storici, filologici e danteschi: 1859-1860, ibid., pp. 166-176; E. Passerin d'Entrèves, Piemonte e Romagna nel 1859-60, ibid., pp. 209-225; G. Martino, L. C. F. medico e scienziato, ibid., pp. 296-315; L. Montanari, Istruzioni segrete di L. C. F. ai capi di provincia nel maggio 1848, ibid., III (1961), pp. 3-7; A. Torre, Le condizioni delle province napoletane nel 1860, ibid., I, pp. 3-18, 273-293; III, pp. 117-138, 351-377; G. Maioli, L. C. F. storico, ibid., III, pp. 229-235.

Sugli anni più intensi dell'attività del F. - la collaborazione con il Cavour, l'organizzazione delle Provincie dell'Emilia e l'annessione al Piemonte, il progetto sull'ordinamento regionale, la luogotenenza di Napoli - altri studi più recenti sono: A. Saladino, L'estrema difesa del Regno delle Due Sicilie, , Napoli 1960, p. 99; R. Villari, La liberazione del Mezzogiorno e l'Unità nazionale, in Id., Mezzogiorno e contadini nell'età moderna, Bari 1961, pp. 241-279; C. Pischedda, La crisi del connubio Cavour-Rattazzi, in Rass. stor. del Risorg., XLVIII (1961), pp. 681-701; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino 1962, pp. 221-252; R. Romeo, Dal Piemonte sabaudo all'Italia liberale, Torino 1963, pp. 124, 146, 225, 229, 242 ss.; C. Pischedda, Problemi dell'unificazione italiana, Modena 1963, ad Indicem (e particolarmente pp. 160-163, 179, 202-204, ecc.); A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione, 1860-1861, Milano 1963, spec. pp. 81-140; Storia del Parlamento italiano, diretta da N. Rodolico, I, Le assemblee elettive del '48, a cura di G. Sardo, Palermo 1963, passim; III, Dall'ingresso di Cavour al governo alla crisi Calabiana, ibid. 1965, passim; IV, Dalla crisi Calabiana alle annessioni, ibid. 1966, passim, in particolare pp. 241 ss., 344, 348, 350, 355 ss., 391 ss., 401 ss.; V, Dalla proclamazione del Regno alla convenzione di settembre, ibid. 1966, passim; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964 (con documenti), ad Indicem; P. Tournon, La fine de Il Risorgimento, in Miscellanea cavouriana, Torino 1964, pp. 95-123; P . Villani, La questione meridionale e la politica italiana dal 1860 al 1863, in Critica storica, 1964, pp. 728-743; E. Passerin d'Entrèves, L'ultima battaglia politica di Cavour, Torino 1965, ad Indicem e spec. pp. 101-159; R. Comandini, L. C. F. medico condotto e traduttore di S. Agostino, in Rass. stor. del Risorg., LII (1965), pp. 531-556; I. Zanni Rosiello, L'unificazione politica e amministrativa delle provincie dell'Emilia, Milano 1965, ad Indicem; G. Astuti, L'unificazione amministrativa del Regno d'Italia, Napoli 1966, pp. 28, 32, 88 ss.; G. Spadolini, Il centenario di L. C. F., in Arch. stor. ital., CXXIV (1966), pp. 76-81; E. Nasalli Rocca, L. C. F. e la questione ospedaliera del suo tempo, in Studi romagnoli, XVII (1966), pp. 49-67; E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Bari 1967, ad Indicem; N. Raponi, Politica e amministrazione in Lombardia agli esordi dell'Unità. Il programma dei moderati, Milano 1967, pp. 154, 162, 172 s., 269, 275, 284, 347, 350 s., 353, 356 ss., 360 ss., 370, 378, 382, 385, 390; A. Lepre, Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento, Roma 1969, ad Indicem; R. Ruffilli, La questione regionale (1862-1942), Milano 1971, pp. 3, 43, 220, 318, 334, 363 s.; A. Allocati, Napoli dal 1848 al 1860, in Storia di Napoli, IX, Napoli 1972, pp. 131-224; A. Porro, Il prefetto e l'amministrazione periferica inItalia, Milano 1972, pp. 79, 97 s., 107, 109, 119 s., 122-127, 131 s., 156, 189, 191; A. Scirocco, Democrazia e socialismo a Napoli dopo l'Unità (1860-1878), Napoli 1973, pp. 45, 54, 63, 117, 119; P. Calandra, Storia dell'amministrazione Pubblica inItalia, Bologna 1978, pp. 45 ss.; F. Della Peruta, Ilgiornalismo dal 1847 all'Unità, in La stampa italiana del Risorgimento, a cura di V. Castronovo-N.Tranfaglia, Bari 1979, pp. 249-561; E. Rotelli, L'alternativa delle autonomie. Istituzioni locali e tendenze politiche dell'Italia moderna, Milano 1979, ad Indicem; R. Romeo, Vita di Cavour, Bari 1984, passim (in particolare pp. 465-471, 478 ss., 484 ss., 499 s., 524 s.); Id., Cavour e il suo tempo, II-III, Bari 1969-1986, ad Indices; F. Bartoccini, Roma nell'Ottocento, Bologna 1985, pp. 31 s., 133, 154, 295, 352, 382, 399.

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