Taparelli d'Azeglio, Luigi

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica (2013)

Luigi Taparelli d’Azeglio

Giovanni Vian

Il gesuita Taparelli fu un protagonista di parte cattolica del periodo del Risorgimento. Egli ha svolto un ruolo decisivo sul piano della riflessione filosofico-giuridica sulla società e sullo Stato nell’ambito della Chiesa cattolica durante l’Ottocento, nella fase centrale del Risorgimento. Fu fautore e precursore della restaurazione del tomismo come strumento intellettuale per la critica dello Stato moderno e base speculativa per la ricostruzione cristiana della società. Il pontificato di Leone XIII si mosse in continuità con ampia parte di quegli indirizzi.

La vita

Prospero, figlio di Cesare, marchese D’Azeglio, e di Cristina, contessa Morozzo di Bianzé, fratello di Roberto e di Massimo, nacque a Torino il 24 novembre 1793. Nominato per decreto napoleonico allievo della scuola militare di Saint Cyr, riuscì a ottenerne la dispensa con l’aiuto del padre, che si era ormai schierato con Pio VII nella crisi di rapporti che lo contrapponeva all’imperatore. Studiò a Siena e a Torino, quindi, trasferitosi a Roma al seguito del padre subito dopo la restaurazione dello Stato pontificio, nel 1814, assunse il nome Luigi in occasione dell’ingresso nella ricostituita Compagnia di Gesù.

Dopo l’ordinazione sacerdotale nel 1820, fu rettore nel collegio di Novara e, dal 1824 al 1829, del Collegio romano, l’ateneo dei gesuiti. Dal 1829 al 1833 fu preposito della provincia napoletana. Dal 1833 al 1850 docente al Collegio Massimo di Palermo. Tra il 1840 e il 1843 pubblicò il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, in cui delineava i fondamenti della società secondo i principi del tomismo (edizione accresciuta e definitiva in due volumi, 1855).

Si avvicinò alle posizioni neoguelfe, sviluppate dal cugino Cesare Balbo e da Vincenzo Gioberti, per tentare un accordo tra cattolici e liberali moderati, e sollecitò la Compagnia di Gesù a non rinchiudersi nell’opposizione a ogni novità, che confermasse la fama di fautrice degli ordinamenti assolutistici di cui essa godeva e a impegnarsi piuttosto a sostenere la partecipazione politica dei cattolici nei nuovi ordinamenti rappresentativi per difendere gli interessi della Chiesa in una situazione considerata difficile per la religione.

I moti del 1848, il ricorso alla violenza e alla rivoluzione per realizzare la causa nazionale, cui pure Taparelli aveva inizialmente tenuto senza però derogare alla fedeltà propria dei gesuiti verso l’istituzione ecclesiastica e in particolare verso il papa; gli esiti e gli strascichi di quei sommovimenti e il radicalizzarsi dell’anticlericalismo – soprattutto attraverso le disposizioni varate in Piemonte durante il primo governo del fratello Massimo e culminate nelle leggi Siccardi (1850) – lo indussero ad assumere una posizione di opposizione al liberalismo, ai sistemi rappresentativi, alla democrazia, e a individuare nella rivoluzione del 1848 un passaggio chiave che metteva fine a ogni possibile sviluppo nei rapporti tra cattolici e liberali. In seguito, questi orientamenti furono espressi con durezza nell’Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna (1854, 2 voll.), opera destinata a influenzare profondamente la cultura cattolica intransigente.

Nel frattempo, nel 1850 Taparelli era stato richiamato a Napoli e poi a Roma per collaborare alla fondazione e quindi alla redazione, per i temi filosofici e sociali, del nuovo quindicinale dei gesuiti «La civiltà cattolica», di cui in seguito assunse anche la direzione. Morì a Roma il 21 settembre 1862.

L’adesione al tomismo e il suo rinnovamento

Taparelli può essere considerato uno dei principali precursori della restaurazione del tomismo che mosse i primi passi proprio in Italia agli inizi dell’Ottocento. La sua adesione al tomismo risale agli anni del rettorato nel Collegio romano, come risposta all’esigenza di offrire un sistema formativo unificato, capace di soppiantare le correnti filosofico-teologiche dominanti, in un contesto segnato da un certo pluralismo di indirizzi. Alla ricerca di un rinnovamento del tomismo come pensiero capace di esprimere la verità, alla fine degli anni Venti Taparelli entrò in contatto, per ottenerne chiarimenti su alcune problematiche, con Antonio Rosmini-Serbati, che era a sua volta impegnato a favorire la riaffermazione, in termini innovativi, della filosofia dell’Aquinate. Tuttavia, durante il rettorato al Collegio romano, Taparelli poté promuovere la rinascita della scolastica solo in mezzo a resistenze, in conseguenza degli articolati orientamenti allora dominanti nella Compagnia di Gesù (Thibault 1972).

Nel 1829 l’avvento alla guida della provincia romana di un padre di orientamento antiaristotelico comportò lo spostamento di Taparelli a Napoli, come provinciale. In quella sede, dove rimase fino al 1833, poté dare impulso allo sviluppo del neotomismo. Il circolo che si formò attorno al padre Serafino Sordi, tra i primi e più zelanti propagandisti del tomismo all’interno dell’ordine gesuitico, si dedicò soprattutto a questioni attinenti la politica e il diritto naturale, secondo un orientamento moderato, poco in linea con il rigido legittimismo allora dominante nelle corti restaurate della penisola. Cominciava così ad attuarsi quella saldatura tra rinascita del tomismo e interpretazione degli sviluppi sociali e politici contemporanei (intesi come sostanzialmente avversi al cattolicesimo e alla Chiesa) a cui la riflessione speculativa avrebbe dovuto apportare criteri e strumenti per rafforzare l’unità dottrinale e operativa dei cattolici e ricostruire una società di tipo ierocratico: un modello di consorzio civile caratterizzato dall’adesione ai principi cattolici enunciati dal magistero ecclesiastico e fondato sul riconoscimento della dimensione sacrale del potere politico, ben rappresentato nell’unità dei poteri tipica del monarca, contro ogni evoluzione degli ordinamenti in chiave costituzionale e rappresentativa. Di quella corrente di pensiero Taparelli sarebbe diventato uno dei principali teorici.

Il Saggio teoretico e il rapporto con Gioberti

Anche se nella provincia napoletana non mancavano gravi problemi, fu la reazione allarmata nei confronti delle posizioni filosofico-politiche sviluppate in quegli anni che portò all’allontanamento di Taparelli da Napoli e al suo trasferimento in Sicilia. Si aprì allora una fase nella quale la sua posizione filosofica, come contraccolpo dei provvedimenti del 1833, pubblicamente appare assai meno influenzata dai principi della scolastica. In questo periodo risultano non infrequenti i riferimenti di Taparelli alle posizioni di Joseph de Maistre e di Victor Cousin. Seppure con lo scorrere del tempo procedesse a una critica crescente verso lo spiritualismo e l’eclettismo sviluppati da Cousin e dai suoi continuatori, egli riconobbe loro di avere reagito al sensualismo e all’idealismo trascendentale fino allora dominanti aprendo la via a una riconsiderazione positiva della filosofia scolastica medievale, caratterizzata dalla centralità della metafisica. La sua riflessione si concentrò così sull’applicazione della ‘nuova’ metafisica al ‘diritto naturale’, alle teorie morali che egli, soprattutto nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, intese esaminare non solo nei loro risvolti speculativi, ma anche nella loro applicazione all’ambito individuale e a quello del consorzio sociale.

Proprio la critica a Cousin era stata per Taparelli una prima occasione di apprezzamento di Gioberti. La pubblicazione nel 1840 dell’Introduzione allo studio della filosofia contribuì a rafforzare l’amichevole stima di Taparelli per l’autore, che in quel periodo lo contraccambiava, impegnandosi a favorire la diffusione del Saggio teoretico in Germania e in Francia. Soprattutto tra il 1843 e il 1845 il gesuita piemontese, ormai residente a Palermo da oltre un decennio, risulta condividere l’ontologismo in filosofia e, con qualche riserva, i progetti politici neoguelfi di Gioberti. Ancora nell’edizione livornese del Saggio teoretico di diritto naturale (1845) Taparelli risultava largo di riconoscimenti nei confronti dell’opera di Gioberti. Ben presto però tra i due filosofi subentrò una fase di rottura polemica, innescata dalle dure critiche di Gioberti, dapprima nei Prolegomeni (1845) e poi ne Il gesuita moderno (5 voll., 1846-1847), contro la Compagnia di Gesù, nonostante che in entrambi gli scritti ricorressero apprezzamenti individuali nei confronti di Taparelli. Questi, quando nel giugno 1845 fu sollecitato dal padre Johann Philipp Roothaan, generale dei gesuiti, a rispondere pubblicamente a Gioberti soprattutto per smentire l’accusa che i vertici della Compagnia soffocavano la libertà intellettuale dei suoi appartenenti, preparò comunque una lettera che lasciava aperta la via per una mediazione e insieme, riservatamente, pose al padre Roothaan la questione di rimediare agli eventuali eccessi di zelo compiuti da alcuni confratelli piemontesi con le loro critiche ai sistemi di insegnamento e di assistenza promossi dalle istituzioni del Regno (Carteggi del p. Luigi Taparelli d’Azeglio della compagnia di Gesù, a cura di P. Pirri, 1933). Mantenuta su toni di rispetto personale da entrambi gli interlocutori, la polemica fu accresciuta dalle diverse posizioni tra Gioberti e Taparelli verso il processo risorgimentale, quella di Gioberti segnata dall’impegno politico diretto a servizio del progetto neoguelfo, con Taparelli invece interprete più distaccato dei processi sociopolitici in corso nella penisola italiana, ma volto a una critica via via più netta dei rivolgimenti che accompagnarono la rivoluzione del 1848.

Nazioni e indipendenza

Il ragionamento proposto da Taparelli nel Della nazionalità – inizialmente concepito come nota teorica da inserire nel Saggio teoretico e pubblicato in prima edizione nel 1847, a sua insaputa – (Carteggi, cit.) riconosceva in linea di principio la naturale aspirazione delle nazioni all’indipendenza, ma di fatto la subordinava ai diritti delle altre nazioni, respingeva la via della sollevazione, prospettava la possibilità che le stesse nazioni cambiassero, affidando in ultima istanza ai governanti il compito di promuoverne l’indipendenza a tempo debito e nel modo più opportuno. Si trattava di una riflessione che, nel contesto politico di quegli anni, non poteva non suonare come favorevole al mantenimento del governo austriaco su una parte della penisola italiana e critica dei tentativi dei risorgimentali di conquistare l’indipendenza attraverso il ricorso alle armi. E come tale suscitò le rimostranze dei fratelli Roberto e Massimo, oltre che di Gioberti, che ritennero, in modo infondato, che l’opuscolo gli fosse stato commissionato dalla Compagnia di Gesù come espressione di orientamenti filoasburgici (l’indirizzo del generale Roothaan era quello di non ingerirsi nei rivolgimenti politici per evitare conseguenze negative per la Compagnia di Gesù).

L’attenzione critica al cattolicesimo liberale

Nel frattempo Taparelli aveva preso posizione anche contro la pubblicazione, da parte del fratello Massimo, dell’opuscolo Degli ultimi casi di Romagna (1846), con una lettera in cui ne lamentava il tono d’invettiva contro il romano pontefice, l’implicita tendenza a considerare irriconciliabili il liberalismo e il cattolicesimo italiano (con conseguente danno alla stessa causa risorgimentale), la sollecitazione all’insurrezione contro il governo pontificio, la richiesta di introduzione della costituzione, la declericalizzazione dell’amministrazione dello Stato, la laicizzazione dell’istruzione (Carteggi, cit.). Le critiche furono respinte da Massimo D’Azeglio, il quale manifestò al fratello gesuita la convinzione che se il papa non avesse avviato un programma di riforme dello Stato pontificio, questo sarebbe crollato.

L’attenzione che Taparelli aveva mostrato verso le concezioni dei cattolici liberali trovava ragione nelle dinamiche storiche allora prelaventi, tese a un’evoluzione degli ordinamenti in chiave rappresentativa, con la conseguente necessità di affidare ai laici cattolici il compito di assumere, sotto la propria responsabilità, la tutela dei principi religiosi. A differenza del cattolicesimo liberale, per Taparelli si trattava di impegnare il laicato cattolico nella politica per difendere gli interessi ecclesiastici affidandogli un ruolo di mera supplenza, nell’impossibilità che nei regimi rappresentativi vi provvedessero direttamente l’episcopato o il clero. L’ottica rimaneva interna ai progetti intransigenti di ricostruzione cristiana della società. E in quei termini Taparelli si era attivato in Sicilia durante la prima fase delle sollevazioni popolari nel 1848. Non a caso, già nel Della nazionalità egli aveva mostrato di non condividere gli elementi fondamentali della teoria moderna dello Stato, laddove aveva denunciato come idolo della società europea del tempo il progresso civile, nel quale – accanto alla separazione tra commerci e industria, la libertà, la moderazione e l’esaltazione e la ricerca dell’indipendenza delle nazioni – faceva rientrare le concezioni sulla divisione dei poteri nell’ordinamento statuale.

Il contributo alla riflessione del cattolicesimo intransigente

Il progressivo prevalere ai vertici della Chiesa di un approccio ideologico – condizionato dal riferimento al modello della cristianità medievale – nell’interpretazione dei fatti che avevano corso in quei decenni, portò alla definitiva chiusura politica e sociale dopo le rivoluzioni del 1848 e all’abbandono di ogni prospettiva di modifica degli ordinamenti statuali in chiave rappresentativa e costituzionale e di riforma delle stesse istituzioni ecclesiastiche come auspicava Rosmini. In Taparelli il rifiuto del liberalismo – anche nella forma cattolica prospettata da Charles Forbes conte di Montalembert e Henri-Dominique Lacordaire, che sollecitavano ad accettare un rapporto di separazione tra Stato e Chiesa – divenne netto e definitivo solo nel giro di qualche anno, sotto la spinta degli orientamenti anticlericali che andavano prevalendo nella politica piemontese e delle posizioni antiliberali e cattolico-intransigenti di Pio IX, manifestate con nettezza nell’enciclica Nostis et nobiscum (8 dicembre 1849).

In una lettera di Taparelli al padre Roothaan del 26 marzo 1850 è ferma la convinzione, già presente nel Saggio teoretico, che il protestantesimo fosse la causa del «gran male d’Europa, anche in politica» (Carteggi, cit., p. 289), in particolare dalla pace di Westfalia in avanti: l’eresia in campo religioso generava dispotismo ed esaltazione dello Stato ovunque il protestantesimo riuscisse a estendere la propria influenza sui governi, minava il principio d’ordine e apriva la via alla libertà di pensiero e di stampa, con ciò stesso dando spazio alla libera circolazione dell’‘errore’ accanto alla ‘verità’. Tuttavia, la sua sempre più evidente, marcata avversione ai sistemi rappresentativi sul piano teorico, non gli impediva ancora di suggerire una prassi di indifferenza rispetto alle forme costituzionali, quando introdotte volontariamente dai legittimi monarchi, allo scopo di assicurare una minima libertà d’azione per la Chiesa e la Compagnia di Gesù, di fronte alle tendenze giurisdizionalistiche che egli giudicava predominanti nelle politiche dei governi dell’epoca.

Ma ormai gli orientamenti di fondo di Taparelli si andavano ridefinendo attorno a una visione pessimistica sulle possibilità dell’uomo di compiere il bene quando non guidato dall’autorità superiore della Chiesa e delle sue gerarchie e correlativamente, in sede civile, da governanti legittimi ricettivi verso i dettami ecclesiastici. Era una visione che si stava affermando anche grazie al contributo fornito dalla sua riflessione (in particolare con gli articoli pubblicati su «La civiltà cattolica» e con l’uscita dell’Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna), come tipica del cattolicesimo intransigente e specularmente alternativa a quella dell’uomo moderno e della sua pretesa autonomia nella sfera dei comportamenti individuali e soprattutto del governo della società (serrata e implacabile la demolizione della concezione moderna dello Stato svolta nell’Esame critico): una linea destinata a caratterizzare a lungo il magistero papale, fin dentro il Novecento.

Taparelli rese più aspri i propri interventi pubblici, di taglio sempre più chiaramente controversistico, anche se a livello personale, a differenza di gran parte dei polemisti cattolici dell’epoca, il gesuita tenne un atteggiamento sereno nei confronti degli avversari. D’altra parte era sua convinzione che nelle polemiche che dividevano cattolici e liberali, a chi era dedito alla meditazione del Vangelo non potesse fare difetto la carità, e che pure coloro che erano mossi da interessi politici dovessero almeno rifarsi a quello spirito di tolleranza che a suo avviso era proprio dell’epoca (Carteggi, cit.). Non è un caso che anche nei confronti dei seguaci del protestantesimo, alle cui dottrine Taparelli aveva attribuito la responsabilità dell’evoluzione negativa della storia europea negli ultimi secoli, a livello personale mostrasse un atteggiamento misurato (Miccoli 1985). In una lettera del 17 febbraio 1860 a Karl Witte esprimeva la convinzione e la possibilità di una non lontana riunificazione della Chiesa sotto il papato a mano a mano che si estinguevano «le animosità di partito» e si allargavano e generalizzavano «i problemi, ridotti ormai nel campo più della ragione che del testo biblico», preludio perché «gli animi retti (che sono molti fra i nostri fratelli separati)» (Carteggi, cit., p. 703), deponendo le preoccupazioni che avevano causato la rottura, trovassero l’accordo attorno all’unica verità razionale.

Nell’ultimo quindicennio di vita l’impegno di Taparelli per la restaurazione del tomismo fu posto al servizio del progetto del cattolicesimo intransigente, volto alla ricostruzione cristiana della società (Miccoli 1985).

Conferme e riprese

La concezione della società elaborata da Taparelli alla luce del tomismo trovò in seguito conferma nel magistero di Leone XIII. Papa Gioacchino Pecci, che negli anni Venti era stato allievo del Collegio romano durante il rettorato di Taparelli, nel 1879, con l’enciclica Aeterni Patris, sancì ufficialmente la restaurazione del tomismo nella Chiesa come strumento intellettuale a sostegno della critica della modernità e per la ricostruzione di una società cristiana, alla cui realizzazione si dedicò con il suo articolato insegnamento, orientato sui principi della scolastica. Lo schema dottrinale sotteso al complesso tentativo intrapreso da Leone XIII corrispondeva a quello che aveva caratterizzato a suo tempo la riflessione di Taparelli.

Ma ancora nel Novecento ci si rifece alle teorie filosofico-giuridiche di Taparelli. Durante il fascismo vi fu chi (per es. Vincenzo Fani Ciotti, su «Critica fascista», 1° maggio 1924), a causa della sua serrata critica agli ordinamenti liberali pensò di individuarvi un inconsapevole precursore del movimento politico guidato da Benito Mussolini, non cogliendo quanto la riflessione del gesuita piemontese ne risultasse invece incompatibile, con la sua affermazione, centrale nella sua visione, della superiorità della Chiesa cattolica nel rapporto con gli Stati a favore di un modello cattolico di società, e la sua avversione a ogni forma di statolatria (Di Simone 1976). Un’ulteriore ripresa del pensiero di Taparelli ebbe corso durante la Resistenza, quando le sue considerazioni rientrarono tra le basi teoriche utilizzate dal clero per approfondire le possibilità e i limiti di una ribellione a un governo di fatto, come quello della Repubblica sociale italiana.

Opere

Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto. Opera corretta ed accresciuta dall’autore, Palermo 1840-1843, 5 voll. (Livorno 1845; Napoli 1850, 2 voll.; Roma 1855, 2 voll.).

Della nazionalità. Breve scrittura del p. Luigi Taparelli d’Azeglio, rivista e accresciuta notabilmente dall’autore con una risposta del medesimo alle osservazioni di Vincenzo Gioberti, Firenze 18492 (1a ed. Genova 1847).

Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna, 2 voll., Roma 1854.

Carteggi del p. Luigi Taparelli d’Azeglio della Compagnia di Gesù, a cura di P. Pirri, Torino 1933.

Legge fondamentale d’organizzazione nella società, e Sulla libertà di associazione, in G. De Rosa, I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del ’48. Con documenti sulla condotta della Compagnia di Gesù e scritti inediti di Luigi Taparelli D’Azeglio, Roma 1963, rispettiv. pp. 166-88, e pp. 211-45.

Bibliografia

P. Thibault, Savoir et pouvoir. Philosophie thomiste et politique cléricale au XIXe siècle, Québec 1972.

M.R. Di Simone, Stato e ordini rappresentativi nel pensiero di Luigi Taparelli d’Azeglio, «Rassegna storica del Risorgimento», 1976, 63, pp. 139-51.

G. Miccoli, Chiesa e società in Italia fra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985, pp. 21-92.

F. Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull’idea di nazione, in Id., Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, pp. 43-62.

F. Traniello, Religione, Nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1992, 28, pp. 319-68.

L. Di Rosa, Luigi Taparelli. L’altro d’Azeglio, Milano 1991.

E. Abbate, Luigi Taparelli D’Azeglio e l’istruzione nei collegi gesuitici del XIX secolo, «Archivio storico per le province napoletane», 1997, 115, pp. 467-516.

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