MAINARDO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

MAINARDO (Mainardo di Silvacandida)

Francesca Roversi Monaco

Si ignorano il luogo e la data di nascita di M.; le prime attestazioni documentarie relative alla sua persona e al suo operato risalgono alla metà dell'XI secolo.

La sua probabile appartenenza al monastero di Montecassino è attestata in primis dalla Chronica di Leone Marsicano, secondo il quale all'inizio del 1058 M. accompagnò Desiderio di Montecassino nella missione inviata da papa Stefano IX presso l'imperatore Isacco Comneno a Costantinopoli. In base alla narrazione della Chronica, infatti, l'ambasceria presso la corte orientale era composta da Desiderio, da Stefano cardinale del titolo di S. Crisogono e dal monaco Mainardo. Le cattive condizioni climatiche resero il viaggio assai difficoltoso, bloccando la legazione a Bari, dove Desiderio e compagni, la sera della domenica delle palme, furono raggiunti dalla notizia della morte di Stefano IX. Essi decisero, allora, di abbandonare i preparativi per l'imbarco e di recarsi presso il conte Roberto il Guiscardo a chiedere protezione per il ritorno a Cassino, nel timore che i Normanni, alla notizia della morte del papa, li ostacolassero. Agevolati dall'intervento di Roberto, giunsero al monastero il sabato di Pasqua; il giorno dopo, il 19 apr. 1058, si tenne il solenne capitolo dei monaci; al capitolo, nel corso del quale Desiderio fu eletto abate, parteciparono Umberto cardinale di Silvacandida (cioè Porto e Santa Rufina), il cardinale Pietro di Tuscolo, il cardinale Stefano di S. Crisogono e, appunto, M.; la partecipazione di M. e il suo status di monaco portano a ipotizzarne con una certa ragionevolezza l'appartenenza al cenobio cassinese, pur mancando esplicite evidenze documentarie.

Dal maggio del 1061 i documenti attestano l'attività di M. come cardinale vescovo nella diocesi che era stata di Umberto di Silvacandida, morto in quello stesso anno: considerando l'impegno riformatore di Umberto e il suo spessore dottrinale e morale, l'elezione di M. a suo successore indica "che egli godeva ormai di grande considerazione presso Niccolò II, così come, precedentemente, presso Desiderio di Montecassino e Stefano IX" (Gatto, 1962, p. 203).

Negli anni fra il 1059 e il 1063, infatti, M. operò a stretto contatto con la Curia papale, sottoscrivendo numerosi documenti e svolgendo una rilevante attività politico-diplomatica.

In una lettera inviata da Alessandro II il 21 maggio 1062 al re di Croazia e Dalmazia e ai vescovi dalmati (lettera che confermava alcune disposizioni emanate dal suo predecessore Niccolò II) il papa ricorda una missione compiuta nella primavera del 1060 in Dalmazia dallo stesso M., "collateralem episcopum nostrum", e dall'arcivescovo di Spalato, Giovanni, al fine di ricondurre la Chiesa della regione ai principî riformatori e alle deliberazioni del concilio Lateranense del 1059 (Ewald, pp. 329 s.). Accanto alla fallita ambasceria a Costantinopoli, quella dalmata è la seconda missione compiuta da M. prima di essere eletto cardinale, e ciò sottolinea l'importanza della sua posizione, corroborata dalla carica di cardinale-bibliotecario che egli ricoprì per Alessandro II a partire dal 1062, come attestano i numerosi privilegi da lui sottoscritti, in un caso quando era ancora un semplice monaco (Santifaller, pp. 178, 397 s.).

M. partecipò attivamente all'azione riformatrice portata avanti in quegli anni dalla S. Sede e, in tal senso, sono da considerare anche i rapporti che egli intrattenne con l'Impero germanico, attestati dai documenti e confermati da alcune missioni che egli effettuò presso la corte tedesca.

Nominato abate di Pomposa dall'imperatore Enrico IV di Franconia probabilmente nel 1063 ("Domino suo Henrico glorioso regi Mainardus cardinalis dictus episcopus Silvae candidae et sua gratia abbas Pomposiae", Briefsammlungen der Zeit Heinrichs IV., p. 67), M. fu legato a Enrico IV in maniera particolare, come dimostra una lettera del 1066, nella quale egli denuncia al sovrano l'elezione di Odelrico a vescovo di Padova. Nel testo, ricco di accenti vivaci e appassionati, M., sottolineando l'indegnità dell'uomo a ricoprire tale incarico, chiedeva a Enrico IV di non riceverlo e di non farsi impressionare dalla sua ricchezza, sollecitandolo nel contempo a punirlo con un castigo esemplare per permettere alla Chiesa patavina di rifiorire. La libertà e la franchezza di espressione con le quali M. si rivolge all'autorità sovrana testimoniano il prestigio di cui egli godeva anche presso l'imperatore, rivelando nello stesso tempo l'esistenza di un rapporto abituale e profondo (Borino, 1958, p. 65).

Nel 1065, dopo il riconoscimento di Alessandro II da parte della corte tedesca, M. fu il primo legato del papa in Germania; ciò è attestato da un brano di una lettera di Alessandro II allo stesso M. in cui è affermata la necessità che Enrico IV e il papa, prima dell'incoronazione imperiale, si promettano a vicenda la securitas (De coronatione imperiali). Con ogni probabilità M. doveva agire per preparare tale incoronazione, presupposto indispensabile al ripristino della collaborazione fra Papato e Impero, ma l'ambasceria non ottenne nulla più della ripresa dei rapporti fra la Curia papale e la corte tedesca.

Nel 1073, infine, M. accompagnò il nipote del pontefice Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, presso la corte tedesca per ricevere da Enrico IV l'investitura vescovile, investitura che Anselmo poi rifiutò, probabilmente perché gli furono imposte condizioni simoniache.

In realtà, solo l'anonima Vita Anselmi episcopi Lucensis ricorda questo viaggio di M., mentre l'altra fonte biografica di Anselmo, la Vita Anselmi Lucensis episcopi di Rangerio, non ne fa alcun cenno. È plausibile ritenere che sia stato Anselmo, da poco salito alla cattedra vescovile, a essere affidato a M., a differenza di quanto adombrato dalla fonte, dove è M. a essere dato come compagno ad Anselmo (Schumann, pp. 10 s.; Gatto, 1969, p. 73).

M. svolse, dunque, un'importante attività politica di mediazione fra la Curia papale e la corte germanica, ponendosi sulla linea d'azione di Pier Damiani, cui era legato da vincoli di stima e amicizia, come dimostra la probabile dedica a M. dell'opuscolo damianeo De perfectione monachorum (cfr. Die Briefe des Petrus Damiani, IV, 4).

Entrambi perseguivano, infatti, un orientamento politico che accanto all'idea del primato romano ammetteva l'intervento dell'Impero negli affari della Chiesa, per realizzare gli ideali della riforma sotto l'egida dell'accordo fra Regnum e sacerdotium, ed entrambi erano convinti dell'imprescindibilità di un'azione affidata anche all'Impero: in tal senso, essi rappresentavano le istanze meno intransigenti della riforma, soprattutto rispetto a quanto Ildebrando di Soana, poi Gregorio VII, sostenitore dell'antagonismo fra Papato e corte germanica, avrebbe teorizzato e realizzato.

Con ogni probabilità proprio in virtù di tale tendenza mediatrice, Alessandro II aveva inviato M. e il cardinale prete Giovanni Minuto a Milano nel 1067, nel pieno dei disordini seguiti alla morte violenta di Arialdo, capo della pataria, per tentare di pacificare gli animi e riaffermare la piena autorità di Roma frenando nello stesso tempo gli eccessi del movimento patarinico, alla cui guida si era posto Erlembaldo.

Il ruolo di mediazione rivestito dall'ambasceria è sottolineato dal cronista milanese Arnolfo, nel Liber gestorum recentium: "Per sedare questa lite in quel tempo avvenne fossero mandati a Milano in qualità di legati romani Mainardo vescovo di Silvacandida e Minuto cardinale prete, i quali mentre predicavano a tutti la pace secondo il precetto dell'apostolo con molta ponderazione provvidero a comporre un patto a proposito della morte di Arialdo. Poi, nel ruolo di giudici tra clero e popolo, stabilirono con un nobile scritto che cosa dovesse accadere nel futuro, ma Erlembaldo non contento chiese un nuovo incontro" (p. 129).

Il 1 ag. 1067 M. e Minuto emanarono le Constitutiones, importante documento che si richiamava esplicitamente alle disposizioni promulgate da Pier Damiani durante una precedente legazione inviata da Niccolò II a Milano nel 1059, per intervenire contro il rilassamento della disciplina e dei costumi del clero. Nelle Constitutiones M. e Giovanni Minuto ribadirono quanto stabilito da Pier Damiani, riaffermando la condanna di nicolaiti e simoniaci e restituendo alla gerarchia ecclesiastica locale il ruolo di guida della riforma morale e disciplinare del clero, proibendo ai laici di giudicare gli ecclesiastici e sottolineando l'obbligo di seguire la via gerarchica in ogni procedimento accusatorio nel rispetto della procedura canonica, vietando così ogni autonoma iniziativa dei patarini e limitando l'intromissione dei laici nella vita del clero.

Secondo Cracco e Violante (p. 638 n. 167) le Constitutiones di M., affermando il primato della Chiesa di Roma anche sul piano disciplinare, avrebbero avuto un ruolo liquidatorio nei confronti del movimento patarino, accusato di intaccare la dignità degli officia ecclesiastici, di imporre il giudizio dei laici ai chierici, di esercitare direttamente la violenza contro i preti: "normalizzazione, restaurazione della prassi sconvolta, ritorno all'ordine, "quia cuncta ecclesiastica officia in status sui dignitate consistere volumus": questo il senso e lo scopo delle Constitutiones" (Cracco, p. 161). Miccoli, invece, pur sottolineando la possibilità di interpretare la legazione anche come una battuta d'arresto dell'azione della pataria da parte della Curia romana, sostiene che le Constitutiones, ammettendo la possibilità per il laico di procedere in maniera autonoma se il vescovo non avesse dato seguito alle eventuali denunce, riconoscevano in parte la libertà di iniziativa dei laici in materia religiosa. In tal senso, l'inefficienza delle autorità religiose locali non poteva che legare ancora di più la pataria a Roma, per ottenere quella legittimazione che mai l'arcivescovo avrebbe concesso: "l'opera di centralizzazione di Alessandro II veniva quindi a trionfare anche per questa via, salvaguardando d'altro canto, nei limiti compatibili con le più urgenti esigenze di riforma, l'autorità della gerarchia, soprattutto attraverso il richiamo alla suprema potestà di Roma" (Miccoli, p. 211).

Dopo il 1067 M. si concentrò sui suoi compiti di abate del cenobio di Pomposa, allontanandosene solo nel giugno 1068 per partecipare al concilio Lateranense e, all'inizio del 1073, per prendere parte alla succitata missione presso Enrico IV; morì con ogni probabilità tra febbraio e marzo dello stesso anno, poiché in una carta pomposiana del 24 marzo 1073, relativa a un'investitura di beni dell'abbazia, egli non è nominato né si accenna in alcun modo all'abate in carica, mentre è un tale "Marcus praepositus" ad agire a nome del monastero (Gatto, 1969, pp. 106-109).

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