CORVETTO, Luigi Emanuele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 29 (1983)

CORVETTO, Luigi Emanuele

Giovanni Assereto

Nacque a Genova l'11 luglio 1756 (l'atto di nascita lo registra come "Crovetto", poiché tale era il nome, solo in seguito "italianizzato", della sua antica famiglia originaria di Nervi), figlio di Luigi, professore di architettura, e di Maddalena Turpia. Studiò nel collegio degli scolopi, dove subito si segnalò come allievo esemplare, dotato di una sorprendente memoria che gli avrebbe poi consentito diapprendere da solo il francese e l'inglese, e di coltivare così anche sui testi originali la passione per la letteratura. Tentato inizialmente dalla carriera ecclesiastica (frequentò, infatti, il corso di teologia), si indirizzò poi verso gli studi legali e, laureatosi in giurisprudenza, divenne presto uno dei più stimati avvocati di Genova.

Nel 1788 sposò Anna Schiaffino, di buona famiglia borghese, che gli avrebbe dato due figlie: Maddalena ed Anna. Nel medesimo anno, forte del prestigio professionale, chiese ed ottenne il "privilegio onorifico", sorta di nobiltà non ereditaria che dava diritto al titolo di "magnifico" e veniva conferita dal Senato sulla base d'un rapporto favorevole degli inquisitori di Stato.

Dopo il 1789 il C. fu tra i frequentatori della legazione francese di Genova e, persino, dei "covi dei genialisti"; ma la realistica accettazione delle novità d'Oltralpe, accompagnata in lui da gran moderatezza e netto rifiuto della violenza, non turbò i suoi amichevoli rapporti con gli ambienti di governo: all'interno dei quali, d'altronde, esistevano tendenze non dissimili da quelle del giovane avvocato. Di lui infatti si servì la giunta di Marina quando, nell'ottobre 1793, dovette compilare un manifesto che giustificasse la neutralità genovese e rivendicasse "il regolare contegno della Repubblica" nei confronti delle potenze belligeranti.

Nel contempo, pero, il C. fu presente in due importanti processi politici come difensore del commerciante francese Bouillod, accusato di sovversione, e del patrizio Luca Gentile, uno dei capi della "cospirazione antioligarchica" del 1794. Nello stesso anno 1794 redasse un Progetto per la formazione di una Camera di commercio per conto di alcuni grandi mercanti genovesi i quali, offrendo al governo di provvedere al rifornimento granario della Dominante, chiedevano in cambio la creazione di un autonomo organismo regolatore delle attività mercantili. La richiesta, che non aveva in sé nulla di rivoluzionario ed anzi da anni rispuntava in seno agli stessi Collegi, assumeva in quel momento nuovi significati politici per la particolare tensione esistente tra un'oligarchia in crisi ed un ceto mercantile dotato viceversa di notevole forza contrattuale, tanto da pretendere per la Camera "la amministrazione o l'appalto di quelle finanze che interessano più davvicino il commercio" e la "giudicatura civile" in materia commerciale tramite una magistratura formata unicamente da "negozianti". La novità del progetto - con le sue istanze di autonomia economico-giuridica e col suo rifiuto del controllo nobiliare - venne perfettamente compresa dai Serenissimi Collegi, i quali lo bocciarono, ritenendolo "totalmente opposto al sistema di governo" della Repubblica.

Fautore di un allargamento indolore della partecipazione politica, il C. sperimentò qui per la prima volta il rifiuto oligarchico di percorrere la via paternalistica - pur auspicata dagli stessi aristocratici riformatori - delle concessioni "che affezionassero la classe media al governo". E quel rifiuto, con l'ottusità politica che lo accompagnava, rese infine accettabile per il C. la caduta dell'oligarchia, voluta e pilotata da Bonaparte nel maggio 1797; anche se - stando ai biografi ed in primo luogo all'amico carissimo Cottardo Solari - si dovrebbe parlare, più che di accettazione, di rassegnazione unita a rimpianto per "le antiche istituzioni patrie" e di riluttanza ad impegnarsi nel nuovo regime.

La riluttanza non gli impedì di svolgere in seno al governo provvisorio (giugno-dicembre 1797) un ruolo di primissimo piano. Nella parossistica rotazione delle cariche egli fu tra i pochi a rimanere stabilmente al comitato delle Relazioni Estere, dove si curavano i rapporti con Bonaparte e dove quindi risiedeva il potere effettivo. Insieme all'ex nobile Carbonara ed all'ex segretario di Stato Ruzza, entrambi rappresentanti la continuità col vecchio regime, il C. formava un "partito" di centro, cautamente filofrancese, che godeva la fiducia di Bonaparte. Tutti gli affari più importanti passavano per le mani di questo gruppo, e in particolare del C., che può essere considerato per molti aspetti il vero promotore dell'indirizzo moderato impresso alla Repubblica ligure.

Estraneo alla prima redazione della carta costituzionale, in cui pure esercitò la sua influenza tramite l'amico Solari, il C. fu membro autorevole della commissione incaricata di modificare tale carta dopo la controrivoluzione dei "Vivamaria" scoppiata in settembre; e si adoperò per eliminare o attenuare molte delle principali innovazioni contenute nel primitivo progetto: libertà di culto, incameramento dei beni ecclesiastici, estensione dei regime di portofranco alle Riviere, riforma tributaria.

Approvata la costituzione ed indette le prime consultazioni, il C. venne eletto al Consiglio dei seniori e poi nominato membro di un Direttorio nel quale gli fu facile spiccare, ma non padroneggiare una situazione politica che si stava rapidamente deteriorando e di fronte alla quale certi limiti del suo carattere si manifestavano impietosamente.

"Le citoyen Corvetto est un homme qui partout seroit distingué par un mérite rare, une éloquence entrainante, une sensibilité touchante et les formes les plus séduisantes. Mais il veut ménager tous les partis, il craint d'avoir un ennemi, il lui manque le coeur ardent et le caractère ferme du républicain" (Parigi, Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Correspondance politique, Gênes, 174, pièce 57 [dispaccio di Charles-Geoffroy Redon de Belleville a Talleyrand, 10 vendemmiaio VII - 10 ottobre 1798]). Secondo G. Serra, protagonista politico di quegli anni, "l'avvocato Corvetto dava il suo voto nel direttorio ligure... con quel ribrezzo istesso che tira il remo un galeotto; ma non aveva petto di bronzo contro a una turba minacciosa sotto le sue finestre". E "paurosissimo", seppur dotato di "molto talento", lo giudicava l'ambasciatore cisalpino Porro (cfr. Arch. di Stato di Milano, Archivio Testi 273).

In pratica, il C. stava in posizione defilata: lanciava appelli contro le fazioni, discorreva di chimerici ingrandimenti territoriali, ma sostanzialmente si disinteressava - lui, futuro restauratore delle finanze francesi - del pauroso "sbilancio" che già incombeva sulle casse statali; e quando, nell'aprile 1799, il sorteggio lo estromise dal Direttorio, se ne rallegrò. Fu avvocato dei poveri carcerati, giudice di Cassazione, membro del nuovo Istituto nazionale; ma si tenne fuori della politica.

Della pausa approfittò per comporre un Saggio sopra la Banca di S. Giorgio, pubblicato a Genova nel 1799, nel quale la finezza di analisi e le citazioni colte si accompagnavano ad una difesa singolarmente accorata di un istituto che pure aveva meritato nel nuovo regime le definizioni più aspre: "compagnia di avidi capitalisti", "corporazione mostruosa" cresciuta come un cancro dentro e contro lo Stato.

Il C. ribaltava questi giudizi celebrando la secolare solidità di S. Giorgio, le sue antiche benemerenze nei confronti delle pubbliche finanze, la sua funzione di punto d'incontro tra interesse privato e "prosperità della patria". Il discorso, nonostante i toni nostalgici, era rivolto al futuro: il C. propugnava la conservazione del banco, minacciato di "totale dissoluzione" per difficoltà finanziarie ed attacchi politici; ma voleva per esso il controllo statale, l'eliminazione di ogni intreccio tra funzioni pubbliche e private, la trasformazione in istituto di credito, quale mai era stato. Le motivazioni erano politiche: S. Giorgio doveva concentrare "le private ricchezze" e far sì che esse "si diramino facilmente sopra il commercio, sopra la navigazione, sopra la manifattura"; insomma capovolgere il tradizionale "egoismo" dei nobili genovesi, abituati a lucrare sui prestiti esteri e a privare così l'economia nazionale del necessario alimento. Questo, secondo il C., era il solo mezzo per estirpare le radici dell'antico regime e per fondare, al di là della retorica democratica, un nuovo ordine borghese nel quale "il cittadino prende... parte grandissima ai pubblici affari, e rimane invincibilmente attaccato allo Stato e alla Patria, e non solo per i principi generosi della Libertà e della Virtù, ma per quelli ancora del particolare interesse".

I tempi non erano favorevoli ai grandi progetti, poiché ormai l'esistenza stessa della Repubblica era minacciata dall'avanzata degli Austro-Russi; e il C. fu tratto dai suoi ozi e chiamato in una Commissione di governo che il 7 dic. 1799, per volere di Championnet, si sostituì alle legittime autorità liguri. Nella Commissione ricevette l'incarico di redigere un progetto di costituzione che fu, per sua stessa ammissione, un semplice "prospetto de' cambiamenti da farsi nella costituzione francese per adattarla alla Liguria". In seguito gli vennero attribuite responsabilità sempre più gravose, specie a partire dal 19 febbr. 1800, allorché fu nominato "commissario del governo" presso Massena. Durante i mesi terribili che videro Genova assediata dai coalizzati e decimata dalla fame e dalle malattie, il C. svolse una azione paziente in difesa della popolazione, moderando e contenendo le pretese di Massena; infine persuase quest'ultimo alla capitolazione, partecipò alle trattative con i comandanti inglese ed austriaco (4 giugno 1800) e dettò le onorevolissime condizioni di resa.

Il ritorno dei Francesi, dopo la breve occupazione austriaca, produsse a Genova un nuovo cambiamento istituzionale: Bonaparte vi stabilì (23 giugno) una Commissione, straordinaria con pieni poteri e le affiancò, sotto la presidenza del francese Dejean, una Consulta "incaricata specialmente di preparare l'organizzazione della repubblica". Tra i proposti alla Consulta fu il C., il quale accettò con la consueta riluttanza, ma insieme con una nuova fiducia nella "normalizzazione" che la Francia consolare prometteva anche alle repubbliche sorelle. Ripropose alla Consulta il suo adattamento della costituzione di brumaio, dove la principale modifica rispetto all'originale era un'ulteriore restrizione della sovranità popolare; e si adoperò per fare approvare una legge che consentisse ai nobili emigrati di rientrare in possesso, mediante un modico esborso, dei patrimoni ad essi confiscati durante il "triennio". Prima ancora, però, dimostrando che la sua capacità di piegarsi agli eventi e alla legge del vincitore non era disgiunta da dignità ed amor patrio, partecipò con la vecchia Commissione di governo alla stesura di due note di protesta: nelle quali si criticavano le disposizioni di Bonaparte miranti ad un ulteriore sfruttamento della Liguria; e si osservava a Dejean - il quale aveva nominato i membri del nuovo governo - che "tale nomina avrebbe potuto farsi dai corpi costituzionali della repubblica". Erano proteste vane, ma rivelavano le speranze indipendentistiche di esponenti moderati come il C. e la conseguente delusione di costoro: si trovarono, sempre più esautorati, a reggere le sorti di un paese asservito.

A tale situazione gli uomini politici liguri risposero in genere o col servilismo, o viceversa con propositi giacobineggianti e finanche "anarchisti" che si concretarono in moti di piazza e complotti unitari. Nella lotta tra le due tendenze, rapidamente risolta con la sconfitta della seconda, il C. finì per assumere una posizione intermedia, mirante in qualche modo a conciliare la normalizzazione moderata con la salvaguardia dell'indipendenza e degli interessi nazionali. Restò membro di quella Consulta che avallava le direttive francesi, ma nel contempo si oppose ad interventi repressivi quali lo scioglimento della guardia nazionale, voluto da Bonaparte per colpire un "covo di patrioti". E patrocinò in tribunale il "giacobino" F. Boccardi, che era stato allontanato per motivi politici dalla direzione dell'ufficio di posta.

Più tardi, il distacco del C. dalla linea politica che stava trionfando in Liguria si manifestò in una sempre più marcata disaffezione per le cariche pubbliche. Chiamato nell'aprile 1801 a far parte d'una nuova costituente si dimise quasi subito, forse intuendo che c'erano poche speranze di affermare il proprio punto di vista. Un anno dopo entrò infatti in vigore una costituzione interamente confezionata a Parigi, unitamente alle liste dei nomi destinati alle più alte cariche. Il C. fu designato al Senato, ma abbandonò prestissimo il suo posto, il 1° nov. 1802, benché le dimissioni comportassero la rinuncia al cospicuo onorario di 6.000 lire annue.

Da allora restò ai margini della politica ligure, se pur può definirsi politica quella lenta agonia che preludeva all'annessione. Nel febbraio 1804 fu iscritto nel Collegio elettorale dei dotti, platonica designazione per elezioni mai tenute; e sul finire del medesimo anno. quando il Senato decise "il rinstauramento della banca di S. Giorgio", accettò di essere uno dei cinque nuovi direttori: ma non certo per riprendere i suoi vecchi progetti di riforma, poiché il "rinstauramento" si ridusse alla riunione ed al consolidamento di tutto il debito pubblico e preparò - nonostante gli sforzi contrari del C. - la soppressione definitiva della banca.

L'annessione della Liguria all'Impero francese, logico epilogo di un'indipendenza ormai priva di senso, venne accolta dal C. con favore. Significava uscita dalle meschinità della piccola patria, ingresso in una potente compagine statale con tutto il fascino d'un regime che poggiava sulle salde basi dell'egemonia borghese, aboliva la politica a vantaggio della buona amministrazione, esaltava la funzione dei grands commis: in breve, traduceva in pratica gli ideali d'un uomo come il C., il quale non a caso si apprestava ora ad iniziare una ben più prestigiosa carriera.

Indicato già dal rappresentante francese Saliceti come possibile prefetto provvisorio, il C. venne poi nominato dall'architrésorier Lebrun presidente del Consiglio di dipartimento di Genova; e in questa veste accolse Napoleone, giunto a ricevere l'omaggio dei suoi nuovi sudditi. Pochi mesi dopo (30 ott. 1805) l'imperatore, sempre attento a reclutare anche nei dipartimenti annessi i suoi grandi amministratori, lo chiamò al Consiglio di Stato dove il C., trasferitosi frattanto a Parigi con la famiglia, prestò giuramento il 13 marzo 1806.

Nel Consiglio, organismo-chiave dell'apparato legislativo ed amministrativo, il C. spiegò un'attività ragguardevole per mole e continuità. Membro fino al 1814 della "section de l'intérieur", appartenne a quel ristretto gruppo di consiglieri (una quindicina su un totale di 112 avvicendatisi sotto il Consolato e l'Impero) che rimasero in carica almeno otto anni e parteciparono sempre ai lavori di sezione, costituendo così l'ossatura di quel corpo.

Prima fatica del C. fu la compilazione del codice di commercio: egli ne curò personalmente alcune parti (fallimenti, assicurazioni, rischi) e ne sostenne l'approvazione dinanzi al Corpo legislativo (settembre 1807) con un discorso nel quale troviamo, ribaditi ed ampliati, i temi cari all'antico portavoce dei gruppi mercantili genovesi. In seguito presiedette la commissione per il codice penale, stese gli articoli concernenti i reati contro la proprietà, e nelle discussioni si segnalò per alcuni interventi che riecheggiavano posizioni già manifestate nel suo progetto costituzionale del 1800, dove aveva previsto un criterio censitario per la concessione della cittadinanza.

Si batté infatti a favore d'una norma che prescriveva per la parte civile il versamento di una cauzione; e venne per questo criticato da Cambacérès e Treilhard, i quali ribatterono essere "impossible de repousser un citoyen qui demande justice, par cela seul qu'il est sans biens" (Durand). Si schierò poi con coloro che volevano differenziare le pene secondo il rango del condannato, e giudicò che irrogare pene infamanti - la gogna, ad esempio - a un notabile fosse una concessione al deprecato "système de l'égalité absolue" (ibid.).Col 1810, anno in cui terminarono i suoi lavori per il codice penale, il C. entrò nella nobiltà imperiale, ricevendo il titolo di conte ed una rendita sul Canal du Midi, sui beni della Pomerania svedese e dell'Illiria, sul Giornale dell'Impero. Raggiunse così un'agiatezza considerevole, ma non strepitosa: l'Etat des 72personnes les plus marquantes du départ. de Gênes (Parigi, Archives nationales, Fic,III, Gênes1)il 19 sett. 1810, gli attribuisce un "revenu annuel" di 30.000 franchi; il suo biografo Ruini propone, più realisticamente, la cifra di 60.000; ma in entrambi i casi non ci discostiamo troppo dall'onorario base dei consiglieri di Stato - 25.000 franchi - e siamo ben lontani dalle colossali fortune accumulate da alcuni nobili e notabili imperiali, quali ancora recentemente sono state tratteggiate da Jean Tulard (Les composants d'une fortune: le cas de la noblesse d'Empire, in Revue historique, XCIX [1975], pp. 119-138). Fu in fondo, quella del C., un'agiatezza legittima e legittimamente guadagnata col gran lavoro: basti pensare, dopo i codici, al delicato incarico espletato nell'autunno del 1811 con l'ispezione ai detenuti politici, che lo costrinse ad un lungo viaggio in Italia, nella Francia meridionale e infine nella regione parigina.

Ne tornò con proposte di indulgenza solo parzialmente accolte e con la salute malferma che richiese un periodo di riposo e cura, presto interrotto da nuove incombenze. "Il signor Luigi - scriveva suo genero Tommaso Littardi nel novembre 1812 - è stato nominato membro di una commissione per rivedere e ripulire tutte le leggi dell'Impero, oltre di questo, è della liquidazione di San Domingo, ed è di altre tre commissioni incaricate di esaminare le malversazioni degli octrois d'Anversa, Rouen e Tolone: è occupato da non poter resistere".

Nel frattempo il C. non aveva mai del tutto interrotto i rapporti con la madrepatria. Parigino di adozione, restava pur sempre l'uomo più in vista della Liguria", come lo definì il prefetto Chabrol (Parigi, Archives nationales, FI C, III, Montenotte1)stendendo una lusinghiera nota informativa nel marzo del 1808, quando il C. era candidato al Senato nel dipartimento di Montenotte. In Liguria il C. ritornò ancora, in quello stesso anno 1808, a presiedere il Collegio elettorale del dipartimento di Montenotte e della Liguria non cessò di considerarsi il portavoce presso il potere centrale: come dimostrano i suoi tentativi di influire sulle cariche locali, di proporre insegnanti per l'università di Genova, di resuscitare la banca di S. Giorgio.

Funzionario scrupoloso e fedele, ammiratore sincero dell'"uomo fatale" che egli - per convinzione più che per piaggeria - aveva una volta paragonato alla Provvidenza, il C. si trovò impreparato di fronte al declino dell'Impero; fino all'ultimo, quando già erano evidenti i segni del tracollo, scriveva fiducioso: "Tutto andrà bene ed avremo la pace".

La caduta di Napoleone lo colse di sorpresa: spedì in fretta figlie e nipoti a Porto Maurizio, e si dispose a vendere gli arredi della sua casa parigina per rientrare da privato cittadino a Genova; a quasi sessant'anni, la prospettiva era di ricominciare tutto daccapo, in umiltà e con qualche difficoltà economica. Scriveva in quei giorni: "Parto, sono ancora in condizione di fare qualche cosa, ho pochi bisogni e molta rassegnazione". Non si rassegnò, tuttavia, ai progetti di annettere la Liguria al Piemonte che si stavano delineando, in contrasto con la provvisoria restaurazione della Repubblica operata dal Bentinck il 26 apr. 1814.

Mentre si aprivano le trattative per il nuovo assetto europeo il C., unitamente ad altri genovesi residenti a Parigi, fece pubblicare sui giornali francesi un articolo auspicante la rinascita dell'antica Repubblica di Genova, ch'egli prefigurava come un'oasi di neutralità e libero commercio. Compilò inoltre (ma, avverte Girolamo Serra, "non ardì sottoscriverla e presentarla") una memoria destinata ai ministri delle potenze alleate, nella quale proponeva per Genova il ritorno alla "costituzione" del 1576: proposta che non nasceva da mera nostalgia per l'Ancien régime, ma piuttosto riprendeva vecchie aspirazioni del C., e ancor più dell'amico suo Solari, per un sistema di "aristocrazia elettiva" in cui fosse abolito ogni privilegio ereditario. Infine il C. accolse ed assistette Agostino Pareto, inviato a Parigi dal governo provvisorio genovese per perorare la causa della restaurazione repubblicana; e ad agosto, al ritorno in patria di Pareto, venne da questo ufficiosamente incaricato di curare gli affari genovesi.

Mentre ogni speranza di indipendenza per Genova sfumava, il C. si ritrovò inaspettatamente corteggiato prima dal cancelliere francese Dambray, che gli propose di rimanere al Consiglio di Stato; poi dal Savoia, che gli offrì il portafoglio delle Finanze nel suo gabinetto. Declinò questa seconda offerta, fors'anche per motivi politici; ma accettò la prima con la conseguente naturalizzazione francese, sia pure dopo aver vinto scrupoli davvero insoliti per l'epoca.

Affermò di "non essere passato ai Borboni", ma di "essere rimasto al servizio della Francia": e fu giustificazione coerente, tipica di un personaggio che sempre aveva avuto, fortissimo, il senso della continuità istituzionale, peraltro legittimata dall'abdicazione di Napoleone. Si aggiunga che il C. evitò, a differenza d'altri, di rinnegare sfacciatamente il sovrano caduto; e che la scelta a favore di una restaurazione costituzionale moderata fu, tutto sommato, conforme al suo credo politico.

Nel nuovo Consiglio di Stato, dove era uno dei pochi competenti, il C. non tardò a mettersi in luce: presiedette la sezione di Finanze, poi fu vicepresidente della commissione incaricata di accertare gli arretrati di bilancio. Il ritorno di Napoleone interruppe la sua attività perché, nonostante le offerte ricevute anche durante i Cento giorni, affermò di voler "morire senza rimorsi"; e, pur costretto infine a prestare giuramento all'imperatore, si tenne dignitosamente in disparte. Rientrò al Consiglio di Stato solo dopo Waterloo e diresse, come presidente della sezione Interni, i lavori delle commissioni che si occupavano del mantenimento delle truppe d'occupazione e delle indennità estere. In questi settori collaborò strettamente col ministro delle Finanze J.-D. Louis, uomo molto diverso da lui nel carattere, ma affine per l'impostazione tecnica e per l'attenzione prestata ai nessi tra finanza e politica.

Louis, sin dai primi giorni della Restaurazione, aveva adottato una linea di condotta molto chiara: ribaltamento della tradizionale avversione napoleonica per il debito pubblico e risollevamento deciso del credito, sul quale ora si puntava sia per motivi di principio, sia soprattutto per necessità. La scelta di Louis - il quale in pratica contava di saldare l'arretrato con l'emissione di obbligazioni al 5% garantite sulla vendita dei boschi nazionalizzati - aveva forti implicazioni politiche. Louis difendeva, per forza di cose, gli interessi dei detentori di rendita pubblica, coincidenti in quel momento con gli interessi di uno Stato che solo con il ricorso al prestito, e quindi con il sostegno del proprio credito, poteva sperare di sopravvivere; ma nel far ciò il ministro si scontrava con un'opposizione che mirava a dichiarare illegittimo qualunque credito "napoleonico" e addirittura avrebbe voluto la reintegrazione delle proprietà "usurpate" dai passati regimi. La linea ministeriale vinse e si dimostrò producente (il corso della rendita, nel 1814, passò in pochi mesi da 45 a 80), ma ogni risultato venne affossato dalla ultima sconfitta di Napoleone, che sommerse la Francia sotto una nuova marea di spese di occupazione, contributi e indennità di guerra.

In questo terribile frangente il duca di Richelieu, obbligato a trovare un successore a Louis e non potendo far conto sui troppo compromessi Mollien e Gaudin, offrì al C. il portafoglio scottante delle Finanze. Elevato così al più alto incarico della sua carriera, il C. si trovò alle prese con impegni esorbitanti, con un vuoto di cassa pressoché totale e soprattutto con una situazione politica gravemente compromessa. Non poté che riproporre le soluzioni del suo predecessore, riassumibili in tre punti: 1) pagare gli arretrati interni con l'alienazione dei demani; 2) riservare agli oneri di guerra le future disponibilità del credito; 3) far fronte intanto alle prime rate mediante inasprimenti fiscali e compressione di spese. Preliminarmente occorreva ristabilire la fiducia necessaria a lanciare grandi operazioni creditizie; e in tal senso il C. ritenne indispensabile anche l'allestimento di adeguati congegni tecnici. Tra questi, creatura prediletta del C. fu una nuova Caisse d'amortissement, ch'egli volle "inviolabile, libera, indipendente dal governo". Ad essa diede vita sulla base di troppo ottimistiche credenze finanziarie relative ai miracoli dell'interesse composto (il "sofisma" di Price); ma nondimeno il successo fu indiscutibile (la rendita, quotata 57 nel 1816, andò alla pari nel 1824), e addirittura diede origine ad un mito storiografico: quello relativo all'assoluta "neutralità" degli interventi della Caisse, contro la pratica napoleonica mirante non ad ammortare, ma a sostenere la rendita in borsa.

In realtà, come ha recentemente illustrato M. Bruguière (Les techniques d'intervention de la Caisse d'amortissement dans le cours de la rente (1816-1824), in Revue historique, CI [1977], pp. 93-104) la Caisse non fu così estranea ai maneggi finanziari come sosteneva ufficialmente, semmai costituì "il luogo d'equilibrio e di arbitraggio tra le potenze politico-finanziarie che avrebbero continuato a fronteggiarsi sino alla rivoluzione del 1830".

Nell'immediato, il problema del C. non era però l'ammortamento, bensì l'approvazione del bilancio da parte di un'Assemblea - la "Chambre introuvable" - digiuna di questioni finanziarie e fortemente ostile alla fortuna mobiliare, anzi portata a considerare aggiotaggio ogni operazione di prestito. Il 28 apr. 1816 il C. dovette accettare un compromesso: i creditori dell'arretrato, anziché esser pagati, avrebbero ricevuto "riconoscimenti" al 5% le cui modalità di rimborso restavano da definire. Per una strategia tutta tesa al ristabilimento del credito fu un colpo durissimo, visto che oltretutto parevano mancare i presupposti politici per un'inversione di tendenza e che il ministero - come scriveva in quei giorni Metternich - si trovava "isolé entre la Chambre des deputés, qui l'attaque sans cesse, et le roi qui ne le soutient jamais" (G. de Bertier de Sauvigny, Metternich et la France après le congrès de Vienne, I, Paris 1968, p. 76).

II C. si rassegnò a vivere alla giornata: escogitò ogni sorta di espedienti, scovò ed elemosinò denaro da ogni parte, ma rifiutò qualsiasi manipolazione monetaria ed impegnò la propria onestà personale nella difesa dell'onestà pubblica; riuscì, a prezzo di sacrifici, ad evitare la bancarotta, a conservare, nonostante tutto, la fiducia dei creditori. Fiaccato nella salute chiese invano di ritirarsi; ma intanto la sostituzione dell'"Introuvable" con una Camera moderata gli offriva le basi per riprendere il suo piano di risanamento. L'avvio fu difficile, anche perché le banche francesi non si mostravano disposte ad arrischiare denaro. La difficoltà fu aggirata negoziando due prestiti con banchieri stranieri (Baring e Hope) a condizioni dure, ma in quel momento inevitabili. Solo in seguito, e con il corso della rendita in rialzo, si manifestò la disponibilità dei finanzieri francesi: i quali, per bocca soprattutto del giovane Périer, appena il vento cominciò a soffiare nella direzione giusta non si fecero scrupolo di attaccare il C., rimproverandogli di aver tradito la Francia.

Nell'aprile 1818 il C. ebbe la concreta verifica della propria condotta: quando offrì ai risparmiatori francesi il primo prestito pubblico dai tempi di Luigi XVI(16.000.000 di rendita 5%) i risparmiatori risposero, al di là d'ogni più rosea previsione, con una vera corsa alla sottoscrizione, che fece balzare la rendita alla quota record di 80.

Nel frattempo, benché le smanie della prima Camera non si fossero rinnovate, il C. dovette difendere i suoi bilanci da un duplice attacco: da sinistra Périer ed altri si scagliavano, come s'è detto, contro i prestiti esteri; da destra gli ultras ripetevano i consueti argomenti contro il credito e sostenevano che un piano di economia (in pratica: lo smantellamento dell'apparato statale) sarebbe bastato a far fronte a tutti gli impegni. Ai Pari, Chateaubriand lanciava contro il C. i fulmini della sua eloquenza a proposito dei beni del clero: "Voi venderete l'ultima spoglia della Chiesa come i soldati che hanno tirato a sorte le spoglie di Gesù" (Ruini, p. 283).

Il bilancio 1817 passò comunque il 24 marzo; e ad ottobre il C., che nel frattempo aveva dato avvio ad una vasta riforma della amministrazione finanziaria, poté annunciare al re la fine del ricorso "ai più penosi espedienti". Passò anche, dopo analoghe opposizioni, il bilancio 1818, nel quale il C. poteva già offrire risultati tangibili: riduzione dei disavanzo complessivo e delle spese, attivo di 50.000.000 nella parte ordinaria. Infine, il 30 nov. 1818, l'azione del C. ebbe il suo coronamento: come contropartita al pagamento anticipato delle indennità di guerra le potenze sgombrarono immediatamente il territorio francese. Ma il momento del trionfo fu offuscato da un nuovo problema finanziario: il prestito lanciato in aprile aveva scatenato il gioco al rialzo, cui la Banca di Francia ed il Tesoro stesso non erano rimasti estranei. In ottobre tutti già si premuravano di vendere e le conseguenze sul corso della rendita si profilavano gravi. Il C. aveva responsabilità oggettive, poiché avrebbe pur dovuto prevedere i risultati di un troppo rapido boom; e qualcuno lo accusava di aver scientemente provocato il crollo, per giustificare le buone condizioni fatte ai banchieri esteri. Vinse, faticosamente, anche questa battaglia, ma vi dovette spendere gli ultimi scampoli della sua salute.

Non gli restarono che le dimissioni, e, con le dimissioni, le amarezze. La Francia gli doveva molto, ma non lo ripagò con eccessiva larghezza. Il re, che già l'aveva insignito della dignità di grande ufficiale della Legion d'onore, lo nominò ministro di Stato e gli offrì, con la gratifica di un semestre di stipendio, un assegno annuo di 20.000 franchi.

Per il C., che aveva goduto d'una annualità di 150.000 franchi e dell'uso gratuito della splendida villa "La Muette" al Bois de Boulogne, la pur dignitosa retraite rappresentò un colpo duro: perché l'uomo non aveva saputo arricchirsi, i suoi cospicui guadagni se n'erano andati in una dispendiosa vita di rappresentanza, nell'aiuto a parenti ed amici, nei debiti contratti durante il tracollo del 1814. Nel suo testamento si legge: "Il mio poco avere consiste quasi completamente nel dono fattomi dal re alla mia uscita dal ministero; dono che fui tanto fortunato da conservare; ma alcuni obblighi che io lascio da soddisfare costringeranno mia moglie a sopportare delle privazioni" (Venturini).

Ben più grave amarezza gli venne da una sorta di processo intentatogli dalla Camera nel 1819: una serie di attacchi - ingenerosi e tutto sommato infondati - all'intera sua gestione finanziaria. La quale certo non fu scevra di errori, di limiti tecnici e politici; ma ebbe risultati indiscutibilmente positivi e fu sostenuta da impegno e serietà fuori del comune.

Nel luglio 1820 il C. rientrò a Genova, per morirvi: un breve soggiorno a Nervi, nella vana ricerca di un clima risanatore, poi il ritiro definitivo a palazzo Doria, in strada Nuova. Lì si spense il 20 maggio 1821, e nel contempo iniziò - destino del personaggio - una nuova carriera: quella di "antieroe moderato" nelle pagine di biografi i quali, per eccesso di zelo, non sempre gli avrebbero reso piena giustizia.

Fonti e Bibl.: G. Serra, Mem. per la storia di Genova dagli ultimi anni del sec. XVIII alla fine dell'anno 1814, a cura di P. Nurra, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LVIII (1930), pp. 112-116, 133; M. Ruini, L. C. genovese ministro e restauratore delle finanze di Francia, Bari 1929 (alla ampia bibliografia ragionata posta a conclusione di questo saggio si rinvia per tutte le opere ad esso anteriori; si ricorda soltanto, poiché Ruini non la menziona, la breve biogr. del C. in C. Cantù, Italiani illustri, Milano 1873, II, pp. 537-548); V. Vitale, Onofrio Scassi e la vita genovese del suo tempo (1768-1836), in Atti della Soc. ligure di storia patria, LIX (1932), pp. 16, 42-45, 94, 127, 130, 145, 173-174, 201, 210-211; L. Venturini, L. C. alla luce di un epist. ined., Genova 1939 (l'epistolario cui l'autrice si riferisce fa parte dell'archivio Littardi-Sauli, attualmente inconsultabile perché in via di trasferimento dalla Biblioteca L. Lagorio di Imperia all'Archivio di Stato di quella città); C. Durand, Etudes sur le Conseil d'Etat napoléonien, Paris 1949, pp. 347, 446-451, 551-553; R. Lacour-Gayet, Les renaissances financières de la France de saint Louis à Poincaré, Paris 1959, pp. 159-185; S. Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffus. del pensiero di Montesquieu, in Il Movimento operaio e socialista in Liguria, VII (1961), pp. 271-273; G. Assereto, La Repubblica ligure. Lotte politiche e problemi finanziari (1797-1799), Torino 1975, passim;M. Da Passano, La questione costituz. nella Repubblica ligure (1800-1802), in La formazione stor. del diritto moderno in Europa, Atti del III Congresso internaz. della Soc. ital. di storia del diritto, III, Firenze 1977, pp. 1373-1407.

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