Mafia

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Complesso di organizzazioni criminali sorte in Sicilia nel 19° sec., diffuse su base territoriale, rette dalla legge dell’omertà e strutturate gerarchicamente.

Storia

La m. nacque come braccio armato della nobiltà feudale per la repressione delle rivendicazioni dei contadini. A fine Ottocento si strinsero i legami tra m. e politica, con l’ascesa di mafiosi al potere locale e l’affermarsi della prassi dello scambio di voti e favori, mentre si consolidava un rapporto di dominio-protezione della m. sul territorio in cui operava. Il salto di qualità coincise con l’emigrazione meridionale negli USA agli inizi del 20° secolo. La m. assunse allora un ruolo importante nell’immigrazione clandestina, imponendo il proprio controllo sulla forza-lavoro e il racket sulle attività dell’area occupata, e intensificando le pratiche di scambio elettorale. Negli anni 1920 la domanda contadina di terra e le misure governative per la formazione di nuove proprietà permisero alla m. di porsi come intermediario tra latifondisti e cooperative contadine.

Durante il fascismo C. Mori, prefetto di Palermo (1925-28), fu inviato a stroncare la m., intercettandone i tradizionali legami con la politica locale e rivendicando il monopolio statale della violenza. Tra il 1943 e il 1945 la m., a cui gli Alleati si erano appoggiati per preparare lo sbarco, strinse rapporti con il movimento separatista e, dopo il 1945, con esponenti dei partiti al governo, che la legittimarono come forza antisindacale, anticontadina e anticomunista. Mentre le cosche locali si radicavano nel tessuto degli enti regionali, i mafiosi rientrati dagli USA fecero della Sicilia la centrale mediterranea del narcotraffico e del traffico di armi. La m. del palermitano si organizzò quindi in ‘cupola’ (Cosa nostra), avviò un processo di controllo della criminalità organizzata e individuò nuovi settori di profitto (edilizia, mercati generali, appalti), configurandosi negli anni 1960 come m. ‘urbano-imprenditoriale’.

Negli anni 1970-80 la m. divenne protagonista del narcotraffico, intrecciando rapporti con organizzazioni straniere. Nel 1979 iniziò una violenta offensiva volta a rimuovere gli ostacoli alla sua crescita con l’uccisione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mentre si verificavano anche grandi conflitti intestini, dai quali emerse vincitore il gruppo detto dei Corleonesi. Vittime della m. sono caduti, tra gli altri, P. Mattarella nel 1980, P. La Torre e il generale C.A. Dalla Chiesa nel 1982 e il giudice R. Chinnici nel 1983. Culmine di tale guerra è stato nel 1992 l’assassinio dei giudici G. Falcone e P. Borsellino, del finanziere N. Salvo e del deputato democristiano S. Lima. Nel frattempo, però, le rivelazioni di una serie di mafiosi ‘pentiti’ hanno consentito di compiere passi importanti nella lotta antimafia, istituendo fra l’altro un maxiprocesso a più di 400 persone nel 1986: sono stati arrestati i boss corleonesi L. Liggio, S. Riina, nel 2006 B. Provenzano, insieme a moltissimi altri capimafia, e nel 2023, dopo trent'anni di latitanza, M. Messina Denaro.

Il fenomeno mafioso

La parola m. comparve nel 1863 prima in una commedia dialettale e subito dopo in un documento della questura di Palermo. Tra Otto e Novecento, e fino a oggi, con essa è stata indicata una fenomenologia criminale tipica della parte centro-occidentale della Sicilia, caratterizzata da profondo radicamento nella cultura locale e da connessioni con il potere politico ed economico. Dagli imprenditori di vari settori dell’economia legale (commercio, edilizia, agricoltura) i mafiosi pretendono tangenti promettendo di ‘proteggerli’ contro la delinquenza, ossia da altri gruppi di m., e spesso per questa via diventano essi stessi imprenditori. Altra attività è il commercio illegale (stupefacenti, armi, prodotti di contrabbando) anche su larghissima scala.

In passato il fenomeno mafioso è stato considerato frutto di strutture economico-sociali particolarmente arretrate, di un universo sociale composto da poveri contadini, grandi latifondisti e grandi affittuari, i cosiddetti gabellotti, dai cui ranghi provenivano molti capimafia. Altrettanto consolidata è l’interpretazione che chiama in causa una cultura ‘mediterranea’ lontana dai concetti moderni di Stato e legalità, incline a regolare i conflitti facendo ricorso alla legge non scritta della vendetta o faida. Secondo tale lettura, la famiglia più o meno patriarcale sarebbe il fulcro dell’organizzazione mafiosa, e la Sicilia ‘tradizionale’ esprimerebbe quest’unico modello di aggregazione sociale. La m. tuttavia è riuscita a impiantarsi o riprodursi anche nell’ambiente ben più progredito degli Stati Uniti, attraverso flussi migratori e traffici di scala transoceanica, e nel suo stesso luogo d’origine è sopravvissuta con grande facilità al mutamento storico-sociale intervenuto con l’avvento della modernità.

Struttura e dinamiche della mafia

La m. ha le caratteristiche di una società segreta, o di un insieme di società segrete, sia pure collegate al complesso della cultura o della società siciliana, nelle quali si entra attraverso un rito di affiliazione e che restano stabili nel tempo in determinati territori. Oggi tale organizzazione viene indicata come Cosa nostra ma anche in passato, quando quest’espressione non esisteva, si sapeva che la m. si articolava in gruppi locali, i quali talvolta potevano agire d’accordo tra loro, in altri casi competere e anche confliggere violentemente. Con riferimento all’intrigo che in quei luoghi si consumava, questi gruppi erano detti cosche, nasse, o anche talora partiti.

Non è peraltro vero che nell’Ottocento siciliano la famiglia fosse l’unico modello possibile di aggregazione sociale. In quei tempi l’isola conosceva un fiorire di confraternite, società di mutuo soccorso, circoli, e nel passaggio al nuovo secolo anche una complessa struttura di partiti locali. Queste associazioni da un lato rappresentarono modelli disponibili, e dall’altro luoghi all’interno dei quali le fazioni più o meno mafiose poterono occultarsi. Per spiegare i caratteri di segretezza e particolare compattezza riscontrabili nelle ‘fratellanze’ di m., molte fonti ottocentesche chiamarono in causa anche il modello delle logge massoniche, terreno classico degli intrighi dei gruppi dirigenti.

Guerre di m. e guerra alla mafia

Nel passato le istituzioni oscillarono tra lunghi periodi di tolleranza e tentativi più o meno fortunati di repressione, come l’operazione condotta alla fine degli anni 1920 dal prefetto Mori. Quanto ai movimenti antimafia, un preconcetto piuttosto diffuso vuole che prima degli anni 1970 non ne esistessero affatto. È vero invece che i movimenti contadini, in particolare nel secondo dopoguerra, si sono mobilitati contro il latifondo e appunto contro i gabellotti mafiosi; che si sono avute grandi mobilitazioni di piazza e di stampa in occasione di eventi traumatici precedenti, come gli assassini dell’ex direttore del Banco di Sicilia, E. Notarbartolo, e del poliziotto italoamericano J. Petrosino. Troppo spesso la stampa (e talora le forze politiche e la magistratura) descrive la m. come un nemico onnipotente capace di controllare tutto e tutti. Si tratta di una semplificazione comprensibile, alla luce della lunga durata del fenomeno e del raggio delle complicità di cui esso ha goduto e tuttora gode, ma che in questa forma estrema risulta erronea sotto il profilo fattuale, nonché controproducente sotto quello etico-politico. Infatti la tesi secondo la quale l’avversario non è stato mai contrastato può comportare l’idea che esso non sia contrastabile, inducendo nell’opinione pubblica o nelle stesse autorità sconforto e passività. La m. può essere efficacemente combattuta, ed è stata in particolare combattuta con buon successo sia in Italia sia negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni 1980, grazie a nuove leggi, nuove istituzioni specializzate nel contrasto alla criminalità organizzata, e agli stessi drammatici conflitti interni all’universo mafioso che hanno visto molti affiliati (i pentiti) collaborare con le autorità e rivelare i segreti dell’organizzazione.

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