MANCIPIUM

Enciclopedia Italiana (1934)

MANCIPIUM

Giuseppe GROSSO
Emilio ALBERTARIO

. Mancipium (o mancupium) fu la più antica designazione della mancipatio, cioè del modo formale di alienazione proprio delle res mancipi: la parola ricorre negli scrittori latini a indicare anche la proprietà stessa, ed è pure probabile che ne sia stata la designazione tecnica originaria; in questo senso parrebbe potersi meglio spiegare le locuzioni res mancipi e res nec mancipi, che invece i giureconsulti romani, in rapporto al valore che la distinzione ha al loro tempo, ricollegano alla mancipatio (Gaio, II, 22); e nello stesso senso si potrebbe intendere, per il periodo originario, la parola nelle locuzioni mancipio dare e mancipio accipere. La voce mancipium venne poi usata anche nel senso di schiavo. Essa assunse un particolare significato tecnico per designare la condizione giuridica dei liberi in potestate e della uxor in manu, che venivano alienati dal paterfamilias mediante la mancipatio.

A una riduzione dei liberi e dell'uxor, mancipati, in servitù vera e propria si opponeva il principio che il cittadino non poteva essere reso schiavo entro la sua città: antico principio comune alle città latine ed esteso alla lega latina. Però la configurazione della causa mancipii, quale condizione quasi servile, le difficoltà che presenta la necessità di conciliarla col fatto che il mancipato rimane libero, la stessa denominazione, in mancipio o in causa mancipii, il fatto che, quanto più indietro si risale tanto più stretta è l'equiparazione alla condizione degli schiavi, farebbero pensare che in un periodo originario si avesse una vera e propria riduzione di schiavitù.

Il mancipato nei testi del diritto classico è presentato come liberum caput; è con la libertà conservava la cittadinanza; era iscritto al censo con l'indicazione che si trovava in mancipio. Si disputa però tra gli studiosi se rimanesse ingenuo e se persistessero o meno integri in lui i diritti politici. Conservava il connubium con le persone con cui l'aveva prima. Nei rapporti patrimoniali la sua posizione era, in sostanza, analoga a quella degli schiavi; lo sviluppo storico però, soprattutto attraverso il diritto pretorio, ha sempre più accentuato il distacco della causa mancipii dalla schiavitù.

Gravemente controverso è il problema circa la natura del potere sulle persone in mancipio e il suo rapporto con la patria potestas. La liberazione dalla causa mancipii, mediante manumissio, del filius familias mancipato, anziché renderlo sui iuris, lo faceva ricadere nella patria potestas originaria; e ciò avveniva fino alla terza alienazione da parte del pater, dopo la quale il figlio era definitivamente liberato dalla potestas, in virtù del principio delle XII Tavole: si pater filium ter venum duit filius a patre liber esto. Si deve determinare quale era la sorte della patria potestas durante la causa mancipii, dopo la prima e la seconda mancipatio del filius familias. La giurisprudenza nelle sue enunciazioni e nella spiegazione delle varie regole talvolta sembra presupporre la quiescenza della patria potestas, altre volte la sua estinzione. È stato congetturato che la persistenza e l'urto fra i due opposti principî, nel regime giuridico della causa mancipii, sia dovuto a una stratificazione; che prima abbia dominato il concetto dell'estinzione e poi abbia fatto capolino quello della quiescenza. Le Istituzioni di Gaio rivelano realmente varie stratificazioni, e farebbero anche pensare, per un'epoca più antica a una definitiva estinzione della patria potestas; e ciò va messo in rapporto con la congettura, assai verosimile, che in origine l'alienazione dei figli determinasse la riduzione in servitù.

Si usciva dalla mancipii causa, come dalla schiavitù, mediante le forme della manumissio (vindicta, censu, testamento). Non vi trovarono però applicazione le disposizioni limitatrici delle manumissioni, contenute nelle leggi Aelia Sentia e Fum Caninia. Anzi, le persone in mancipio potevano acquistare la libertà censu, anche contro la volontà di chi le aveva in mancipio. Il manumissor, quando il manomesso non ricadeva più nella potestas del pater, aveva diritto alla successione come patrono, ma il pretore preferì ad esso dieci persone di prossimi congiunti. Il potere sulle persone in mancipio si trasmetteva per eredità. Si è discusso se esse fossero alienabili, le fonti parlano solo della remancipatio al pater, ma non pare ci sia ragione di escludere la facoltà di alienare a terzi.

Già nell'epoca classica l'istituto è in piena decadenza. L'applicazione seria come alienazione a scopo di lucro (che del resto sin da tempi antichi doveva servire piuttosto allo scopo di locare i servizî del figlio per un determinato tempo, con patto di manumissione dopo il decorso di questo, come rivelerebbero la disposizione delle XII Tavole e la liberazione censu) dev'essere andata rapidamente declinando. Gaio ricorda come applicazione seria dell'istituto solo la noxae datio, e afferma che l'uso più frequente di esso è dato da mancipationes a scopo di adozione e di emancipazione, o per liberare la donna dalla manus: casi in cui, egli dice, la riduzione nella causa mancipii fit dicis gratia uno momento. Naturalmente non è escluso che persistessero nel diritto classico casi di mancipazioni dei figli che non avvenissero dicis gratia, oltre quello della noxae datio, ma la loro portata doveva essere ridotta. Livio (41,8) ricorda l'espediente, escogitato dai Latini, di mancipare i loro figli a un cittadino romano, perché fossero manomessi e divenissero cittadini romani, al che si cercò di rimediare col giuramento che la manumissio non avveniva civitatis mutandae causa.

Alla causa mancipii pare doversi ricollegare anche l'antico nexum, istituto arcaico e oscuro, scomparso nell'epoca storica, che doveva consistere nell'autoppignorazione del debitore (o nell'oppignorazione di un suo soggetto) a garanzia di un mutuo. Si è congetturato che nel diritto classico rientrasse nella causa mancipii anche il redemptus ab hostibus, la cui condizione giuridica, nelle fonti giustinianee, è configurata come un vinculum pignoris. La congettura è però molto controversa. Il diritto romano presenta poi altri casi di limitato asservimento (per es., l'addictus, l'auctoratus). Essi non dovevano rientrare nella causa mancipii, benché non sia facile a noi coglierne l'esatto criterio di distinzione. La causa mancipii sembra perdurare in Occidente nel sec. IV (v. frammenti del Gaio di Autun); nel diritto giustinianeo essa è scomparsa.

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Res mancipi e nec mancipi.

È la summa divisio delle cose in commercio, fatta nel diritto romano. Res mancipi significava secondo ogni verosimiglianza res mancipii, cioè cosa di proprietà: la parola mancipium, che assume nella storia giuridica romana varie significazioni, è anche la parola anticamente usata per indicare la proprietà: onde l'antitesi doveva significare originariamente un'antitesi tra beni che erano in proprietà collettiva di un gruppo sociale (il consorzio gentilizio) e beni di proprietà meramente individuale. Successivamente quest'antitesi si attenuò e finì con indicare un'antitesi tra quelle cose che hanno un'importanza sociale, e che vengono pertanto assoggettate a una più rigorosa tutela pubblica, e quelle cose che hanno un interesse individuale prevalente. E merito di P. Bonfante l'avere dimostrato che questa distinzione ha la stessa base economico-sociale che ha la distinzione fra res immobiles e mobiles nel diritto giustinianeo, tra cose immobili e mobili nel diritto moderno.

Gli oggetti elencati nell'una e nell'altra categoria variano profondamente nella storia e nei diversi codici secondo le esigenze sociali, senza riguardo alla mobilità o immobilità di ciascuno. Così la repubblica di Venezia elencava fra i beni mobili i fondi situati fuori dell'estuario, e il nostro codice accanto agl'immobili per natura colloca gl'immobili per destinazione e per legge, rivelando ancora una volta che la distinzione è fatta con nomi convenzionali. Non diversamente si dica della distinzione del diritto germanico tra beni reali e personali.

Nel diritto romano erano res mancipi: i fondi (terreni o case) posti in suolo italico; gli schiavi; le bestie da tiro e da soma; le servitù rustiche (se tutte, o le più antiche servitù di passaggio nelle sue tre forme - iter, actus, via - e di acquedotto, è disputato). Tutte le altre cose erano res nec mancipi: gli stessi immobili situati nelle provincie, i quali erano in possesso, non in proprietà, dei singoli, perché la proprietà romana non pagava imposta e i fondi provinciali, invece, erano gravati o da stipendium o da tributum; fuori d'Italia erano res mancipi soltanto quelle terre alle quali col ius italicum era stata concessa l'immunità. La distinzione è sociologicamente di alto interesse: giacché dimostra l'economia schiettamente agricola della prima società romana e dell'Italia.

Tra le res mancipi e nec mancipi esistevano differenze assai gravi, specialmente in ordine ai modi di alienazione: semplice per le res nec mancipi, la cui proprietà si trasferiva mediante la trasmissíone del possesso (traditio); solenne e pubblica per le res mancipi, la cui proprietà si trasferiva con la mancipatio o con la cessio in iure.

Nella seconda metà del sec. III d. C. la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi, e le forme di alienazione delle res mancipi, dovevano naturalmente cadere come ogni istituto quiritario: la caduta era favorita dal venir meno, nell'epoca dioclezianea, del privilegio dell'immunità di cui i fondi italici avevano goduto. La distinzione nell'Oriente, più che disusata, si può dire che fu incomprensibile. Giustiniano dice di abolirla (Cod., VII, 31, de us. trans.,1, 5), ma lo fa in termini tali che rivelano come egli si pronunci sopra istituti che non sono praticamente applicati. Dai testi accolti nel Corpus iuris essa è sistematicamente cancellata. Anche in Occidente la distinzione diventa presto lettera morta. Se le Sententiae di Paolo accolte nella lex romana Visigothorum ancora ne parlano, l'interpretatio alle Sententiae stesse, che è l'espressione del diritto del sec. V, sostituisce volentieri al mancipio dare il semplice dare. La distinzione romana è stata sostituita dalla nuova distinzione tra res immobiles e res mobiles, che Giustiniano riceve dalla legislazione e dalla prassi postclassica. La nuova distinzione è già nelle costituzioni romano-elleniche, è nota all'epitomatore dei cosiddetti Tituli ex corpore Ulpiani, è, finalmente, interpolata in testi del Digesto e del Codice giustinianeo. La distinzione, che le XII Tavole stabilivano, tra fundus e ceterae res quanto al tempo necessario per usucapire (due anni per il fundus, un anno per le ceterae res), non è confondibile con la distinzione, e la base sociale della distinzione, tra immobiles e mobiles che si afferma nell'età postclassica.

Bibl.: P. Bonfante, Forme primitive ed evoluzione della proprietà privata, in Scritti giuridici, II, Torino 1918, pp. 1-326, e la ricca bibl. ivi citata.