POLO, Marco

Enciclopedia Italiana (1935)

POLO, Marco

Carlo Errera

Viaggiatore veneziano. Nacque nel 1254 da Niccolò Polo, fratello minore d'un Marco che aveva vivaci commerci a Costantinopoli e succursali di traffico a Soldaja (in Crimea) e probabilmente in altre località aperte ai commerci veneziani in Levante.

Niccolò e il suo fratello minore Matteo, esercitando con vario profitto la mercatura sotto la direzione di quel loro fratello maggiore, ebbero a partire nel 1261 da Soldaja, con un ricco carico di gioie, diretti verso l'interno (con viaggio probabilmente non nuovo) alle terre, dove lungo il basso Volga si estendeva lo stato mongolico dell'Orda d'Oro. Qui trattenutisi per parecchi mesi trafficando alla residenza di Berka khān (prima a Sarai poco lungi dall'odierna Astrachan, poi a Bolgar poco sotto al confluente della Kama), furono tratti dai loro interessi, nonché dai rischi di una guerra che rendeva pericolosa la via del ritorno, a un'ulteriore avanzata verso i paesi dell'interno; pervennero quindi, traversando la steppa kirghisa, a Buchara, e tre anni dimorarono quivi, acquistando conoscenza di quei popoli e di quei linguaggi forse più che alcun Europeo avesse potuto fare sino allora. Poi da Buchara, accompagnandosi a un'ambasceria che Hūlāghū khān di Persia mandava in Cina al supremo signore mongolico Qūbilāy khān, penetrarono, con un anno di viaggio attraverso l'Asia centrale, fino a Sciang-tu, dove risiedeva allora, non molto a nord di Pechino, la corte. Un viaggio, quale, che si sappia, nessun Europeo aveva compiuto più dopo i tempi di Giustiniano, solo essendosi spinti alcuni missionarî (Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruck) pochi lustri prima dei Polo con minore cammino fino alle dimore mongoliche di Caracorum nelle steppe del Gobi.

Ma l'ardita novità del viaggio dei due fratelli veneziani (del quale sappiamo soltanto il poco che ne accenna il libro di Marco) doveva essere ben presto eclissata da quella di un glorioso viaggio successivo, cui prendeva parte appunto, con essi due, il giovane Marco, figlio di Niccolò. Lasciato a Venezia poco meno che infante dal padre spintosi nel suo viaggio a levante tanto oltre le mete consuete, Marco aveva trascorso gli anni della fanciullezza presso la madre e gli altri parenti, ed era appena quindicenne quando il padre e lo zio furono di ritorno nel 1269 a Venezia dopo una fortunata dimora di più mesi alla corte di Qūbilāy e dopo un lungo viaggio di ritorno per terra da Pechino fino al porto mediterraneo di Laiazzo. Incaricati da Qūbilāy di ossequiare per lui il pontefice e di ottenere da questo dei maestri, dotti altresì nelle arti liberali, i quali venissero ad insegnare in Cina la religione cristiana, Niccolò e Matteo Polo si disponevano ben presto a ripartire per la Cina col giovane Marco; e, avuti in Acri dal pontefice nuovo eletto Gregorio IX lettere e doni per il Gran khān, ripartivano infatti nel 1271 da Laiazzo verso l'interno.

Delle contrade attraversate in questo viaggio, se non precisamente dell'itinerario seguito, abbiamo larga notizia dalla preziosa opera (della quale diremo poi) di Marco P., la quale in tutti i luoghi che o per corruzione del testo o per alterata trascrizione dei nomi riuscirebbero meno chiari ai lettori di oggidì è stata chiarita da parecchi valorosi esegeti, in tal modo da rendere relativamente facile oggi identificare i paesi di cui si narra. Si susseguono dunque l'uno all'altro ordinatamente e più o meno diffusamente nell'opera i capitoli descrittivi della Turcomannia, della Piccola e della Grande Armenia (dall'Anatolia al Caucaso), dei regni di Mosul e di Baghdād, di Tauris e degli otto regni costituenti il dominio persiano fino alla costiera di Hormūz; indi da Kirmān segue la descrizione della Persia desertica, della contrada di Balkh, del Badachšan, mostrando anche qui l'ordine della descrizione la serie delle contrade successivamente attraversate dai viaggiatori dall'Asia Anteriore verso il centro del continente. Alcune descrizioni intercalate che, qua e là, sembrano condurre del tutto fuori di strada, come quelle del Kashmir o di Samarcanda, mostrano soltanto come l'autore del libro si preoccupi d'illustrare anche paesi indirettamente conosciuti, e non direttamente attraversati durante il lungo cammino. Invano si cercherebbe però in tutta questa parte del libro qualche allusione alle vicende del fortunoso viaggio, solo potendosi dedurre da un'allusione personale, quasi sfuggita all'autore, essersi questo trattenuto per qualche tempo sulle alture del Badachšan a ristorare la salute da un anno debilitata.

Illustrano il cammino successivo della carovana i paragrafi che si susseguono, dedicati al Pamir, a Kashgar, a Kotan, a Cherchen, a Lop e al deserto mongolico fino alle prime terre cinesi. Anche qui la descrizione del Veneziano dà contezza con interessanti particolari di una folla di paesi che i moderni viaggiatori europei riscopersero, può dirsi, come contrade del tutto nuove, appena nel sec. XIX: questo si dice soprattutto delle alte valli dei Pamir (del cosiddetto Tetto del Mondo), del deserto di Lop e del Gobi, che i moderni hanno trovato così conformi nei loro lineamenti al racconto di quel loro precursore di sei secoli fa. Anche in queste pagine di M. P. sui paesi dell'Asia Centrale si aggiungono, del resto, notevoli disgressioni sulle terre poste più a tramontana, sebbene non attraversate dai viandanti: tali i passi allusivi ai paesi della Zungaria, alla decaduta Caracorum, e alla grande e fredda pianura che confina a nord con l'Oceano, nel nostro moderno linguaggio, la pianura siberiana.

Dopo la lunga traversata delle steppe mongoliche, ecco, sulle soglie del Catai, come M. P. chiama la Cina, si offrono ai tre viaggiatori le prime città del Tangut: Canciou (Cansu), tra le altre, dove essi ebbero anche in seguito occasione di trattenersi per lungo tempo. Ed ecco finalmente (compiendosi tre anni e mezzo di viaggio) la residenza imperiale estiva, vicina alla capitale Cambaluc, cioè Pechino. Di qui innanzi capitoli particolarmente diffusi si susseguono nel libro di Marco, illustrando minutamente un gran numero di località dell'impero e insieme parlando di avvenimenti della storia cinese di quel tempo, di costumi e credenze, di palazzi e banchetti e feste di principi e di popoli. Pochi invece i particolari riferentisi alle persone dei viaggiatori. Di Marco apprendiamo soltanto com'egli, fattosi pratico delle principali lingue dell'impero, e guadagnatasi la stima e la fiducia del grande sovrano, ebbe a compiere per lui numerose missioni. Una, fra le altre, lo condusse con un viaggio di quattro mesi attraverso la provincia di Shan-si, ricchissima di città e di castella, indi di là dal Riwang ho (Fiume Giallo) fino all'opulenta Sin-gan-fu capitale del Shen-si, poi a Cing-fu capitale del Sze-ch'wan e più in là ancora, fra terre inospitali, all'estesissima provincia del Tibet. Un'altra missione condusse Marco con un viaggio di sei mesi di là dal Yangtze kiang nelle provincie meridionali del Caragian, corrispondenti a un dipresso al gran territorio odierno dello Yün-nan. E anche egli discese un'altra volta, oltre le barriere montane di mezzodì, fino nelle terre birmane lungo l'Irawady, nel paese delle torri d'oro e d'argento tintinnanti al vento; e più tardi, nel 1285, raggiunse ancor più lontano il Ciamba (dove oggi sono la Cocincina e l'Annam). Reduce da ognuna di queste missioni "bene seppe ridire Marco quello perché egli era ito, e ancora tutte le meraviglie e le grandi e le nove cose che aveva trovato, sicché piacque al Gran Cane e a tutti i suoi baroni, e tutti lo commendarono di gran senno e di grande bontà"; onde, a testimonianza, evidentemente, del proprio compiacimento, volle il sovrano anche affidargli - specialissimo onore per uno straniero - il governo della cospicua città di Jangiu posta a nord-est della moderna Nanchino, governo ch'egli tenne, tra il 1282 e il 1287, per un triennio. La conoscenza che in ogni modo egli rivela più completa e perfetta è delle città della Cina centrale (ch'egli denomina il Mangi), specie della metropoli da lui chiamata Quinsai - oggi Heng-chow - ricca di 1.600.000 case, di centinaia di migliaia di opifici, di migliaia di bagni, e per queste ricchezze e per la raffinatezza del vivere e per gli onesti costumi degli abitanti ammirata e magnificata sopra ogni altra città del mondo. Più a sud conobbero particolarmente Fugiu e Zaitun (forse Ts'üen-chow, porto frequentatissimo allora, oggi pressoché interrato, presso l'odierna Amoy); dal quale Zaitun cominciarono i tre veneziani il loro viaggio di ritorno verso l'Europa.

Dopo che infatti ebbero passato alla corte del Gran Khan o in servizio suo, sempre largamente onorati, ben diciassette anni, si offerse loro l'occasione di ritornare in patria, quando, essendo mandata in sposa ad Argun Khān di Persia una principessa della famiglia del Gran Khān ed essendo ad essa impedito il cammino di terra reso pericoloso da torbidi guerreschi, la principesca comitiva si affidò alla via del mare, e il sovrano concesse, per quanto a malincuore, che si aggregassero ad essa anche i tre veneziani, ch'egli incaricava sia di vegliare alla sicurezza della giovane principessa, sia di adempiere poi ambascerie varie presso il papa e i maggiori principi d'Europa. La flotta, composta di quattordici navi, fece vela da Zaitun al principio del 1292, e, dopo toccato il Ciamba e la penisola di Malacca, poi taluna fra le ricchissime isole malesi, approdò a Sumatra (che nel racconto è detta Giava minore). In quest'isola, situata "talmente a mezzodì che la stella di tramontana non vi appare né punto né poco"; i venti contrarî tennero ferma la spedizione per ben cinque mesi, mentre le ciurme e gli armati, discesi a terra in numero di 2000, si riparavano in un accampamento fortemente difeso. Ripreso poi il mare al cessare del monsone estivo, furono da Sumatra alle Isole Nicobare e alle Andamane, indi a Ceylon. Da Ceylon vennero alle coste dell'India meridionale dove Marco forse era già venuto dalla Cina in un precedente periodo: certo egli mostra di conoscere il paese molto bene e lo descrive contrada per contrada con grande ricchezza di particolari: prima i paesi oggi detti del Coromandel, poi quelli della costa occidentale dal capo Comorino a tramontana, tacendo "delle provincie che si trovano all'interno perché sarebbe stata troppa la materia da ricordare". Giunta finalmente la comitiva a Hormūz, diciotto mesi dopo che avevano lasciato Zaitun (e in tutto quel tempo i Veneziani avevano vegliato all'incolumità della principessa e della sua compagna figlia del re del Mangi "come se fossero state loro figliuole"), trascorsero ancora nove mesi e più alla corte persiana, riprendendo poi il viaggio verso l'Europa, dappertutto onorevolmente accolti, tranne che al loro arrivo a Trebisonda dove il principe greco di quella città lasciò che i reduci fossero depredati di parte dei loro averi. Da Trebisonda fu poi breve il ritorno a Costantinopoli, a Negroponte, a Venezia, correndo l'anno 1295, venticinquesimo dalla loro partenza per l'Oriente.

Ai particolari biografici, certo non molto numerosi, che si sono potuti fino qui desumere dall'opera monumentale di Marco, poco altro si può aggiungere che intorno alla vita di lui è dato ricavare da notizie abbastanza sicure contemporanee o di non molto posteriori o da documenti trovati negli archivî. Tornato in patria, Marco ebbe parte, con altri della famiglia, all'acquisto d'un blocco di case presso la chiesa di San Giovanni Grisostomo, che ancora oggi, indicate come dimore dell'illustre famiglia, sono prospicienti sulla Corte dei Milioni: soprannome, questo, di "Milione" attribuito a Marco stesso e derivato, dicevasi, dalle accumulate ricchezze dell'illustre viaggiatore, ma oggi meglio riconosciuto come un probabile nome personale di Marco - Emilione o Milione, un diminutivo arcaico di Emilio -. Qui Marco prese moglie ed ebbe tre figlie, e visse fino all'8 gennaio 1324 (il testamento è dell'anno innanzi) ancora occupato nella mercatura, probabilmente nel traffico di stoffe preziose e di spezie. Ma non fu tutto tranquillo il suo riposo di quegli anni, ché egli ritornò ancora per mare e, o fosse catturato, come racconta un cronista, in uno scontro con navi mercantili genovesi nel Mar di Levante, o fosse fatto prigioniero fra i molti alla vittoria navale genovese di Curzola nel 1298, come narra il Ramusio, fatto sta ch'egli si trovò prigioniero a Genova per un non breve periodo.

Gli ozî della prigionia indussero l'illustre viaggiatore a raccogliere minutamente i ricordi dei paesi e delle cose vedute, i quali ricordi egli affidò o dettò al compagno di prigionia Rustichello (non Rusticiano, come i più dicono) da Pisa. Dalla penna dunque di questo toscano che, sapendo di lettere, amava comporre le sue Scritture in francese, uscì quel Livre des merveilles du monde, che presso di noi portò per molto tempo il nomignolo del Milione, dovuto a una facile confusione tra il libro e l'autore. Ché veramente si deve dire Marco, non Rustichello, l'autore, potendosi attribuire a divagazioni personali del toscano estensore soltanto qualche evidente frangia letteraria e certe prolisse descrizioni di battaglie introdotte qua e là ad appesantire i genuini ricordi dettati dal veneziano. Noi potremmo quindi leggere oggi la composizione francese di Rustichello come dettata da Marco stesso, se solamente ci fosse stata conservata in forma abbastanza sicura l'opera originale; si può dire invece provato che, fra i cento e più manoscritti poliani che le biblioteche europee ancora conservano - e non tutti francesi, ma molti in versioni latine, italiane, veneziane, e anche tedesche, catalane, castigliane, irlandesi -, non esiste attualmente alcun manoscritto, neppure tra i più corretti francesi, in cui si possa vedere una riproduzione esatta del perduto autografo del pisano. Per fortuna la coraggiosa e dotta fatica d'un critico modernissimo (vedi oltre) ha finito con assodare l'autentica provenienza poliana di parecchi cospicui brani che, pur non comparendo nelle migliori redazioni francesi, ma solo in altre versioni manoscritte o nella prima redazione cinquecentesca a stampa, si devono ritenere, tutti o quasi, parte integrante della redazione primitiva, ricordi autentici dunque anch'essi del grande viaggiatore. Si può quindi oggi, inserendo nel complesso racconto questi brani singoli ai luoghi opportuni, ricomporre, non già con assoluta certezza ma con grande verosimiglianza, un testo approssimativamente completo del libro originario.

Possiamo dunque ora leggere e apprezzare con molto maggiore sicurezza che per il passato quest'opera grandiosa, non itinerario d'un viaggio - d'un viaggio mirabile per l'estensione delle terre e dei mari percorsi e per la straordinaria molteplicità e varietà dei paesi rivelati e delle cose vedute -, ma descrizione meditata e ordinata di gran parte d'un continente sconosciuto, descrizione informatissima, penetrante, vivace, colorita. Oltre ai luoghi noti a Marco per conoscenza personale sua, dalla Persia alla Mongolia, dalla Cina all'India, sono notati nel libro, come s'è detto, anche paesi non veduti da lui, ma illustrati in base a testimonianze da lui raccolte e ritenute degne di fede, così che la descrizione, anche se sommaria, si estende fino alla Russia, alla Siberia, allo Zipango (Giappone), alle 7000 e più isole - così si narra - poste a sud-est dell'Asia, ai paesi arabi, all'Abissinia, alla costa africana orientale, e forse all'isola di Madagascar. Il tutto narrato con continua e ammirata attenzione ai prodotti d'ogni contrada, ma altresì con così acuta osservazione della natura dei luoghi, dei costumi, dei riti, delle genti e, in complesso, con tale prudenza critica, che il libro si può dire una vera e preziosa descrizione geografica, la prima che sostituisca una raccolta di dati e fatti positivi alle fantasie, alle leggende, ai mostri di tanti centoni dei primi secoli medievali. Non che manchino nel racconto particolari strani, animali fantastici, costumi non facilmente credibili, dati evidentemente esagerati o fraintesi; ma si pensi che dal libro di Marco i lettori europei appresero a conoscere con verità le singolarità climatiche della Russia e della Siberia, della Persia e dell'India, i deserti dell'Asia Centrale e le ignote acque dell'Oceano Pacifico e dell'Indiano percosse dall'alterno soffiare dei monsoni, l'olio da ardere delle correnti del Caucaso e l'asbesto incombustibile della Mongolia, e animali e piante esotiche senza numero; si pensi che il libro del P. rivelò agli Occidentali, insieme con l'uso cinese della carta moneta e con mille altri perfezionamenti civili di quell'immenso e sconosciuto paese, tanti riti religiosi e costumi strani e infinite ricchezze di terre non vedute mai, dai tetti d'oro dello Zipango ai palazzi incantati e ai redditi di Quinsai "talmente favolosi che non può crederli chi li sente solo contare senza averli veduti". Questa successione di quadri così pieni di novità e di stranezze, così ricchi d'ogni attrattiva, doveva interessare in singolar modo i lettori: onde si comprende perché l'opera si diffondesse con una rapidità per quei tempi così notevole, moltiplicandosi in gran numero manoscritti e versioni per tutti i secoli XIV e XV, e crescendo in tal fama che la stessa signoria di Venezia ne faceva pervenire in dono un prezioso esemplare a Enrico di Portogallo il Navigatore.

Consideravano invero il più dei lettori gli strani racconti piuttosto come materia di romanzo che come istruttiva realtà, tanto che poté un fantasioso medico borgognone conquistare fama anche superiore a quella del Milione con l'imaginario viaggio di John of Mandeville plagiato audacemente dall'opera del Veneziano. Ma il racconto di Marco esercitò pure coi suoi veridici ricordi un'influenza fruttuosa sui contemporanei più attivi nel campo della mercatura, i quali dalle magnificenze asiatiche del famoso libro ebbero nuova spinta a osare imprese lontane e lucrose; così anche le nuove recate da Marco della simpatia dimostrata dal Gran Khān al culto cristiano incoraggiò i pontefici all'invio di fruttuose missioni. E ancora da Marco trassero larga messe di dati nuovi i cartografi, specie gli autori trecentisti dei preziosi mappamondi catalani, i quali autori (principalmente il Cresques nell'atlante costrutto nel 1375 per Carlo V di Francia) s'industriarono a rifare in base ai dati del P. il disegno dell'Asia dal Mar Rosso al Levante. Né è da dimenticare la spinta considerevole che la descrizione delle ricchezze del Catai e dello Zipango diede più tardi al disegno di Colombo di cercare una via più breve che portasse all'Estremo Oriente navigando per ponente.

Edizioni e Bibliografia. - Durante il sec. XIX si ritenne vicino più di ogni altro allo scritto originale di Rustichello un manoscritto francese della Bibliothèque Nationale di Parigi che venne pubblicato nel 1824 nel primo volume del Recueil de voyages et de mémoires. In Italia fu invece molte volte ristampata fino ad anni recentissimi una versione toscana assai poco fedele, la cosiddetta ottima, raccomandabile soltanto perché scritta in buona lingua da un fiorentino trecentista. Assumendo appunto come testo degno della massima fede quello francese del Recueil ovvero quello della versione toscana o anche quello della diffusa traduzione latina dovuta a fra Pipino o finalmente la redazione italiana a stampa dovuta a G. B. Ramusio (Venezia 1559) riecheggiante tradizioni orali e scritte ancor vive a Venezia due secoli dopo la morte di Marco, parecchi studiosi incominciarono nel sec. XIX ad analizzare minutamente l'antico testo, cercando di far luce nel bizzarro travestimento dei nomi esotici e di accertare i dati e le notizie così copiosamente raccolti. Così W. Marsden, iniziatore della critica storica-geografica (The travels of M. P. a Venetian Londra 1818), P. Zurla (Di M. P. e degli altri viaggiatori veneziani più illustri, Venezia 1814), G. B. Baldelliboni (Viaggi di M. P. illustrati e commentati, Firenze 1827), V. Lazari (I viaggi di M. P., Venezia 1847), G. Pauthier (Le livre de M. P., citoyen de Venise, Parigi 1865) e finalmente il colonnello Henry Yule, competentissimo di cose asiatiche (The book of Ser M. P. the Venetian, Londra, 3ª ediz. 1921), perfezionato ancora dal francese Henri Cordier; ultimo A. J. H. Charignon (Le livre de M. P., Pechino 1924-28).

Ma anche le più dotte e le più esaurienti fra queste analisi peccavano per questo fatto, che esse si basavano su un testo di legittimità tutt'altro che accertata. Una ricerca condotta a fondo nella selva dei manoscritti e delle versioni, per arrivare a ricostruire un testo che desse le maggiori garanzie d'autenticità, si ebbe soltanto per l'opera benemerita di L. Foscolo Benedetto, il quale poté, a forza di confronti condotti con grande pazienza e acutezza critica, ricostruire un testo (Il Milione di M. P., Firenze 1928) che è da ritenere vicino quanto più è possibile all'originale perduto. A una tale integrazione poté il Benedetto pervenire giovandosi anche di codici trascurati finora, i quali gli permisero di rimediare in larga misura agli errori e alle lacune delle stesse principali redazioni francesi. Il testo così ricomposto dà in qualche parte l'impressione (né potrebbe essere altrimenti) di un musaico, ma, se pure si discute ancor della possibile autenticità di qualche brano che il Benedetto ha accettato resta il fatto che oggi possiamo ammirare ormai completa la figura del P. come scrittore. Del testo ricostituito è uscita per cura del Benedetto stesso un'accurata traduzione italiana (Il libro di Messer M. P. cittadino di Venezia detto Milione, dove si raccontano le meraviglie del mondo, Milano 1932); questa traduzione, nella quale ogni connessura del musaico scompare, ridà veramente all'opera del P. la sua integrità artistica, restituendole la sua organicità e rimettendola interamente in valore.

Per notizie sulla famiglia di Marco Polo v. G. Orlandini, Marco Polo e la sua famiglia (in Archivio Veneto Tridentino, 1926).

TAG

Enrico di portogallo

Rustichello da pisa

Oceano pacifico

Estremo oriente

Mar di levante