ANTELAMI, Magistri

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

ANTELAMI, Magistri.

F. Gandolfo

Con questa dizione vennero identificati a Genova gli appartenenti a una corporazione medievale delle arti murarie della quale, peraltro, non si sono conservate notizie di capitoli anteriori al 1439. Antelamus (od. Intelvi) è toponimo d'uso altomedievale per designare una vallata tributaria del bacino del lago di Como. È probabile che all'origine del formarsi della corporazione vi sia stato un fenomeno migratorio. Esso si poté verificare in seguito all'esistenza, ipotizzabile, ma non provabile, di un diploma regio o imperiale di immunità rispetto alle autorità locali che, concesso agli abitanti della valle, consentì loro di operare al di fuori del proprio territorio. Una menzione di carpentieri provenienti dalla valle di Intelvi ricorre in un diploma del 929 rilasciato a favore di S. Pietro in Ciel d'Oro di Pavia da re Ugo il quale, richiamandosi a un'analoga concessione di Liutprando (712-744), permise al monastero un utilizzo che ebbe in seguito vari rinnovi, almeno fino al 12° secolo. Maestri di legname intelviesi vengono inoltre ricordati, come addetti alla costruzione di macchine belliche, in un passo del poemetto dell'anonimo comense sulla guerra decenne (1118-1127), mentre muratori originari della valle furono attivi a Brescia nella seconda metà del sec. 12°, anche se del tutto infruttuosi sono stati i tentativi di circoscriverne l'attività nell'ambito del monastero di S. Salvatore. Solo a Genova, per la particolare situazione della città, incline per incrementare il proprio sviluppo a favorire i processi migratori con salvaguardia dei diritti acquisiti, il fenomeno portò alla formazione di una corporazione. La menzione dei magistri A. ricorre negli atti notarili genovesi dal 1157, dimostrando l'esistenza ormai stabilizzata di una situazione giuridica diversa dalla semplice migrazione di manodopera. I magistri A. mantenevano stretti legami con le zone di origine alle quali facevano periodicamente ritorno; il fatto non aveva solo valore affettivo, ma anche natura giuridica, in quanto consentiva loro di gestire certi ambiti, come il diritto di famiglia, "secundum morem et consuetudinem terre Antelami", ossia secondo quella autonomia nei confronti del diritto locale che originava dal perduto diploma che doveva essere stato alla base del fenomeno migratorio. Dai documenti emerge la piena coscienza, da parte dei magistri genovesi, della inattualità dell'antico toponimo Antelamus per individuare la valle d'Intelvi, tanto è vero che esso veniva usato solo in riferimento ai membri della corporazione, perché informava di sé i privilegi che costituivano il presupposto alla libera mobilità della manodopera proveniente dalla vallata, mentre quando si doveva indicare quest'ultima in concreto si ricorreva ai toponimi, più recenti, di Antelavus o Intelavus.L'esistenza della corporazione è provata dal fatto che i documenti della seconda metà del sec. 12° indicano che le questioni di lavoro che insorgevano tra magistri A. venivano risolte per mezzo di arbitrati interni al gruppo e che già nel 1186 comparivano, con quella definizione professionale, individui di località esterne, anche se spesso limitrofe, alla valle d'Intelvi.In passato il ruolo dei magistri A. è stato enfatizzato, attribuendo loro compiti di scultori, oltre che di architetti, e facendone gli attori in assoluto del romanico genovese. In realtà, se ci si attiene alle testimonianze documentarie, accanto all'attività di carpentieri, applicata anche alle esigenze belliche, è possibile riconoscere, non solo per il periodo medievale ma ancora per tutto il Quattrocento, prevalente se non unica, l'attività di edificatori specializzati, sulla base delle tradizioni delle terre di origine, nella messa in opera del parato murario in pietra e nella costruzione o nel restauro delle abitazioni a destinazione civile. Dagli atti della seconda metà del sec. 12° si ricava che, almeno in un caso, accanto a un magister A. compare un magister lapidum, il che lascia intendere una diversità di funzioni, ribadita da un documento nel quale il committente si impegna a fornire a un magister A. una base, una colonna e un capitello, ossia gli elementi plastici necessari per l'intervento costruttivo da mettere in esecuzione. La situazione è confermata ancora nel 1457 quando un atto notarile definisce Giovanni Gagini "magister Antelami et intaliator marmoriorum", mentre altri documenti, di poco posteriori, testimoniano di come i magistri A. affidassero i propri figli a scultori per la loro educazione in quell'arte oppure facessero società con magistri pichapetra. Questo non impedisce che in un atto del 1191 un magister A. si impegni, oltre che alla costruzione di una casa, anche a laborare marmora, ossia ad approntare gli elementi plastici per i quali tuttavia il committente deve fornire i materiali. L'elaborazione delle parti ornamentali strettamente necessarie alla costruzione è il grado più avanzato di intervento scultoreo attribuibile ai magistri A.: esso rientra nelle capacità dei singoli imprenditori, non costituendo una prerogativa generalizzata della corporazione. Del resto ancora nei documenti del 1513-1515 con cui gli scultori, che vogliono creare una propria arte, si oppongono alle proteste dei magistri A., si sostiene che questi ultimi svolgono attività esclusiva di architetti e che sono privi di qualunque competenza nella scultura, tanto che, dovendo affidare commissioni di statue, spesso consigliano ai clienti come ottime delle opere di pessima qualità.I soli edifici medievali di Genova che potevano essere riferiti con sicurezza a un intervento antelamico erano la chiesa e il monastero di S. Tommaso, distrutti sul finire del secolo scorso. L'indicazione si ricava da un atto notarile del 1186 che riferisce dell'arbitrato svolto da due magistri A. in merito a una controversia sorta all'interno della corporazione. Un magister A., Domenico, sosteneva di dover prendere parte alla costruzione della chiesa di S. Tommaso, mentre il lavoro era stato assegnato dalla badessa ad altri due, Uprando e Lorenzo, prima che a lui. La decisione degli arbitri fu che la costruzione spettasse a Uprando e Lorenzo, ma che essi non dovessero intervenire nelle parti relative al monastero, la cui esecuzione fu probabilmente lasciata a Domenico.La chiesa di S. Tommaso si presentava divisa in tre navate da cinque arcate di ampiezza decrescente. L'abside centrale era affiancata da due laterali, a terminazione rettilinea, coperte da volte a botte. Lo stesso schema si ripeteva nella cripta, coperta con crociere poggianti su due file di colonne. Il presbiterio, sopraelevato, era coperto da tre volte a crociera, con costoloni a sezione rettangolare ai lati e torica al centro, ed era diviso, rispetto alla navata, da due pilastri compositi. Le navate dovevano essere scandite da colonne e coperte a legno, visto che le volte di cui si ha notizia erano certamente cinquecentesche. È poco probabile che appartenesse alla stessa fase costruttiva dell'edificio anche la torre nolare in cotto che varie testimonianze danno esistente al di sopra della volta centrale del presbiterio, data la differenza di materiale rispetto alla pietra da taglio antelamica. In sostanza l'edificio si allineava, a una data ormai tarda, alla tipologia mista di coperture, caratteristica del romanico genovese, che ha in S. Maria di Castello l'esempio più antico e illustre. A semplice livello di ipotesi si può pensare che la diffusione della soluzione sia stata opera delle maestranze antelamiche, vista la radicata consistenza che essa ha già nel sec. 11°, in ambito comasco, dalla S. Eufemia all'Isola Comacina al S. Benedetto in Valperlana presso Lenno; fino al S. Pietro di Biasca che si imparenta con la chiesa di S. Tommaso per la particolare forma della terminazione absidale che, negli stessi anni della fine del sec. 12°, viene accolta a Genova anche nella chiesa di S. Marco al Molo e in quella di S. Giovanni di Pré. Una reminiscenza tarda del tipo si coglie ancora, in ambito provinciale, nella chiesa di S. Margherita d'Antiochia a Vernazza, costruita a partire dal 1318. La chiesa di S. Tommaso non presentava elementi plastici di rilievo, visto che vi era usato il semplice capitello cubico accanto a pezzi di spoglio. Diverso il discorso a proposito del chiostro, realizzato dall'altra bottega antelamica. Esso si presentava a due ordini ed era caratterizzato da una marcata irregolarità, sia nell'impianto, sia nella disposizione delle aperture, pur rifacendosi a soluzioni già collaudate come quella del chiostro della abbazia di S. Fruttuoso a Capodimonte. Si conserva ancora oggi al Mus. di S. Agostino a Genova un numero cospicuo di frammenti scultorei, soprattutto capitelli a stampella e pulvini, provenienti dal distrutto complesso. Di fattura non omogenea, i capitelli sono stati spesso giudicati di epoche diverse, parte provenienti da un ipotetico chiostro altomedievale, parte pertinenti a quello antelamico. In realtà i pezzi dovettero essere tutti destinati al chiostro della fine del sec. 12°, visto che gli stessi discordanti tratti stilistici convivono nella pieve di S. Silvestro a Fanano, nell'appennino modenese. Il corredo plastico di questo edificio fu realizzato, intorno al 1206, da uno scultore che doveva avere avuto un'esperienza del cantiere di S. Tommaso, a conferma di una mobilità operativa dei magistri A. al di fuori del territorio genovese, che ha riscontro in un'epigrafe, sia pure del tardo Trecento, rinvenuta a Pignone in Lunigiana. Allo stato attuale è impossibile dire se a Fanano abbia lavorato lo stesso magister A. Domenico o uno educato nella sua bottega, oppure se a lui fosse associato, già al tempo dei lavori in S. Tommaso, uno scultore, indifferente alla corporazione, dal quale potrebbe anche essere dipeso quello poi attivo a Fanano, nel caso non si trattasse della stessa persona. Ci si trova in presenza comunque, in entrambi i casi, di opere di estrema semplicità formale, avulse da qualunque partecipazione al dibattito plastico contemporaneo, salvo legami genovesi, come quelli con i capitelli dell'ordine inferiore della torre nolare di S. Donato. Condizionate da una totale subordinazione al fatto architettonico, le sculture di S. Tommaso e di Fanano confermano la predisposizione delle maestranze antelamiche agli aspetti costruttivi, nei loro termini progettuali e tecnico-esecutivi: un atteggiamento che fu alla base del percorso disorganico, privo di una connotazione locale, che ebbe la scultura a Genova, tra il sec. 12° e il 14°, soffocata dalla preponderante presenza della corporazione in campo edilizio.

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