DURAZZO, Marcello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

DURAZZO, Marcello (Marcellino)

Maristella Cavanna Ciappina

Nacque a Genova nel 1710 da Giovan Luca di Marcello e da Paola Franzone di Giacomo.

Fu battezzato in S. Sisto il 13 novembre come Marcello Giuseppe, per distinguerlo dal fratello già morto Marcello Francesco. Fu poi sempre chiamato Marcellino - a volte anche in documenti ufficiali - per distinguerlo e dall'omonimo cugino, Marcello marchese di Gabiano (a sua volta soprannominato Marcellone), e da altri due coetanei, rispettivamente figli di Nicolò e di Giuseppe Maria.

La famiglia Durazzo, nel corso dei precedenti due secoli, aveva dato, a regolari intervalli, sei dogi alla Repubblica di Genova (Giacomo nel 1573, Pietro nel 1619, Giovanni Battista nel 1639, Cesare nel 1665, Pietro nel 1685, Vincenzo nel 1709 e Stefano nel 1734); il D. tuttavia fu il primo del ramo discendente da Agostino di Giacomo, marchese di Gabiano, ad assurgere all'alta carica, benché fosse considerato proprio questo il ramo di maggiore incidenza nella vita economica e culturale della Repubblica. Nel nucleo familiare del D. del resto si distinsero per l'alto livello culturale oltre allo stesso D. il fratello Giacomo (ambasciatore genovese a Vienna dal 1749 al 1752, finissimo collezionista di stampe ed intendente generale dei teatri di Vienna tra il 1754 e il 1764) e la sorella Clelia, moglie del cugino Marcellone e animatrice di un'intensa attività teatrale nella sua villa di Cornigliano. Degli altri quattro fratelli del D., solo Francesca Maria non fu costretta a scegliere lo stato ecclesiastico e sposò Giacomo Balbi nel 1733; seguendo invece la politica cautelativa del patrimonio perseguita dai Durazzo, Gerolamo, nato nel 1719, fu gesuita, Annamaria e Ignazia monache, la prima nel monastero di S. Leonardo e la seconda priora dell'Incarnazione dal 1777 al 1811.

Dopo aver ricevuto un'accurata educazione in uno dei collegi abitualmente frequentati dai giovani Durazzo (o quello dei nobili a Milano o il "Tolomei" di Siena o il "Clementino" di Roma), il D. rientrò a Genova e il 15 dic. 1732 fu ascritto al Libro d'oro della nobiltà. Quindi intraprese la carriera militare, e nel 1740 era ispettore del reggimento "Ristori" di terraferma, a capo di 519 soldati. Al settore della difesa restò legato ancora per molti anni come addetto al magistrato delle Fortificazioni e come incaricato dell'armamento contro i Barbareschi.

Tali impieghi, al di là delle competenze tecnico-militari, stanno comunque ad indicare nel D. l'adesione alla politica della sua famiglia, volta a difendere la piena autonomia di Genova dalla Spagna e la sicurezza dei suoi commerci come compietamento alla vasta politica finanziaria dei prestiti internazionali.

Il D. aveva concluso il 25 febbr. 1734 un vantaggiosissimo matrimonio con la cugina Maria Maddalena Durazzo, unica erede di Gerolamo fu Giovan Agostino, che possedeva uno dei più cospicui patrimoni di Genova. Con il matrimonio dunque il D. (che con i fratelli raggiungeva un patrimonio di 705.000 lire) divenne probabilmente il più ricco della famiglia Durazzo. Il fatto che tale ricchezza si basasse sul sistema dei grandi prestiti internazionali, e che questi fossero spesso diretti alla Corona e all'aristocrazia austriaca (e a nome del D., come capo del gruppo finanziario, sono documentati cospicui prestiti specie tra il 1771 e il 1780), ha certo contribuito a gettare l'ombra del sospetto sulla sua condotta in occasione della guerra del 1745-46.

Dopo il trattato di Aranjuez, firmato il 1° maggio 1745 e i primi effimeri successi, la Repubblica, abbandonata dagli alleati francospagnoli, si trovò a dover sostenere da sola l'attacco da terra degli Austrosardi guidati dal generale M. U. v. Browne e i bombardamenti inglesi dal mare, mentre risultavano vani gli sforzi della diplomazia genovese volti a garantire a Maria Teresa la "devozione" della Repubblica.

Il 6 sett. 1746 il generale Antoniotto Botta Adorno assumeva il comando supremo a sostituzione del Browne: nello stesso giorno il D. e Agostino Lomellini erano deputati dalla Repubblica a chiedergli la resa.

Il Botta consegnò loro un foglio contenente dodici punti: con esso, imponeva la consegna delle porte della città entro la notte stessa, dichiarava l'esercito genovese prigioniero di guerra, chiedeva il pagamento immediato di 50.000 lire genovine, la consegna di sei senatori come ostaggi, l'invio del doge e di sei senatori a Vienna entro un mese per implorare la clemenza sovrana e l'impegno a soddisfare rigorosamente le contribuzioni di guerra che sarebbero state definite dal conte J. K. Chotek.

Al D. e al collega, rientrati in città, non restava che riferire al doge Giovan Francesco Brignole Sale le clausole del Diktat. Di fronte alla impossibilità di difendere militarmente la città, i Collegi firmarono il foglio di resa prima di mezzanotte. Tale resa evitò alla città l'occupazione militare e il saccheggio e le garanti il mantenimento della sovranità: perciò anche se i nemici politici accusarono il D. di ignavia e di privati interessi, tale accusa appare sproporzionata ed ingiustificata rispetto alla oggettiva gravità della situazione. Dopo la sommossa popolare del dicembre e la successiva pace del 1747, il D. venne scelto come inviato al re di Francia, allora nelle Fiandre, per presentargli i ringraziamenti della Repubblica per gli aiuti economici forniti al momento dell'occupazione austriaca. Altro incarico diplomatico ebbe nel 1749, per recare i complimenti genovesi all'infante di Spagna, Filippo di Borbone, asceso al trono ducale di Parma. Tra il 1750 e il 1760 ricopri una serie di cariche ora di ordine militare ora politico-censorio (fu preside dell'Archivio segreto e inquisitore di Stato); quindi, nel 1761, mentre era senatore, fece parte di una commissione inviata in Corsica con l'incarico di pacificare l'isola nuovamente insorta.

Il capovolgimento delle alleanze nello scacchiere europeo e lo svolgersi della guerra dei sette anni (1756-63) faceva della rivolta di Pasquale Paoli un motivo di grande preoccupazione per la Repubblica: e forse fu proprio questa commissaria a Bastia a convincere il D., nel suo spregiudicato praginatismo, della antieconomicità e della oggettiva impossibilità per Genova di mantenere l'isola sottomessa.

Contro le molte proposte dei colleghi della classe di governo - alcuni dei quali, come Ambrogio Doria, anche intelligentemente impegnati a formulare piani di mantenimento dell'isola, a costo di riconoscerle diritto di territorio metropolitano - il D. si fece sostenitore del partito della cessione, in opposizione a quello dei mantenimento ad ogni costo, guidato da Domenico Invrea. E fu proprio il D., nella seduta dei Minor Consiglio del 10 marzo 1766, a formulare ufficialmente la proposta che la Corsica venisse ceduta alla Francia in deposito indefinito.

Sarà questa la soluzione adottata dal governo genovese due anni dopo, appunto durante il dogato del D.: circostanza che sembra confermare che la sua elezione fosse stata favorita da quella esplicita presa di posizione, probabilmente condivisa in silenzio anche da tutta quella classe di governo che non aveva il coraggio dell'impopolarità. Del resto per Genova si era oggettivamente aggravata negli ultimi due anni la situazione militare, dopo che i ri, belli corsi si erano impadroniti dell'isola di Capraia, ritenuta dalla Repubblica piazzaforte vitale alla propria sopravvivenza data la posizione strategica dominante le vie di comunicazione con la Corsica e con le coste toscane. Anche in questo caso la storiografia "democratica" - e l'Accinelli sopra tutti - accusa il D. di debolezza e di privati interessi, mentre piuttosto ancora una volta sembra prevalere in lui il conservatore pragmatico capace di tradurre in azione politica la soluzione che appare economicamente più vantaggiosa.

Perciò, dopo mesi di riunioni dei Minor Consiglio tra il settembre 1767 e l'inizio del 1768 per decidere del destino dell'isola, poiché nelle votazioni che si susseguivano il partito contrario alla cessione sembrava farsi gradatamente più consistente, il D. prese la parola - e, come doge, contravveniva alla consuetudine - per smuovere la resistenza degli oppositori: "raccomandando non senza lacrime - racconta Gerolamo Serra - la cessione della Corsica, come l'unica via che salvare potesse il rimanente" (Arch. di Stato di Genova, Ricordi del Minor Consiglio, novembre 1791). Secondo la formula a suo tempo escogitata dal D. del deposito - anche se provvisorio invece che definitivo, per consentire con un cavillo legale il conseguimento della maggioranza - l'isola fu ceduta alla Francia il 18 febbr. 1768.

L'elezione del D. a doge era avvenuta il 3 febbr. 1767 con 249 voti su 362: Si Può pensare che fosse appunto questa la maggioranza reale che, all'interno del gruppo di governo, condivideva la necessità della cessione.

L'incoronazione ebbe luogo il 27 giugno, con discorso ufficiale del gesuita Antonio Nicolai e celebrazioni poetiche nella ligure Accademia arcadica: discorso e liriche sottolineano nel D. non solo le doti del politico, ma quelle dell'uomo di cultura e del grande benefattore, capace, per un verso, di progettare personalmente le ristrutturazioni architettoniche del suo regale palazzo in strada Balbi e delle sue ville di campagna e, dall'altro, di distribuire cospicue elemosine alle dame di misericordia e all'ospedale di Pammatone (che gli eresse statue in riconoscenza).

Concluso il biennio dogale, il D. prosegui una intensa attività pubblica: fu più volte preside del magistrato di Guerra e degli inquisitori di Stato; nel 1771, con Francesco M. Doria, fu deputato per i lavori del porto di Savona e fece costruire, sempre su disegno personale, il forte di Vado (dal suo nome chiamato Forte Marcello); nel 1773, il suo nominativo fu posto di nuovo tra quelli dei sei candidati al dogato. Fino al 1791 mantenne ininterrottamente tre incarichi, in significativa sincronia: quello di protettore della nazione ebrea, di magistrato dei Culto e di protettore del S. Offizio. Dopo l'incendio di palazzo ducale del 3 nov. 1777 fece pubblica proposta di ricostruzione a spese dei componenti il Consiglio; dopo il rifiuto dei colleghi, promosse con Agostino Lomellini una pubblica colletta affidandola alle dame genovesi. Alla colletta contribui con tale munificenza da meritarsi con decreto del Minor Consiglio una statua marmorea in palazzo.

Mori, probabilmente a Genova, il dic. 1791 e il 24 fu solennemente sepolto nella tomba gentilizia nella gesuitica chiesa di S. Ambrogio.

Dal suo matrimonio con Maria Maddalena Durazzo erano nati quattro figli: Gian Luca nel 1736, morto a sette anni; Girolamo, nel 1739; Paola, nel 1746 (poi sposa a Cristoforo Spinola di Agostino e premorta al padre, in Parigi, il 26 genn. 1773); Maria Francesca, nel 1752, poi sposa al cugino Giuseppe Maria Durazzo, figlio di Marcellone. Poiché l'unico maschio, Girolamo (ambasciatore a Vienna nel 1781-83 e doge della ormai napoleonica Repubblica ligure nel 1802-05), non ebbe figli dalla moglie Angiolina Serra, la discendenza diretta del D. si chiuse e quasi tutto l'enorme patrimonio da lui accumulato passò in eredità ai figli di Maria Francesca e di Giuseppe Maria, Clelia e Marcello, e alla vasta e lunga discendenza di quest'ultimo. La nuora del D., Angiolina Serra, fu celebrata per la bellezza e la cultura, ed ebbe suo fervente ammiratore l'imperatore Giuseppe II che, dopo averla conosciuta e frequentata a Vienna durante la legazione del marito, venne per lei a Genova nel 1784 e fu ospitato dal D. nel suo palazzo.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Ricordi del Minor Consiglio, n. 1641 (1762, 6 dicembre; 1765, 11 gennaio; 1766, 8 aprile); Genova, Civ. Bibl. Berio, m.r. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, p. 83; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1838, VIII, pp. 27, 144; F. M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1851, p. VIII; G. Avignone, Medaglie dei liguri e della Liguria, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, VIII (1872) p. 548; L. Valpolicella, I libri dei cerimoniali…, ibid., IL (1921), 2, ad Indicem; F. Donaver, Storia della Rep. di Genova, Genova 1913, pp. 355 ss.; L. Levati, I dogi di Genova (1746-71), Genova 1914, pp. 61-67, 611, 616; G. Giacchero, Storia econ. del Settecento genovese, Genova 1951, pp. 157, 163, 167, 171; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, pp. 408, 412; II, p. 171; D. Puncuh, L'arch. dei Durazzo marchesi di Gabbiano, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, n. s., XXI (1981), p. 634 (con ind. bibl.); Id., Collezionismo e commercio di quadri…, in Rass. degli archivi di Stato, XLIV (1984), p. 170.

M. Cavanna Ciappina

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Antoniotto botta adorno

Guerra dei sette anni

Repubblica di genova

Filippo di borbone

Infante di spagna