MAIONE da Bari

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

MAIONE da Bari

Berardo Pio

Figlio di Leone de Rayza e di Kuraza, nacque nei primi decenni del XII secolo da una famiglia dell'élite urbana di Bari.

Il padre, che compare nella documentazione come giudice barese tra il 1119 e il 1135, giudice regio nel 1141 e regalis supra iudex o protoiudex tra il 1142 e il 1147, morì prima del 1155; la morte della madre fu registrata nel necrologio di S. Matteo di Salerno sotto la data del 26 luglio 1158. Sono pertanto da respingere, perché dettate dalla palese avversione dell'autore, le voci raccolte nel Liber de Regno Sicilie che lo dicono di origini umili e figlio di un mercante di olio.

Dotato di capacità non comuni - nel Chronicon dell'arcivescovo di Salerno Romualdo Guarna è definito "vir utique facundus, satis providus et discretus" (p. 235) - M. fece una brillante carriera nella Cancelleria, l'ufficio di registrazione che si andava configurando come nodo del rafforzamento del potere regio, grazie al favore del re di Sicilia Ruggero II d'Altavilla che lo creò dapprima scriniario, quindi vicecancelliere e infine cancelliere.

Nell'ottobre 1144 compare per la prima volta come scriniarius, ovvero responsabile dell'archivio della Curia regia, in un privilegio concesso da Ruggero II in favore del monastero calabrese di S. Maria di Valle Giosafat; sempre con tale qualifica figura come datario in assenza del cancelliere Roberto di Selby in diversi documenti regi, datati tra l'ottobre 1144 e il febbraio 1148, che attestano la sua costante presenza presso la Curia del sovrano a Messina e Palermo. Al 1149 risale la nomina a vicecancellarius, un ufficio che sembra sia stato creato appositamente per M. e che segna il passaggio da generiche funzioni amministrative all'interno della Cancelleria a una più precisa responsabilità di governo. Subito dopo la morte di Roberto di Selby M. fu promosso all'ufficio di cancelliere e come tale nel maggio 1152 sottoscrisse un mandato in lingua araba del dīwān al-ma'mūr (duana regia) relativo a una disputa sorta per questioni di confine tra i monaci di S. Giorgio di Triocala e il signore di Calamonaci.

Non molto tempo dopo l'incoronazione di Guglielmo I d'Altavilla (4 apr. 1154), M. ottenne il titolo di magnus ammiratus ammiratorum, non semplice formula superlativa ma riflesso dei poteri straordinari accordatigli dal sovrano. Più precisamente M. si sottoscriveva come amiratus amiratorum in una copia ufficiale, datata giugno 1154, di una donazione di terre e villani in favore dei monaci di S. Nicolò del Churchuro risalente al 1149; nella documentazione successiva, tra l'ottobre 1154 e il maggio 1160, M. compare quasi sempre con il titolo di magnus ammiratus ammiratorum.

I compiti connessi con l'ufficio di grande ammiraglio, che sembra derivare dall'arabo amir al-umarā', erano confinati all'ambito amministrativo; non a caso nella tradizione musulmana, ripresa da Ibn al-Athīr, che rimprovera a M. il "tristo governo" che avrebbe determinato la ribellione della Sicilia, della Calabria e dei domini africani, egli viene chiamato visir, vale a dire "capo del governo", e non "emiro degli emiri", titolo che comportava l'esercizio di poteri straordinari basati essenzialmente sulla forza militare.

Tuttavia, il potere di M. non derivava tanto dai due importanti uffici amministrativi di cui era titolare, cancellierato e ammiragliato, che conobbero sotto la sua gestione un evidente processo di specializzazione, bensì dal rapporto preferenziale instaurato con il sovrano che delegò a M. la conduzione degli affari di Stato e lo costituì vero responsabile della politica del Regno, artefice e strumento del rafforzamento del potere centrale a scapito delle spinte centrifughe dell'aristocrazia feudale. Non a caso in alcuni documenti e nel testo del concordato di Benevento, siglato nel 1156, è definito dal sovrano "dilectus fidelis et familiarissimus noster" (Guillelmi I diplomata, p. 34): con l'assunzione del potere da parte di Guglielmo I M. finì con il riassumere nella sua persona la gestione degli affari del Regno e la funzione di unico consigliere del sovrano, esautorando di fatto la Curia regis, fino a quel momento il principale organismo consultivo della Corona.

L'accentramento del potere nelle mani di un singolo individuo viene chiaramente registrato nelle fonti principali: Falcando accusa il sovrano di aver affidato a M. "totius regni curam et administrationem" e aggiunge che l'ammiraglio "ceteros omnes excludens, cum rege singulis diebus solus habebat colloquium, solus regni tractabat negotia, regisque animum quocumque libuerat inclinabat" (p. 8); secondo Romualdo era proprio grazie ai consigli e alla saggezza di M. che Guglielmo I "regni sui negocia precipue pertractabat" (p. 237).

L'atteggiamento aspramente polemico dell'autore del Liber de Regno Sicilie nei confronti del binomio costituito da Guglielmo I e da M. rispecchia chiaramente gli interessi di ambienti e gruppi che si sentivano esclusi dalla gestione del potere in seguito alla stretta accentratrice impersonata da M. e che guardavano come modello alla tradizione di governo impostata da Ruggero II sul ruolo di una Curia regis capace di accogliere e valorizzare le varie componenti del Regno. È difficile, tuttavia, dar credito alle accuse mosse dal Liber de Regno Sicilie contro M., descritto come uomo dalla smodata ambizione e dalla libidine sfrenata, responsabile di tutte le congiure organizzate contro il sovrano, quando si consideri che egli fu fautore e strumento di quella politica del terrore, basata sulla spietata repressione di ogni tentativo di resistenza, che caratterizzò la prima fase del regno di Guglielmo I.

Nel 1155 M. trascorse la quaresima a Salerno, insieme con il sovrano. In quella circostanza sarebbero emersi i primi contrasti con il potente conte di Loretello, Roberto di Basunvilla, che temeva di essere arrestato per volontà del grande ammiraglio "qui eum habebat odio" (Guarna, p. 238) e che, dopo avere sperato in un intervento di Federico I Barbarossa, non esitò ad allearsi con l'imperatore bizantino Manuele Comneno. Tra l'autunno del 1155 e la primavera del 1156 le milizie dei baroni ribelli - sostenute da papa Adriano IV, insediatosi nell'enclave pontificia di Benevento, e favorite dal malcontento delle popolazioni urbane - si impadronirono con estrema facilità di buona parte dei domini continentali del Regno. Le operazioni furono condotte sul versante tirrenico dal principe Roberto (II) di Capua e dal conte Andrea da Rupecanina, sul versante adriatico dal Basunvilla, vistosamente sostenuto con truppe e denaro dall'imperatore bizantino.

Quasi contemporaneamente, negli ultimi mesi del 1155, una congiura organizzata dal conte Goffredo di Montescaglioso con l'obiettivo di assassinare M. - reo di aver spinto il re a togliergli il castello di Noto - e una grave malattia che aveva colpito il sovrano rischiavano di bloccare nell'isola l'esercito regio.

Superata la malattia, la reazione del sovrano fu perentoria: grazie alla mediazione di M. raggiunse un accordo con i ribelli asserragliati in Butera e ristabilì l'ordine in Sicilia; quindi richiamò a corte il cancelliere Asclettino, responsabile delle sconfitte militari sul continente, e "instigante Maione", come osserva maliziosamente Falcando (p. 20), lo fece arrestare. Nella primavera del 1156 Guglielmo I attraversò lo stretto di Messina con un grande esercito, riconquistò tutte le regioni perdute, sconfisse duramente l'esercito bizantino a Brindisi (28 maggio), ordinò la distruzione di Bari, che aveva condiviso le aspirazioni dei rivoltosi, e si portò minaccioso a ridosso di Benevento, costringendo il pontefice a un accordo. M. guidò la delegazione del Regno di Sicilia - composta da Ugo e Romualdo, rispettivamente arcivescovi di Palermo e di Salerno, dal vescovo di Troia, Guglielmo, e dall'abate di Cava, Marino - durante le trattative con la rappresentanza pontificia che portarono, il 18 giugno di quell'anno, alla firma del concordato di Benevento.

L'accordo di Benevento spezzava l'isolamento internazionale del Regno, staccava il pontefice dalla coalizione antinormanna e assicurava al re di Sicilia il possesso dei domini continentali. Inoltre, secondo quanto riferisce Romualdo, che partecipò in prima persona alle trattative, il pontefice, accogliendo una precisa richiesta di M. e dell'arcivescovo Ugo, sottopose le Chiese di Agrigento e di Mazara alla Chiesa di Palermo, sottraendole alla giurisdizione diretta della Chiesa di Roma.

Concluse le trattative, Guglielmo I e M. tornarono in Sicilia. Il governo dei domini continentali fu affidato a Simone, magister capitaneus di Puglia e Terra di Lavoro dal 1155 e cognato di M. per averne sposato una sorella, che nel biennio 1157-58 respinse almeno tre incursioni del conte di Loretello. Stefano, fratello di M. e comandante della flotta normanna, nel 1157 riportò una clamorosa vittoria sulla flotta bizantina a Negroponte e devastò la costa greca, spingendo Manuele Comneno a concludere una pace trentennale con il re di Sicilia.

La necessità di contenere le pretese e le offensive militari dell'Impero tedesco e di quello bizantino, che mettevano in discussione l'esistenza stessa del Regno normanno, e gli sforzi per mantenere la coesione territoriale e ristabilire l'ordine interno determinarono l'abbandono della politica mediterranea dai costi elevatissimi e militarmente insostenibile, che era stata avviata da Ruggero II. L'impossibilità di gestire dal punto di vista militare ed economico un secondo fronte, infatti, favorì una decisa inversione di tendenza nella politica estera del Regno in favore di una chiara alternativa continentale, con il conseguente abbandono dei domini africani sottoposti alla pressione costante degli Almohadi. Il disimpegno da tali domini - conclusosi nel gennaio 1160 con la resa di Al-Mahdiyya (nell'odierna Tunisia), ultimo caposaldo normanno in Africa settentrionale - comportò anche il disarmo dei musulmani di Palermo voluto da M. per evitare disordini in Sicilia.

A partire dal 1158 una vasta insurrezione iniziata nei domini continentali si saldò con il malcontento dei baroni calabresi e siciliani, il solido gruppo sociale che aveva contribuito in maniera determinante alla repressione della rivolta del 1155-56 e che con la sua defezione fece crollare il sistema di potere che faceva capo a Maione.

I primi a insorgere furono gli abitanti di Melfi che rifiutarono di obbedire agli ordini di M. e di riconoscere l'autorità degli ufficiali da lui nominati. La rivolta contro la tendenza autocratica della monarchia, impersonata dallo strapotere di M., che minacciava di soffocare l'autonomia dei grandi feudatari e dei centri urbani, si estese rapidamente coinvolgendo città importanti come Napoli e Salerno e un nutrito gruppo di conti e di baroni. M., pienamente consapevole della gravità della situazione, cercò di consolidare i rapporti con le città che non si erano ancora ribellate, consigliò al fratello Stefano, comandante delle truppe stanziate in Puglia, di aumentare la paga dei soldati, inviò a Melfi il vescovo di Mazara e in Calabria Matteo Bonello, giovane e ambizioso esponente dell'aristocrazia feudale siciliana, al quale aveva promesso in moglie una propria figlia, per recuperare la fiducia dei feudatari calabresi che, sotto la guida di Ruggero di Marturano, mostravano preoccupanti segni di insofferenza. Bonello, tuttavia, non solo non riuscì a riconquistare la fedeltà dei baroni calabresi, ma passò dalla parte dei ribelli che gli garantirono il matrimonio con la contessa Clemenza di Catanzaro e quindi l'accesso nei ranghi dell'aristocrazia comitale e si impegnò a uccidere Maione.

M. morì nella notte del 10 nov. 1160, quando, di ritorno da una visita all'arcivescovo Ugo, fu sorpreso nei pressi della porta S. Agata e ferito mortalmente con un colpo di spada da Bonello; invano due tra i suoi collaboratori più stretti, il camerario Adenolfo e il notaio Matteo di Salerno, resisi conto dell'agguato, avevano cercato di avvertirlo. L'azione contro M. era stata preparata con cura: l'arcivescovo Ugo aveva segnalato a Bonello i movimenti di M. e fatto serrare le porte del palazzo arcivescovile alle sue spalle, molti uomini armati erano stati disposti lungo la via Cooperta, che collegava l'abitazione dell'arcivescovo con il palazzo regio, e lungo le strette vie laterali, alcuni uomini di Bonello si erano confusi tra i fedeli che accompagnavano M.; preclusa ogni via di fuga, il grande ammiraglio non ebbe scampo.

Il sovrano, profondamente colpito dall'assassinio del suo più stretto collaboratore tanto da pensare che "interfecto Maione, manu se dextera mutilatum" (Falcando, p. 47), dissimulò il suo dolore e, forse con l'obiettivo di proteggerli dalla furia dei congiurati, ordinò l'arresto di alcuni collaboratori, della moglie, dei figli, delle sorelle e del fratello di M., nonché il sequestro di tutti i suoi beni. Ordinò, inoltre, che fossero custodite le case di M., alcune delle quali, situate nell'area della chiesa di S. Cataldo, furono confiscate e vendute al conte Silvestro di Marsico, cugino del sovrano e membro del ristretto gruppo di familiares regis chiamato a raccogliere l'eredità politica dello stesso Maione.

Seguirono alcuni mesi di sbandamento del governo centrale, e solo nel 1161 Guglielmo I fece rinchiudere, accecare e mutilare Bonello, che morì poco dopo.

Sui familiari di M., a partire dal 1160, si hanno pochissime notizie: i due ammiragli di nome Stefano, rispettivamente fratello e figlio di M., morirono presumibilmente nelle prigioni palermitane; il cognato Simone morì nel maggio 1161; una sorella, Eustochia, attestata nel 1160 come badessa del monastero di S. Scolastica di Bari, era probabilmente ancora viva intorno al 1200. Da Ruggero, figlio minore di M. scampato alle persecuzioni del 1160 e riapparso nella documentazione barese come agiato possidente a partire dal 1197, discese la famiglia de Amirato, che ebbe in Maione de Amirato, nipote di M. e giustiziere di Terra di Bari tra il 1231 e il 1234, un valido ufficiale di Federico II di Svevia.

Personaggio dalla cultura raffinata e dai solidi interessi letterari e filosofici, M. fu autore di un commento al Pater noster, la Expositio orationis dominicae dedicata al figlio Stefano; inoltre, insieme con l'arcivescovo Ugo, chiese a Enrico Aristippo di tradurre dal greco le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. A M. fu dedicato il trattato De iustitia et iusto, composto dal canonico capuano Laborante, ecclesiastico di origine toscana destinato a diventare cardinale nel 1173. Molto probabilmente, infine, M. fece edificare a Palermo la chiesa di S. Cataldo, attigua alla Martorana (S. Maria dell'Ammiraglio), voluta da Giorgio di Antiochia.

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