Luigi Pulci: Morgante - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1955)

Luigi Pulci: Morgante – Introduzione

Franca Ageno

Matteo Franco in uno dei suoi velenosi sonetti contro Luigi Pulci dice che questi ha ereditato dalla sua famiglia «leggerezza, colore e piccin occhi» (Son. IX); il ritratto dipintone da Filippino Lippi nella cappella Brancacci ce lo presenta sgraziato e triste. Egli stesso, il 27 marzo 1471, condolendosi col Magnifico dell'aborto gemino di madonna Clarice, soggiunge: «E dì a madonna Clarice per mia parte che non si disperi per questo, però che, essendo due, sarebbono riusciti due Luigi Pulci, e noi vogliamo ne facci uno per volta, e acconcilo bene, e facci Cosimi e Pieri e Giuliani, e presso ch'io non dissi Lorenzi, e non granchi di sette per mazzo» (Lett. XXII p. 97). L'autore di un'opera famosa per la sua cordiale giocondità e spensieratezza, ebbe indole melanconica e salute malferma. Di sue malattie, frequenti e gravi, abbiamo notizia dalle sue lettere. La mestizia trapela da fugaci sentenze delle sue opere:

Però noi non facciam mai ignun disegno,

ch'un altro non ne faccia la Fortuna;

e dà sempre nel brocco a mezzo il segno

sanza pietà, sanza ragione alcuna

La vita ebbe travagliata e agitata. Quando Luigi Pulci nacque a Firenze, il 16 agosto 1432, la sua famiglia, antica, nobile e un tempo ricca, era già in decadenza. Il padre, Iacopo di Francesco, morto prima dell'agosto 1451, lasciò in non liete condizioni la vedova Brigida de' Bardi, i figli Luca, nato nel 1431, Luigi, e Bernardo, nato nel 1440, e le figlie Lisa e Costanza.

Queste si accasarono rispettivamente nel '52 e nel '53; i maschi dovettero cercare una sistemazione per ovviare alle difficili condizioni economiche della famiglia.

Fra il 1459 e il 1460 Luigi ci appare scrivano, ragioniere, uomo di fiducia, e anche amico e commensale di Francesco Castellani, agiato cittadino, che gli prestò dei libri, come le opere di Virgilio e il Dottrinale, e forse lo presentò ai Medici.

Almeno dal 1461 il Pulci divenne infatti assiduo frequentatore di casa Medici e proprio nella primavera di quell'anno sembra che iniziasse, a richiesta di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico, la composizione del Morgante. La Tornabuoni (1425-1482) era donna di animo nobile e gentile e di intelligenza sopra il comune; alle cure attive e affettuose della famiglia e della casa alternava la composizione di laudi sacre e di storie bibliche ed evangeliche in ottava e terza rima, pregevoli per ingenua schiettezza. Il Pulci le fu devoto e probabilmente ne ebbe aiuto generoso nelle sue difficoltà: la ricorda spesso nelle lettere e ne tesse l'elogio nel poema (1, 4; XXVIII, 2; 131-136).

Egli amò sopra tutto Lorenzo, di cui non certo per interesse cercò la benevolenza. Il 27 aprile 1465, partito Lorenzo per Venezia, gli scrive: «Io son tutto soletto, smarrito, afflicto sanza te» (Lett. 1, p. 23); e il 4 novembre 1466: «Tu ... se' pure il mio Lauro, o vogli tu o no. Pare che sia tra noi certa conformità che viene dalle stelle e fa ch'io t'ami tanto, e ch'io mi confidi ancora tu ami me molto» (Lett. IX, p. 56). Li univa la passione letteraria, e mandando a Lorenzo la canzone: Da poi che '/ Lauro più, lasso! non vidi, Luigi commentava: «Io so che un gran mio amico è più vago de' versi ch'io non sono degli spiriti» (Lett. VI, p. 49).

Intorno al 1465, cioè poco dopo la morte di Cosimo, avvenuta il 1° agosto 1464, il Pulci compose qualche sonetto contro l'arido e uggioso umanista Bartolomeo Scala, divenuto cancelliere di palagio grazie alla protezione dei Medici; cominciavano così le sue relazioni, ora amichevoli ora ostili, coi letterati che frequentavano il palazzo di via Larga.

Il fratello maggiore di Luigi, Luca, che pare iniziasse il poemetto idillico-mitologico intitolato Driadeo, e il Ciriffo Calvaneo, e al quale certo appartengono le faticose Pistole in terza rima imitanti le Eroidi ovidiane, si era messo al banco degli Arrighi a Roma un po' prima del 1458; tornò poi a Firenze, dove aprì banco per conto proprio; ma non ebbe fortuna nei suoi traffici.

A causa dei debiti da lui contratti, Luigi e Bernardo furono banditi dal Comune agli ultimi del '65 o ai primi del '66. Come appare dalle sue lettere al Magnifico, Luigi passò questo periodo parte a Vernia, parte in Mugello; andò anche a Pistoia e più d'una volta a Villa Basilica a ordinare spade per Lorenzo.

Per intercessione dell'amico potente i due Pulci poterono tornare a Firenze nel marzo del 1466.

Troviamo Luigi presente a un'adunanza tenuta dagli amici dei Medici la notte del 27 luglio 1467 nel palazzo di via Larga, alla presenza di Galeazzo Maria Visconti, adunanza nella quale si deliberò di «'nvestire» il campo dei fuorusciti fiorentini alleati coi Veneziani. E abbiamo notizia di suoi frequenti soggiorni nella villa Medici di Cafaggiolo. Nello stesso periodo il Pulci invitava il suo patrono nei suoi possessi del Mugello (Lett. vin, p. 54).

Nel 1467-68, non si sa bene per che ragione, fece qualche viaggio a Pisa, donde scriveva a Lorenzo : « È qui il tuo Benedetto Dei, e ha uno coccodrillo ch'è lungo braccia otto: invero un bello animale. Conducerassi costì a te, e mille volte ti si raccomanda» (Lett. xii, p. 64). L'amicizia che strinse con questo curioso tipo di avventuriero, «viaggiatore e memorialista, faccendiere e osservatore dovunque Firenze aveva interessi politici ed economici, dalla Fiandra a Costantinopoli», non venne meno in séguito: quando il Dei era a Milano, il Pulci rimase in corrispondenza con lui (Lett. xlvi-xlvii, 1481), e lo ricorda nel poema (xxvii, 92, 6).

Le faccende della famiglia Pulci andavano di male in peggio: nel 1469 Luca fallì. Quando venne dichiarato il fallimento, Luigi scrisse a Lorenzo una lettera disperata: «... La Fortuna invidiosa, mentre ch'io speravo più arditamente per voi esser risuscitata la nostra casa, la quale per molti anni era declinata, come tu vedi ogni cosa in un punto m'ha tolto. Io dico «ogni cosa» solo la vostra benivolenzia, benché con essa sia agiunto quel poco che mi lasciò il mio padre, e l'onore e la patria e gli altri amici e parenti e fratelli. Dolgomi e piango teco della mia disaventura o vero de' miei peccati... Voglio ciò c'ho al mondo liberamente sia di chi ha havere, e a voi obligato essere in tutto, e quello che mancherà, tanto tempo servirvi per ischiavo, che mi liberiate. E se io ho meritato in alcun modo dovere ancora in carcere stare sempre, fa che per qualche modo io lo sappi, ché verrò a entrare dove mi sarà detto» (Lett. XVI, pp. 73-5).

Luca fu messo alle Stinche, cioè nel carcere per debitori, e vi finì tristemente i suoi giorni il 29 aprile 1470. Ai tre figliuoli e alla vedova, che attendeva un altro bambino, dovettero provvedere in séguito Luigi e Bernardo.

Frattanto, il 3 dicembre 1469, era morto Piero de' Medici, lasciando a Lorenzo appena ventenne il compito non facile di tenere in piedi l'edificio faticosamente creato da Cosimo e che già durante i cinque anni del debole governo di Piero stesso aveva subito scosse e fratture. Si sa quale abilità politica dimostrasse sùbito Lorenzo, che, per l'età giovanile e per l'educazione letteraria datagli dalla madre, tutti credevano privo di attitudini di governo.

Dall'amico divenuto ormai signore dello Stato, Luigi ottenne qualche incarico di fiducia già nel 1470. Fra il dicembre di tale anno e l'aprile del successivo fu a Camerino presso Giulio Cesare da Varano (Lett. XVII-XVIII) e a Napoli presso Alfonso (Lett. XIX-XXIV). A questo soggiorno si riferisce un famoso sonetto in napoletano.

Si dedicò anche a qualche traffico a Foligno. Sperava così di rimediare ai guai passati. Ma Bernardo, a cui aveva affidata la cura degli interessi comuni, si mostrò un dappoco e lasciò andare ogni cosa in rovina (Lett. XXIII, dell'11 aprile 1471). Dedito anch'egli alle lettere come la moglie Antonia Giannotti, traduttore in cattive terzine delle Bucoliche virgiliane, autore di eleganti e freddi sonetti, di un poemetto in ottave sulla Passione, di una Vita della gloriosa Vergine Maria in terzine, di una sacra rappresentazione di Barlaam e Giosafat, Bernardo era «timido e salvatico» e probabilmente mancava anche di spirito pratico, tanto che Luigi scrive in quest'occasione: «Vero è che 'l mio Bernardo è stato di latte.»

Nel 1469, un po' prima della morte di Piero era venuta sposa a Lorenzo una nobile fanciulla romana, Clarice Orsini. Abituata al fasto e alla contegnosa alterezza dell'aristocrazia romana, ella forse si trovò un po' a disagio nella confidenziale e libera consuetudine di signori e popolani che caratterizzava l'ambiente fiorentino, e visse ritirata, dedicandosi all'educazione dei figli.

Anche Clarice è nominata spesso nelle lettere del Pulci, ed egli non le fu discaro. Nel maggio 1472 ebbe l'incarico di accompagnarla a Roma e riaccompagnarla a Firenze (Lett. XXV-XXVI).

Nell'estate del 1473 il Pulci fu a Bologna, Milano e Venezia con incarichi del suo patrono per Roberto Sanseverino; a Milano compose tre sonetti in milanese togliendo l'argomento dal «blasone popolare» di questa città (Lett. XXXIV, pp. 138-9; Son. XCIV); e anche a Venezia la sua musa si sbizzarrì (Son. LXXXV).

Al principio del 1474 aveva già sposato Lucrezia degli Albizzi, dalla quale ebbe quattro figli, Roberto, Iacopo, Luca e Lorenzo.

Fra il 1470 e il 1471 il Magnifico aveva cominciato a proteggere Angelo Poliziano, allora assai giovane, che gli intitolava la versione latina dell 'Iliade (libri II-V). Nel 1473 lo accolse in casa e mise a sua disposizione la magnifica biblioteca che due generazioni di ricchi signori appassionati delle lettere erano venute accrescendo in via Larga; nel 1475 gli affidò l'educazione del suo primogenito Piero.

Il Pulci ebbe per il Poliziano, di oltre vent'anni più giovane di lui, più colto e raffinato, un'amicizia affettuosa e un'intelligente ammirazione che non vennero mai meno (XXV, 115; 169; XXVIII, 145-147).

Fino al 1480 rimase a Firenze e fece parte della cerchia del Magnifico anche Bernardo Bellincioni, verseggiatore facile e fecondo, che il Pulci ricorda in tono amichevole nel poema (XXVIII, 143).

E stima e simpatia, fors'anche qualche affinità d'ingegno, dovevano legarlo ad Antonio di Guido, il principe degli improvvisatori fiorentini, che già nel 1459 aveva cantato pubblicamente sulla cetra nella villa medicea di Careggi: per lui il Pulci ha parole di lode certo sproporzionate alle sue qualità di poeta (XXVIII, 144).

Una viva antipatia e probabilmente una certa rivalità cortigiana lo divise invece dal prete Matteo Franco, che, entrato neppur trentenne in casa Medici nel 1473, sapeva cattivarsi le simpatie dei signori col suo contegno abile e servizievole ed era carissimo a Lorenzo. Può darsi che egli suscitasse per questo la gelosia di Luigi e venisse da lui provocato; come non è inverosimile che, smanioso di non avere rivali nel cuore del Magnifico, sia stato il provocatore. La lotta si combatté, fra il 1474 e il 1475, in feroci sonetti, e da una parte e dall'altra non si risparmiarono le contumelie, i sarcasmi, le allusioni maligne, le accuse turpi. Il Franco, più calmo, riesce più vigoroso ed efficace; non esita a dare al poeta del parassita, dell'impronto, del ladroncello, a rinfacciargli le strettezze in cui vive, e persino il fallimento e la morte del fratello, a deriderne l'aspetto malazzato.

Il Pulci se ne accora e sgomenta, e ne scrive con profonda pena e rammarico al suo protettore: «Io t'ò scripta questa colla mano che trema per la febre, perché stamani mi fu da' parenti recati sonetti dove erano coltellate, improverate e molte cose ch'io non sapevo ancora ... Io ti prego . . . che tu vogli udire uno tuo servitore prima che tu lo giudichi con ira e per detto di molti che m'ànno a loro modo in preda. Io mi sono doluto che mai come io fu stratiato cane ...» (Lett. XXXVII, p. 140).

Forse l'atteggiamento di Marsilio Ficino, amico del Franco, durante questa polemica diede lo spunto occasionale ai suoi dissapori col poeta, col quale sembra che prima fosse in buone relazioni. Tuttavia la radice di essi par da ricercare altrove.

Probabilmente fin dal 1453 Luigi era stato iniziato alle pratiche di magia. Una lettera mandata al Magnifico durante il bando (febbraio 1466) si conclude con queste parole: «Idio ci aiuterà, o Salay» (Lett. IV, p.40); e in una successiva, il Pulci confessava: «Stima che Salay ancora di noi voglia la sua parte» (Lett. VI, p. 49). Nell'agosto dello stesso anno, durante una malattia, diceva scherzosamente: «Qui con certi alberelli e consigli di Salay mi governo» (Lett. VIII, p. 53); nel novembre, sempre al Magnifico: «Non posso ad altro pensare che a te e a Salay da un tempo in qua» (Lett. IX, p. 56).

A pratiche magiche accennano certamente le ottave 47-49 del cantare XXI, scritto nel 1471. Sappiamo inoltre che da Camerino, sul finire del 1470, il poeta si recò a visitare la famosa grotta della Sibilla presso Norcia (Lett. XVII, p. 80).

Per le insistenze di una delle donne di casa Medici, la Nannina, sorella di Lorenzo, il Pulci s'indusse a celebrare come credente la Pasqua del 1473. Il Franco allude a questo episodio in un sonetto:

Maggior forza del Ciel ebbon gli spirti

che s'incantorno già in casa Neroni:

venti anni stesti sanza confessioni,

pur Sallay a confessar fe' irti

Si trattò tuttavia di un ritorno alla fede solo temporaneo: è del 1475 il sonetto (cxliv) indirizzato a Benedetto Dei, in derisione dei pellegrini che andavano a Roma per il giubileo (cfr. XXVIII, 42). Veramente non si stenta a credere quanto afferma il Pulci stesso più tardi (XXVIII, 43), cioè che il componimento è diretto solo contro gli ipocriti:

In principio era il buio, e buio fia.

Hai tu veduto, Benedetto Dei,

come sel beccon questi gabbadei

che dicon ginocchion l'Avemaria?

Tu riderai in capo della via,

ché tu vedrai le squadre de' romei

levarsi le gallozze e gli agnusdei

e tornare a cercar dell'Osteria.

La festa fia di queste capperucce

e di certe altre avemarie infilzate

che biascion tuttodì come bertucce.

O pecorelle mie zoppe e sciancate

che credono lassù salire a grucce

e nespole parer poi 'ncoronate,

le porte fien serrate

e tutte al buio indietro torneranno

e in bocca al drago tuo si troveranno.

Un atteggiamento più scanzonato e irriverente attesta l'altro sonetto: Costor che fan sì gran disputazione (cxlv) scritto per dileggiare le dispute sull'anima:

Costor che fan sì gran disputazione

dell'anima, ond'ell’entri o ond'ell’esca,

o come il nocciol si stia nella pèsca,

hanno studiato in su 'n un gran mellone.

Aristotele allegano e Platone

e voglion ch'ella in pace requïesca

fra suoni e canti, e fannoti una tresca

che t'empie il capo di confusione.

L'anima è sol, come si vede espresso,

in un pan bianco caldo un pinocchiato,

o una carbonata in un pan fesso.

Il componimento suscitò certo non poco scandalo, poiché parecchie furono le risposte fattegli per confutarlo.

Direttamente col Ficino il Pulci se la prese in altri sonetti: Se Dio ti guardi, Marsilio Ficino (XCVI); Marsilio, questa tua filosofia (xcvii); O venerabil gufo soriano (XCVIII); Buona sera, o misser - Vieti' zà, va drento, che forse per intervento del Magnifico, nella prima edizione (e quindi nelle successive, ricalcate su quella) furono modificati in modo che non si avvertisse contro quale bersaglio erano diretti.

Il Ficino, evidentemente non destro nel maneggiare l'agile arma del sonetto, rispose con quattro lettere latine, stampate poi nel primo libro dell'epistolario fìciniano, a Bernardo Pulci, a Bernardo Rucellai, a Lorenzo e a Giuliano de' Medici.

Contro i dotti dell'Accademia platonica, che non dovettero risparmiare al Pulci le critiche quando venne messo a stampa per la prima volta il Morgante (1478), è diretto anche il più tardo accenno del poema (XXVII, 41; dopo il 1479).

S'arrivò al punto che, non sappiamo precisamente quando, un agostiniano predicatore parlò dal pulpito contro il poeta (XXVIII, 42-46).

A un certo momento il Pulci tuttavia mutò atteggiamento: nelle ottave 112-113 del cantare XXIV egli si dichiara pentito delle pratiche magiche a cui si era per lunghi anni dedicato, e nella così detta Confessione (che par piuttosto da intitolare Credo, cfr. XXVIII, 44, 6) rinnega il proprio scetticismo di fronte ai miracoli e all'immortalità e i versi irriverenti prima scritti sul Salvatore.

Questa specie di conversione fu opera di fra Mariano da Gennazzano, dotto, elegante e fervido predicatore protetto dal Magnifico, cui si allude sotto il nome di «Serafino» nella Confessione e nel poema (XXVIII, 145, 5); e avvenne presumibilmente intorno al 1479, perché a questo anno sembran da riportare le ottave n 2-113 del cantare XXIV.

Le contese col Franco e col Ficino non dovettero giovare al Pulci, perché le sue relazioni con Lorenzo mutarono: il 20 settembre 1476 il poeta scriveva al suo antico protettore: « Ricordati di me quando se' col Baccio, ché altrimenti non credo te ne ricordi; ché da un pezzo in qua, o io ho avuto vaiuolo o morfea, o i' sono cresciuto, che tu non mi ricognosci » (Lett. XLII, p. 152).

Ma frattanto egli aveva cercato altrove quello stabile collocamento che il libero mecenatismo mediceo, alieno da certe consuetudini principesche, non gli poteva assicurare, ed era entrato al servizio di Roberto Sanseverino, uno dei più notevoli capitani dell'epoca.

Al nuovo signore fu devoto come all'antico, al punto da mettere il nome di Roberto a uno dei figli, come a un altro mise quello di Lorenzo.

Tra il 1474 e il 1479 troviamo il Pulci durante l'inverno a Firenze o alla Cavallina, una sua possessione in Mugello; durante la buona stagione a Bologna col Sanseverino. Nell'aprile del 1474 egli fu anche a Pisa, nell'ottobre del 1479 a Milano, sempre col suo signore.

Nell'agosto del 1484 era, ancora con lui, a Bagnolo. Il Sanseverino aveva intenzione di nominarlo suo procuratore a Firenze, con uno stipendio annuo di 50 o 60 ducati: sarebbe stata, finalmente, la quiete e la sicurezza. Ma il Sanseverino volle prima essere accompagnato a Venezia, dove gli si preparavano grandi feste. Ammalatosi in viaggio, il Pulci fu còlto dalla morte a Padova, fra l'ottobre e il novembre 1484. Sventurato anche in morte, fu seppellito come eretico, fuori di terra consacrata e a lumi spenti.

Il Pulci cominciò indubbiamente il rifacimento dell'Orlando popolare come un giuoco. In principio non dovette avere altro intento che quello, propostogli da Lucrezia, di dare veste dignitosamente letteraria a un'opera rozza e ingenua.

Ma ciò implicava, già in partenza, una profonda alterazione e deformazione del racconto.

Nell'opera del canterino popolare la primitività dei motivi e la modestia dei mezzi di espressione si corrispondono; l'enfasi elementare del concepimento distacca nella stessa misura ogni tratto e l'insieme di quel mondo goffamente eroico dalla realtà quotidiana: dal che nasce una specie, inferiore e semplicistica, di armonia. Perché lo sguardo del cantore popolare è serio, e sincera la sua fede nelle immagini create dalla fantasia.

Il Pulci non è dotto, ma non è né ingenuo né semplice. E tanto lontano dal credere a quel mondo, che non si preoccupa per nulla dei difetti di struttura del racconto, delle sue incoerenze, del ripetersi di situazioni e di episodi; anzi, dove la ripetizione non è, gli accade di introdurla, p. es. sdoppiando l'episodio della minacciata impiccagione di Ricciardetto. Arriva a sottolineare assurdamente certe differenze (XII, 24, 1-2) e giustificazioni (XV, 21, 1-3), ma non a rifondere la materia o almeno a sanare le minute contraddizioni.

Il suo atteggiamento è quello lievemente canzonatorio dell'uomo colto, che contraddice in maniera consapevole all'abbandono col quale il popolino tesse e ascolta un racconto meraviglioso. La ammiccante malizia, la implicita derisione dell'andamento narrativo della fonte diventa talora satira scoperta (IV, 31, 1-4; v, 60, 7 - 61, 3; VI, 32, 7-8).

Ma in modo più continuo si esercita sul «mito» popolare l'influenza deformatrice del particolare gusto del Pulci. Temperamento alieno dalla grandezza e dalla gentilezza cavalleresca, egli trova stimolo alla fantasia soltanto nella realtà modesta, o plebea, o picaresca.

Nell'ambiente borghese e mercantesco di Firenze il vagheggiamento pensoso di un ideale nobile e lontano, la nostalgica e sognante ammirazione del Boiardo per un mondo ormai tramontato, sarebbe inconcepibile.

Il Pulci trasferisce il racconto su un piano di arte schiettamente novellistica: la scena tracciata a linee sommarie ma grandiose si trasforma in scenetta o in bozzetto; non l'eroismo, ma l'intrigo è il movente dell'azione; anche il rapporto tra i personaggi è mutato: il protagonista non è più Orlando, austero ed eroico, ma di volta in volta Gano, subdolo e molle, o Morgante, manesco e grossolano, o il furfante Margutte, o l'avventuriere Rinaldo.

È stato detto giustamente che tra Orlando e Morgante, se c'è uno che renda possibile l'esistenza fantastica dell'altro, conciliandogli l'attenzione del lettore, questi è Morgante (I, 68-74; VII, 31-34).

A tale personaggio, appena abbozzato nell’Orlando, il Pulci ha dato tratti di ruvida bonarietà e di simpatica irruenza: immaginandone l'attaccamento a Orlando (XVIII, 182,7-8; XIX, 156, 7-8) e la commozione facile (VII, 11, 1), ne ha fatto un po' il tipo del forte ingenuo. Ma il «tema di Morgante» è quello della vitalità esuberante e puramente fisica, della violenza primitiva e irrazionale (II, 46, 6-8; VII, 40, 4 - 41, 8; 49, 1- 51, 6; X, 46-47; XIX, 168-176). Che cosa vale la spada meglio temprata e più famosa, in confronto dell'anonimo e rozzo battaglio del gigante? Né clava erculea né mascella asinina fecero mai tanta strage.

Soprattutto in riferimento a Morgante la fame e la voracità hanno nel poema figurazioni di alta e accesa fantasia (XVIII, 196, 1-5; XIX, 82, 1-6; 95, 1-2).

Nessuno meglio del Pulci ha rappresentato l'impeto imperturbato di una bassa vitalità. Del «tema di Morgante» la fantasia del poeta si compiace, tanto che esso affiora continuamente anche dove Morgante non è in scena.

La lettura dei ventitré cantari, assai più che il clangore degli acciai e il tinnire delle lance sugli scudi, lascia nell'orecchio un confuso boato d'improperi (XII, 46, 3-4; XXII, 126, 7 - 127, 8) e di schiaffoni (IV, 30, 1-4), di legnate (IV, 30, 7-8) e di motti sanguinosi (III, 26, 1-3; XV, 48, 6), un rimbombo di salti (X, 50, 7-8), tonfi (X, 142, 8) e ruzzoloni (X, 65, 3-6). Al gusto di menare il colpo è dato molto maggior rilievo che al dolore del colpito. La prodezza muscolare è celebrata con allegria; ai lividi (X, 147, 8), alle ferite (X, 54, 8; 148, 6-8), alle mutilazioni (XXII, 182) s'accenna appena per meglio colorire la bellezza tecnica della batosta.

Gli arrosti giganteschi (IV, 35-36; XVIII, 153, 8- 155,2) e la cervogia (IV, 34, 7; x, 77), i fegatelli che si struggono in bocca (XVIII, 124-126) e i ghiotti intingoli (XVIII, 127) solleticano l'estro del poeta. Come Morgante, così Rinaldo ha un appetito formidabile (11, 24; XXII, 42, 5; 44, 1-2).

E stato detto assai bene che «il lato bestiale di Morgante viene fuori con maggiore efficacia nell'episodio di Margutte, un personaggio che si direbbe escogitato per mettere in luce lo scudiero di Orlando, se Margutte non avesse a sua volta un'energia di lineamenti che ne fa il più bel tipo del Pulci. Margutte, mezzo gigante, è un concorrente alla tavola di Morgante, e serve quindi a dar rilievo all'insaziabilità del gigante autentico, ai suoi bisogni animaleschi. Di fronte al pericolo di dover dividere con il suo compagno l'elefante arrostito, Morgante diventa astuto e sornione: gli promette di serbarglielo finché Margutte sia tornato con la provvista dell'acqua; e quando Margutte torna e, non vedendo più l'elefante, protesta, Morgante gli risponde: «Io non ti fallo verbo, Margutte, poi che 'n corpo te lo serbo». È un'astuzia elementare, suggerita dall'istinto, un'arguzia grossa, del taglio di Morgante. Ma certo Margutte lo anima: Morgante, appena lo vede, si rallegra e motteggia. L'alacrità furfantesca e la furfantesca lepidezza di Margutte sono comunicative; appena egli compare, il poema si fa più luminoso e frizzante» (Momigliano). E che intorno alla figura di Margutte si cristallizza, per così dire, un altro dei temi predominanti del poema: la descrizione gioconda e spregiudicata della ribalderia.

Vi sono zone, nel Morgante. che tendono al colore del romanzo picaresco: Orlando, che «solea sempre dar bastoni e spade All'oste, quando i danar gli mancavano» (XXI, 131, 1-2); Rinaldo, che si dà al brigantaggio con Astolfo (XI, 19-21), o appicca fuoco ad un quartiere di Parigi e comincia a «rubar botteghe e case» (XII, 29, 2), o entra in Saliscaglia «E ruba il cuoco e saccheggia il fornaio» (XXII, 162, 5), non serban nulla dell'antica dignità.

Il famoso e originalissimo episodio di Margutte ha una sua funzione nell'economia dell'opera: non è un'inserzione casuale e arbitraria, ma addirittura la contropartita del mondo eroico e cavalleresco. Questo mezzo gigante ci appare l'incarnazione di una specie di ideale negativo, o di controideale della cavalleria e della virtù guerriera, il concretarsi, in genuina forma artistica, di quella opposizione «latente» alla materia che conferisce a tutto il rifacimento dell' Orlando il suo accento inconfondibile. «Non c'è eroismo di cavaliere che s'imprima nell'immaginazione come la pagina del Dormi, l'avventura più originale di tutto il romanzo. Una pagina che ci riporta spontaneamente alla tradizione novellistica toscana» (Di Pino). La liberazione di Florinetta per opera di due cavalieri erranti del tipo di Morgante e di Margutte diventa, in quella specie di fantastica celebrazione del vizio e dell'allegra volgarità, una vera e propria parodia delle imprese nobili e gentili.

La novità del Morgante rispetto alla tradizione è nello spostarsi dell'attenzione e degli umori dello scrittore, in quell'accento che poggia su motivi iperbolicamente e fantasticamente deformati (VII 43-44). La stessa confessione di Margutte (XVIII, 115-142) è dominata dalla compiacenza dell'esagerazione e da uno spirito di vanteria ciarlatanesca.

Al tema della violenza e a quello della ribalderia se ne intreccia un terzo, che il Momigliano ha chiamato il «tema di Gano». È il tema degli intrighi e delle beghe di corte: in cui il Pulci «trovava la materia adatta ad essere trattata con quella comicità maliziosa, con quella drammaticità rumorosa, con quel tono basso e pettegolo, che formano tutt'insieme la più vera caratteristica della sua ispirazione». Si veda la scena del ritorno di Gano a corte e della lite fra Ulivieri e Rinaldo (XI, 2-18), o meglio ancora i discorsi di Gano a Diliante (XVII, 75-86) e all'Arpalista (194-207): che si possono dire creazioni interamente del Pulci.

Questi temi richiedono e presuppongono una disposizione e vocazione realistica. Tutto rivolto agli aspetti appariscenti delle cose, alla vita esteriore e fisica, il Pulci «vede» e rappresenta personaggi e scenette con la bravura di un disegnatore esperto che fissa definitivo il gesto di un istante con linea netta e incisiva, con segno preciso e sicuro.

I sentimenti non sono approfonditi né analizzati, sono visti nel loro profilo più semplice e lineare. Dice benissimo il Getto: «La poesia del Pulci tende, evitando ogni effettiva presa di contatto con la segreta e mobile realtà spirituale della vita dell'anima, ad indugiare sull'esterno disegno dei volti e dei gesti, e ad esaurire in macchietta vivida il suo pittoresco senso umano»: «E stava in pie come un pilastro saldo, A veder di costor la gran tempesta» (XV, 26, 1-2); «Come Rinaldo scorgeva la dama, Par che sia tratto il cappello al falcone, E tutto si rassetta in su la sella E in qua ed in là con Baiardo saltella» (XVI, 64, 5-8); «Rinaldo stava tuttavia in su l'ali Come il terzuol, per dibattersi a quello» (XVIII, 92, 3-4. Anche XX, 65-66; ecc.). E si rilevi p. es. l'evidenza grafica del ritratto di Meridiana a mensa (VI, 17-18). La straordinaria vivezza dei dialoghi (XXI, 57, 1-5 ; 59, 2-4; XXIII, 32), quella che fu elegantemente definita «la suggestione drammatico-teatrale» del poema, nasce anch'essa da questa abilità nel cogliere con immediatezza e precisione gli aspetti della realtà. Sembra che il dialogo conservi perfino ciò che di solito va perduto in una trascrizione, la mimica e il gesto: «... Badalon, se tanto vali, Come ti fe' cader qui il mio fratello?» (XVIII, 92, 5-6); «Se tu ti pon' cotesta lancia al petto, Io torrò quaggiù l'arbor della nave» (XXII, 179, 5-6): dove gli avverbi corrispondono a un cenno della mano.

Le disposizioni più autentiche del Pulci si riflettono nella scelta lessicale. La qualità dello stile che anche il lettore più sprovveduto rileva immediatamente nel Morgante. è infatti la preferenza per i modi efficaci e pittoreschi, per le locuzioni saporite e corpose, e perfino triviali e beceresche.

Un gusto linguistico particolare trattiene lo scrittore, quasi sempre, in una sfera di fiorentinità popolare e plebea: «E ferno a scoppia corpo per un tratto, E scuffian, che parean dell'acqua usciti» (I, 67, 1-2), «micci, buffetti, ciuffalmosto, piluccare, pancia, coscia, mostaccio, mostaccione, ciuffare, toccar col dente, spulezzo, le budella, a culo ignudo»: le espressioni volgari si moltiplicano, si colgono ad apertura di pagina. Il Pulci adopera immagini grossolane: «I destrier ci hanno grattata la rogna Tra mille sterpi» (IV, 23,3; XII, 57,5; XXII, 131,5); «E cominciò a grattarsi il gorgozzule» (XXII, 163, 5); toglie paragoni alla sfera dei fatti comuni e umili: «e spiccò il capo che parve d'un pollo» (IV, 15, 8); «E poi pigliava Ulivier come un torso» (IV, 65, 6; XVII, 85, 6); «E féssel tutto come un cacio cotto» (V, 60, 6); attinge soprattutto a quel patrimonio di frasi proverbiali scherzose e allusive che è proprio del parlar vivo ed espressivo: «far lezzo» (II, 40, 6; VII, 52, 8); «schiacciare un sonaglio» (II, 11,3; VI, 15, 8; VII, 12, 7; 43, 4); «stare in cagnesco» (III, 54, 8; VII, 39, 6; XXIII, 8, 3); «sgranchiar le mani» (III, 71, 4); usa serie verbali di tono comunque non sostenuto e familiare: «il me' che seppe» (I, 16, 4; XV, 73, 5; XVI, 107, 7; XVII, 16, 1); «tenere a tedio» (V, 8, 4; VII, 28, 6; XI, 18, 3; ecc.), e vere e proprie formule, come quelle con cui cominciano spesso i discorsi diretti (VI, 50, 8; 51, 6; VIII, 46, 4; XIV, 89, 1; ecc.).

Rilevare questi caratteri innegabili della poesia pulciana non significa né ridurre il senso del Morgante a quello di satira del mondo cavalleresco, né definire il Pulci «poeta popolare».

Luigi è un letterato, come il Magnifico e il Poliziano, anche se il suo bagaglio culturale è più tenue: ignaro di greco, egli conosce bene, nel testo latino, le Metamorfosi e le Eroidi di Ovidio, le Ecloghe e l'Eneide di Virgilio. La sua familiarità con la Divina Commedia non lo distingue dai canterini popolari, che anch'essi l'hanno cara e vi attingono versi e movenze, ma egli ha in comune con una cultura più raffinata la venerazione per il Petrarca.

Un gusto tutto letterario della parola grossa e calda, una sorta di dilettantismo quasi estetizzante lo porta a compiacersi di un forte e caricato colorito plebeo: che è, in direzione opposta, un artificio non dissimile da quello delle Stanze polizianesche.

Il Pulci non è un umanista: gli mancano quel culto della forma, quella preoccupazione dell'eleganza e sostenutezza che sono propri del nostro umanesimo. Ma c'è in lui ugualmente una forma di umanesimo alla rovescia, e perfino di accademismo: quello stesso dei poeti alla burchiellesca e dell'autore del Pataffio.

Nella ricerca insistente di un linguaggio ardito e vario, rientrano le bestemmie, di una truculenza tutta superficiale (X, 58, 1-2) e definite spesso nel loro carattere di giuoco verbale dalia presenza dell'ossimoro (I, 35, 6; X, 62, 2; XX, 98, 8); le imprecazioni (XVI, 74, 2-4), e le tiritere d'insulti nelle quali la violenza plebea è esagerata a bella posta (XIV, 7).

E si veda con quale impegno il Pulci va a cercare elementi lessicali perfino nella lingua delle zone appartate e periferiche della società: preceduto anche in ciò da qualche scrittore dugentesco, egli ravviva talvolta il suo linguaggio con una pennellata gergale (XVIII, 122, 5-7).

Alle parole tolte alla lingua popolare con quel gusto amoroso del vocabolo vivo e calzante e sonoro che ha distinto in ogni tempo certi scrittori toscani, si aggiungono parole rare e strane: «caffettano» (VIII, 27, 6); «cammuccà» (VIII, 53, 4); «salamalecche» (XII, 6, 6); «ciriffo» (XIV, 6, 7); «nasserì bizeffe» (XVII, 68, 8); «talacimanno» (XVII, 133, 4); e perfino qualche parola coniata con ardita compiacenza dal poeta stesso: «Ed una gran dragata diè a Morgante» (XIX, 38, 3).

Se il taglio sbrigativo delle scene, la semplicità delle situazioni, la drammatica elementare delle azioni (ciascuna delle quali di regola trova risonanza solo nelle ottave immediatamente successive), la linea facile su cui la favola del romanzo va svolgendosi, il giustapporsi sul medesimo piano di episodio a episodio, senza interferenze o complicazioni, conservano all'opera un'aria popolaresca, ciò in certo senso fa parte dell'atteggiamento del poeta, e d'altronde gli permette di fissar l'attenzione sulla varia e mobile gamma di effetti che si può trarre dalla parola vivace ed espressiva. «L'intesa col lettore si stabilisce su altro piano che quello di una partecipazione al dramma del guerriero, su un piano di immediata comunicativa, sulla viva pagina, dove la metafora, degradante, ironica, spesso filata all'estremo, e i paragoni, le iperboli, e il parlar proverbiale e familiare costituiscono gli autentici colori, la vera nota dell'episodio» (D. De Robertis).

Letterarietà, dunque; ma letterarietà che si configura in una specie di reazione anti-letteraria, in una opposizione, voluta e conscia del proprio carattere, alla lingua eletta, leggiadra e schiva della poesia colta.

Se questa, erede di una lunga e aristocratica tradizione, ha scelto come proprio inarrivabile modello il raffinatissimo Petrarca, il Pulci rinnova, nella concretezza realistica del lessico e nel carattere plebeo della fraseologia, certi caratteri della poesia giocosa del Duecento. Il contrasto è consapevolmente accentuato fino a dar luogo a motivi di parodia ben più che accennata (III, 17, 4-8; XV, 102, 1-4).

Quanto più la lingua poetica culta è generica e astratta, tanto più il Pulci sembra compiacersi del termine tecnico preciso e insostituibile: si vedano le locuzioni marinaresche usate nel ventesimo cantare, o certe ricche serie di vocaboli riferentisi all'arte della scherma (VII, 54, 1-3), o taluni elenchi di strumenti musicali (XVI, 25, 3-5).

Quanto più la lingua letteraria tende a costituirsi in espressioni di valore universale, tanto più il poeta del Morgante.mostra la sua preferenza per quella parte del patrimonio lessicale e fraseologico fiorentino che, priva del crisma letterario, non è arrivata (né arriverà in séguito) a imporsi a più vaste cerchie: non solo compaiono «drizzar le some» (I, 82, 4) o «posar le some» (XXVIII, 31, 3); «scambiare il porto» (VI, 51, 4); «pigliar due colombi a una fava» (VII, 26, 8); «parer mill'anni» (II, 11, 5; 34, 1; VI, 26, 7; ecc.); ma anche «pigliare al boccone come i ranocchi» (II, 21, 8; VII, 27, 5; XVII, 48, 4); «mandare al rezzo» (V, 51, 6) ; «guarir del sordo», (V, 54, 3); «far come l'asino del pentolaio» (VI, 19, 8); «dir ch'a suo modo zampogni» (VII, 17, 4); «dire l'orazione della bertuccia» o «il paternostro della scimia» (XVI, 78, 8 e 89, 8); «non istare a pigliar lucciole» (XVIII, 34, 1), e mille altre espressioni che meno di un secolo dopo il fiorentino Varchi non attingeva, come avrebbe voluto far credere, alla lingua viva, ma estraeva dal testo del Morgante, in parte fraintendendone il significato.

Frasi di tal genere si accalcano talora in una medesima ottava, conferendole quel sapore quasi dialettale spesso rilevato dai critici (XVI, 58).

Né meno significativa è la frequenza delle allusioni: un ricco materiale aneddotico accentua il carattere municipale di questa poesia in cui non il pettegolezzo di quartiere, come in Rustico o nel Pucci, ma aspetti e atteggiamenti così del popolino come della società aristocratica divengon materia di accenni e richiami efficaci a suscitare effetti realistici o umoristici. Vi troviamo la credenza superstiziosa: «E non è tempo a questo a dar del pane, O dir che san Donnin gli alleghi i denti» (IV, 66, 6-7); l'usanza locale o la moda: «E qua sa d'altro già che melarance» (IV, 61, 8); «Rinaldo quando vide la donzella, Tentato fu di farla alla franciosa» (VI, 9, 1-2; cfr. IX, 65, 2); «A ogni casa appiccheremo il maio» (VI, 19, 7); l'apologo o la favoletta popolare: «Fuggitevi, ranocchi, ecco la biscia» (XXII134, 7); il personaggio proverbiale: «E mangia e bee ed insacca per due erri» (XIX, 139, 1). Perfino il racconto evangelico diventa materia proverbiale: «E' pareva ogni volta che mugghiava, Quando Cristo- Quem quaeritis? - diceva» (VII, 42, 1-2).

Una genuina vocazione guida il Pulci sulla via di una popolarità per così dire riflessa e letteraria: la frase proverbiale si amalgama e fonde col suo discorso, atteggiandovisi con una libertà che le toglie l'aspetto di formula fissa (III, 59, 6-60, 3). Talora fioriscono le variazioni, e rivelano nello scrittore la stessa capacità creativa che ha dato un carattere arguto e allusivo alla lingua del popolino della sua Firenze: la capacità creativa che manca, non solo a linguaioli pedanti come gli autori della Tancia e del Malmantile, ma anche a quel meccanico raccoglitore di riboboli che fu il Sacchetti (VI, 27, 2; XVIII, 129, 3-4; XIX, 40, 8 - 41, 2; 53, 1-3; 70, 7-8). Vediamo il poeta scherzare sulla parola, che assorbe la sua attenzione in modo indipendente dal contesto e gli suggerisce amplificazioni affatto eccentriche rispetto ad esso (V, 40, 3-4; VIII, 74, 5-6; XVII, 117, 1-2; XXIII, 6, 8).

In una sfera di arguzia e malizia popolare si resta coi nomignoli: «il Dormi» (xviii, 169); «ser Bellesai» (XXII, 25, 8); «ser Tuttesalle» (XXII, 37, 2) e coi personaggi immaginari come «Pagol Benino» (XX, 28, 6) e «mona Onesta da Campi» (XXII 227, 7).

La tendenza al realismo come spontaneo atteggiamento fantastico è evidente nelle frequentissime espressioni metaforiche. Il fatto che esse risultino attinte per lo più alla lingua popolare è una conferma della preferenza, certo implicitamente polemica, per ciò che ha sapore e colore risentito e violento. Il poeta si vale con grande libertà della lingua espressiva e ammiccante del volgo fiorentino: «Egli è nato di granchi» (V, 55, 1) significa che il «mostro da l'inferno» è andato a rifugiarsi nella sua buca; Orlando, non turbato dalle allusioni di Meridiana, è «corbacchion di campanile» (VI, 68, 5); la mischia è un «rigoletto» (VII, 39, 1; 52, 7); il menar colpi nella zuffa è un «toccare a martello» (VII, 55, 4); la frase: «Deh, fa che questa lepre balzi fuora» (XXII, 101, 8) significa il desiderio di sapere una cosa non chiara. Sapore umoristico hanno espressioni come «schiacciar l'uova» (I, 68, 4); «levar la mosca» (III, 5, 7; VII, 50, 1); «far gli occhi del bavalischio» (VI, 19, 5); «succiar di molte uova» (VII, 42, 7).

Di analogo gusto e natura sono le immagini non propriamente tratte dalla lingua popolare: «... Il falcone ha cavato il cappello: Non so se starna ha veduta o acceggia» (IV, 55, 5-6); «Questo ne vien tosto al fischio» (Vii, 19, 3).

Nella medesima zona di preferenze si rimane con certi spostamenti semantici che sottintendono una comparazione e non differiscono per nulla dall'attività linguistica che crea fra i parlanti termini nuovi coll'attribuire agli antichi un nuovo significato: «potare» per tagliare le mani (III, 5, 5); «imbeccarsi» per mangiare attraverso il «becco» della visiera (III, 44, 5), e così via (III, 50, 5; 73, 5).

E chiaro che la struttura sintattica in cui si dispongono e adagiano spontaneamente elementi lessicali e fraseologici della natura che si è venuta illustrando, non è il periodo rotondo e complesso alla latina. Il difetto di meditazione e di approfondimento come il gusto dell'immediatezza espressiva, la natura dell'ispirazione stimolata dagli aspetti materiali e sensibili delle cose, come la fedeltà al tipo linguistico istintivamente prescelto, portano insieme a un unico risultato: la prevalenza assoluta della paratassi sulla ipotassi. La paratassi è imposta dalla legge della coerenza tonale: ogni volta che si manifesta (sempre per opera di letterati) l'esigenza dialettica di una reazione anti-letteraria, il «discorso» popolare viene imitato altresì nei moduli sintattici, che sono appunto quelli più semplici ed elementari.

Tuttavia, anche in questo campo, qualcosa dice che non vi è alcuna necessità, all'infuori di quella del gusto, nella scelta dello strumento più modesto: perché il letterato colto si piglia la rivincita nelle inversioni e negli enjambements, in particolari di disposizione e distribuzione degli elementi lessicali, che non sono propri della sintassi popolare: «Diceva Leonardo già Aretino» (I, 5, 1); «Per questa cruda fera e maladetta» (IV, 43, 7); «S'io non commissi inganno mai né frodo» (XI, 2, 3); «Contro a questo crudel signore e fello» (XVIII, 25, 5); «E come dato per fato era e sorte» (XXIII, 36, 5). Ed esercitazione letteraria dilettantesca, ancor prima che ghiribizzi di fantasia estrosa, sono certe rime: «pistacchio: bacchio: batacchio» (V, 49); «vischio: fischio: bavalischio» (VI, 19); «galluzza: spruzza: raggruzza» (XXII, 233), quest'ultima, si noti, identica a una del sonetto cavalcantiano: Guata, Manetta, quella scrignatuzza; e certi bisticci: «E sbuffan beffe con ischerno e scorno» (XI, 96, 8): «La casa cosa parea brutta e bretta» (XXIII, 47).

Così la fantasia del Pulci, tutta calata in questo mondo terreno, non vi si profonda né perde; anzi mantiene quel tanto di distacco necessario per placare la «materia» e farla oggetto di spianata narrazione, di diletto estrinseco e marginale, di scherzoso virtuosismo. La poesia, non scarsa né volgare, nasce per lo più come poesia riflessa, cosciente e auto-ironica: il labbro del narratore è aperto a un lieve sorriso, ironico e cordiale insieme; e frequenti sono le espressioni di quell'umore «narquois» che sprizza dall'intesa ammiccante con un lettore del pari smaliziato e che stia al giuoco.

Eppure, se questi sono i caratteri più vistosi della poesia del Pulci, essa non è tutta qui; poiché corre nel poema anche una vena affettuosa e patetica. È l'accorata tristezza del lamento di Manfredonio (VII, 71), o il pianto senza conforto della sua gente che parte (VIII, 3-4); è il dolore angosciato di un vecchio padre (XI, 62, 1-4), 0 la mestizia languida di un ultimo desiderio d'amore (XII, 67-68).

L'accento di serietà spirituale che appena si avverte qua e là nel Morgante. diventa predominante nel poema sulla rotta di Roncisvalle costituito dagli ultimi cinque cantari.

Non che sia completamente cambiato il modo della rappresentazione, o che il poeta abbia perduto affatto il gusto delle immagini sbarazzine e pittoresche (XXIV, 91-103;XXV, 7, 5-6; 163, 5; XXVII 1, 56; 99, 4-5); ma il tono generale è un altro, e non certo, come ebbe ad affermare il Symonds, per la differenza della fonte. Questa, che è ora la Spagna in rima, viene trattata con una libertà nuova, non tanto per le variazioni apportate alla trama (di per sé già più significative e intonate di quelle fatte all’Orlando), quanto per la complessità e coerenza con cui il racconto vien concepito.

La materia è guardata con serietà perfino meditativa, l'approfondimento psicologico dei personaggi è episodico, ma evidente, e soprattutto la figura del traditore è ricca di una giustificazione che manca al Gano dei primi cantari (XXV, 48).

In rapporto con la maturità della concezione sta il sapore stilistico in complesso diverso della seconda opera. Il tono arriva a essere solenne, perfino epico, e spunti e motivi biblici e danteschi (XXVII, 164, 5 - 166, 2; XXVII, 201) sono sfruttati con scaltrezza molto maggiore che non siano per esempio i richiami un po' gratuiti e superficialmente commossi al racconto della Passione nella scena della minacciata impiccagione di Astolfo (XI, 85). Mentre nella prima parte la poesia era solo un giuoco, qui ha accenti epici e tragici.

Che tutto ciò sia in relazione con l'acquisto di una più vasta cultura da parte dell'autore, sarebbe assurdo affermare. Nell'intervallo corso fra la composizione del primo e quella del secondo poema, il Pulci ha studiato, o almeno consultato, parecchie opere: le traduzioni latine di Diogene Laerzio, di Diodoro Siculo, di Filostrato Ateniese; quella italiana della Storia naturale di Plinio; la Farsalia e la Tebaide; il trattatello di Pomponio Mela e il De animalibus di Alberto Magno; il Fons memorabilium universi di Domenico di Bandino, la Vita Caroli di Donato Acciaiuoli, la Città di vita di Matteo Palmieri, e probabilmente qualche opera di Paolo dal Pozzo Toscanelli e di Marsilio Ficino. Ma noi possiamo ripercorrere questo itinerario culturale del Pulci e seguirlo nella sua mobile curiosità, proprio perché le nozioni restano esteriori e meccaniche (e spesso anche posticce e imprecise). Anzi, appunto esse costituiscono il peso morto, la zavorra dei cinque cantari.

Per esempio, le reminiscenze bibliche, dantesche, liturgiche, riescono a mantenere nella scena del trapasso di Orlando una tensione commossa, e a renderla assai superiore all'episodio analogo di Spinellone (l'accenno alla porta del paradiso che si chiude, XXVII, 158, è uno scherzo che non arriva a comprometter l'insieme). Invece la parafrasi della Vita Caroli del- l'Acciaiuoli (XXVIII, 72-101) non è illuminata da alcuna luce di poesia.

Qui è il luogo di accennare al problema del sentimento religioso del Pulci. Nel primo poema, la convenzionalità inerte delle invocazioni iniziali, la rappresentazione meccanica delle conversioni senza dramma, da quella di Morgante (I, 39-43) a quelle di Marcovaldo (XII, 64-66) e di Spinellone (XVIII, 75-87); la mancanza di appiglio psicologico per l'opera di apostoli che si assumono i paladini e specialmente quel «miscuglio di manesco generoso di crapulone di libertino e di brigante» che è Rinaldo, dicono solo una cosa: che la religione tradizionale è ben morta per il Pulci, qualunque possa poi essere il suo atteggiamento formale.

Non è neppur vero quello che è stato affermato, che in questi passi c'è una serietà impassibile: se nel fare della catechizzazione e del battesimo un mezzo per il raggiungimento di fini molto terreni (vili, 8-12) il Pulci segue senza reazione il suo goffo modello, nella storia della conversione di Fuligatto vi è un franco sorriso di canzonatura (XXIII, 27, 8; 28).

Sembra che il Pulci vada man mano prendendo confidenza con la materia e allargando e arricchendo la rappresentazione. E quindi dagli ultimi cantari del Morgante che possiamo trarre qualche lume sulla vessata questione della religiosità pulciana: in essi, certe considerazioni dolenti e pessimistiche, sproporzionate alla situazione alla quale si riferiscono: «però noi non facciam mai ignun disegno ...» (XXI, 82); «dunque cosa non ciè che sia sicura» (XXI, 165, 6), messe a confronto con gli accenni alle pratiche magiche (XXI, 47, 7 - 49, 6) denunciano nel poeta qualcosa che lo fa in pieno, anche per questo rispetto, uomo aperto ai problemi del suo tempo: «il senso di un configurarsi nuovo dei rapporti fra l'uomo e la realtà ultima, fra l'uomo e le cose», «la fine di una sicurezza, la nascita di una ricerca tormentata, in una direzione ancora non chiara» (E. Garin).

Non darei molta importanza alle dottrine esposte da Astarotte nel cantare XXV: che mi sembrano dettate dal puntiglio di dimostrare una competenza teorica, o dal desiderio di compiacere a un invito del Magnifico, forse scontento dei dissapori fra il poeta e il Ficino. Esse hanno come risultato di guastare e soffocare la figura di Astarotte, che, concepito come personificazione della forza serena dell'intelligenza, o come titanico ribelle, o come ironica vivente negazione dei suoi stessi insegnamenti, avrebbe potuto essere la seconda grande creazione del Pulci.

Un soffio di religiosità autentica spira invece nella scena della morte d'Orlando: religiosità che non può non avere anch'essa il sapore che dicevamo, se il poeta confessa non molto prima:

ancor resta nel cor qualche scintilla

di riveder le tanto incantate acque,

dove già l'ascolan Cecco mi piacque

Bibliografia

Opere minori:

Sonetti di

Per la biografia:

G. Volpi, Luigi Pulci, Studio biografico, in «Giorn. stor. d. lett. it. », xxii, 1893, pp. 1-64; C. Carnesecchi, Per la biografia di Luigi Pulci, in «Arch. stor. it. », S. v, vol. XVII, 1846, pp. 371-9; F. Flamini, La vita e le opere di Bernardo Pulci, in «Propugnatore», N. S., I, 1888, P. 1, pp. 217-48; S. Morpurgo, Tre amici: il Magnifico, il Pulci, il Poliziano, in «Rivista d'Italia», A. xvii, 1914, voi. i, pp. 40-54; i. dlil Lungo, Florentia. Uomini e cose del Quattrocento, Firenze, Barbèra, 1897, pp. 228-31; G. Volpi, Un cortegiano di Lorenzo de' Medici (Matteo Franco) ed alcune sue lettere, in « Giorn. stor. d. lett. it. », XVII, 1891, pp. 229-76; j. Owen, The skeptics of the Italian Renaissance, London, 1893; A. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, ivi, Carnesecchi, 1902, pp. 820-32; E. Walser, Lebens- und Glaubensprobleme aus dem Zeitalter der Renaissance: Die Religion des Luigi Pulci, ihre Quellen und ihre Bedeutung, Marburg, 1926 (Die neueren Sprachen, Beiheft 10); E. Walser, Umanità e arte nel Rinascimento italiano. Versione dal tedesco di M. Corssen. Introduz. di E. Garin, Firenze, Le Monnier, 1942; E. Walser, Gesamnielte Studien zur Geistesgeschichte der Renaissance mit einer Einflihrung von W. Kaegi, Basel, B. Schwabe, 1932, pp. 283-8.

Opere d'insieme:

C. Pellegrini, Luigi Pulci: l'uomo e l'artista, Pisa, Nistri, 1912. «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», voi. XXV; C. Pellegrini, La vita e le opere di Luigi Pulci, Livorno, Giusti, 1914. « Biblioteca degli studenti»; C. Curto, Pulci, Torino, Paravia, 1932.

Per la valutazione critica del poema:

A. Momigliano, L'indole e il riso di Luigi Pulci, Rocca San Casciano, Cappelli, 1907; G. Volpi, La comicità nel Pulci, in «La Cultura», XXVII, 1908, pp. 550-3; 582-5; L. Pirandello, L'umorismo. Saggio, Lanciano, Carabba, 1908, pp. 73-82; poi in Saggi a cura di M. Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1939, pp. 71-81; B. Croce, Saggio su l'Ariosto, in «La Critica», XVI, 1918, pp. 105-8; poi nel vol. Ariosto, Bari, Laterza, 1927, pp. 89-95; U. Biscottini, L'anima e l'arte del Morgante, Livorno, Giusti, 1939; E. Carrara, Rolando e Rinaldo all'insegna del Morgante, in «Erma», III, 1932, pp. 513-38; poi: Orlando e Rinaldo all'insegna del Morgante, nel vol. Da Rolando a Morgante, Torino, Erma, 1932, pp. 146-204; I. Bussani, Luigi Pulci e il poema cavalleresco, Torino, Bocca, 1933; G. Dì Pino, L'intuizione popolare del «Morgante»; Il burlesco nel «Morgante», in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», S. II, voi. III, pp. 331-45; 493-524; poi a parte col titolo: Saggio sul Morgante, Bologna, Zanichelli, 1934; J. A. Symonds, Renaissance in Italy, New York, Modem Library, 1935, voi. II, pp. 122-32; A. Momigliano, Il Morgante, nel «Corriere della Sera», 16 dic. 1930, poi in Studi di poesia, Bari, Laterza, 1938, pp. 33-9; C. Previtera, Il riso del Pulci, in La poesia giocosa e l'umorismo (dalle origini al Rinascimento), Milano, Vallardi, 1940, pp. 285-99; G. Fleres [A. Momigliano], Luigi Pulci, nella Storia illustrata della letteratura italiana scritta da un gruppo di studiosi, Milano, Garzanti, 1942, pp. 39-41 ; G. Di Pino, Premessa aI Morgante, in «La Nazione», 30 agosto 1941, poi nel volumetto: Tesi di critica letteraria e due prose, Milano, Casa ed. Leonardo, 1944, pp. 63-7; G. Getto, Studio sul Morgante, Como, Marzorati, 1944; B. Bart, Aspects of the comic in Pulci and Rabelais, in «Modem Language Quarterly», xi, 1950, pp. 56-63; L. Russo, La dissoluzione del mondo cavalleresco: il «Morgante» di L. Pulci, in «Belfagor», vii, 1952, pp. 36-54; G. Di Pino, Novità del «Morgante», in Linguaggio della tragedia alfieriana e altri studi, Firenze, La Nuova Italia, 1952, pp. 51-60; G. Vallese, Il «Morgante» e l'antiumanesimo del Pulci, in «Italica», XXX, 1953, pp. 81-5; D. De Robertis, I piaceri del «Morgante», in «L'Approdo», iii, 1954, pp. 43-5°.

Una Rassegna della bibliografia pulciana (1811-1952), con molte inesattezze, è stata pubblicata da G. Fatini in «Atti e Memorie dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria», voi. XVII, 1951-1952, pp. 205-66.

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