ADRIATICO, mare

Enciclopedia Italiana (1929)

ADRIATICO, mare (A. T., 22-23)

L. D. M.
F. M.
C. Man.

Il nome è derivato dalla città di Adria (v.), antichissima colonia, d'origine incerta (illirica, etrusca o greca), ma che già nel sec. V a. C. aveva rapporti commerciali colla Grecia. Il nome di mare Adriaticum (Hadriaticum), prima riservato alla parte settentrionale, si estese fino al Gargano, poi a tutto il seno, che i Romani chiamavano anche Mare Superum, per distinguerlo dall'Inferum (Tirreno). Il mare Adriatico può considerarsi come un golfo del mare Ionio, che, attraverso il canale di Otranto, si spinge in direzione da SE. a NO. fino ai golfi di Venezia e di Trieste, per una lunghezza di circa 430 miglia marine (800 km.) e una larghezza variabile tra 50 e 120 (92 e 222 km.); tra il 40° e il 46° di lat. nord e tra il 12° e il 20° di long. est.

Tutta la costa occidentale e settentrionale e, ad E., tutta la costa della penisola istriana fino a Fiume appartiene all'Italia; la costa orientale, da Fiume al golfo di S. Giovanni di Medua, alla Iugoslavia; da quel punto a Capo Linguetta, limite orientale del Canale d'Otranto, all'Albania.

Caratteri della costa. - Vi è una differenza spiccata fra la costa occidentale e l'orientale. La costa occidentale, e, possiamo aggiungere, la settentrionale fino alla foce dell'Isonzo, è quasi in tutto il suo percorso una costa unita, cioè senza sporgenze e rientranze accentuate, e quindi senza porti naturali, e piatta, cioè a declivio dolce che si prolunga anche a distanza di parecchi chilometri entro mare, impedendo, per la bassezza dei fondali, l'accostarsi di navi a pescaggio di parecchi metri. Questi caratteri corrispondono alla natura del paese retrostante, che nella parte meridionale, dal capo di S. Maria di Leuca al promontorio del Gargano, è costituita da una serie di altipiani poco elevati degradanti dolcemente al mare; dal Gargano a Cattolica dalle colline preappenniniche, attraverso le quali scendono numerosi fiumi paralleli convoglianti al mare grandi masse di detrito; da Cattolica all'Isonzo dall'orlo della grande pianura alluvionale, padana e veneta. Solo in tre punti l'uniformità della costa viene interrotta da sporgenze più o meno accentuate: dal promontorio del Gargano, gruppo montuoso isolato che si innalza a 1056 m. nel Monte Calvo, a 874 nel M. Sacro e si spinge per oltre 50 km. entro mare; dal Monte Conero ad Ancona, dove l'Appennino s'accosta al mare; dal delta del Po.

La costa orientale, dal golfo di Trieste fino al confine tra la Iugoslavia e l'Albania, presenta caratteri radicalmente diversi, corrispondenti alla diversa natura del retroterra. Le Alpi Giulie e Dinariche si mantengono in molti tratti aderenti alla costa, prima con caratteri di altipiano (Carso triestino e istriano), poi di rilievi, alternantisi con solchi, paralleli alla costa stessa (Monti Capella e Velebit) e spingentisi in alcuni punti in promontorî e penisole dirette da SO. a NE. (penisola di Zara, Punta Planka, penisola di Sabbioncello). Molte isole allungantisi nello stesso senso parallelamente alla costa, separate da questa e tra loro da canali, tra uno sciame di isole minori e di scogli, rappresentano un'estensione entro mare di questa struttura a rilievi e solchi paralleli, in parte sommersi. Qui predominano quindi i caratteri di costa frastagliata ed erta, con profondi golfi aventi quasi carattere di fjord e numerosi porti naturali, tanto nella costa che nelle isole. Per il carattere prevalentemente carsico del retroterra e delle isole, mancano per lungo tratto fiumi che apportino materiale detritico d'alimentazione della spiaggia. La costa albanese, invece, è prevalentemente piatta, come orlo delle pianure alluvionali e lagunari create dai fiumi Drin, Mati, Arzen, Shkumbi, Semeni e Voiussa; tale mutamento risponde alla diversa natura geologica dei terreno retrostanti (più recenti e non carsici), che permettono la formazione di una ricca idrografia superficiale. Qui la costa è quindi anche molto mutevole e difficilmente accessibile anche a navi di non forte pescaggio, salvo il golfo di Valona, protetto a sud dal lungo promontorio dei M. Acrocerauni, che termina nel capo Linguetta.

A determinare i caratteri delle coste nei varî tratti, contribuiscono, oltre la natura del retroterra, i movimenti del mare: moto ondoso, maree e correnti.

Bacino idrografico dell'Adriatico. - Da quanto si è detto, appare che per lungo tratto della sua costa non è grande il tributo di acque dolci superficiali dalle terre circostanti al mare Adriatico: lungo la costa occidentale, per la vicinanza della linea appenninica di displuvio, che non permette la formazione di fiumi di lungo percorso e forte portata, per la bassezza e il carattere carsico dei rilievi pugliesi, e per la scarsità delle piogge nell'Italia meridionale; lungo la costa orientale, pel carattere carsico predominante sul maggior tratto di essa. L'afflusso da questo lato è dato prevalentemente da sorgenti subacquee lungo le coste istriane e dalmate. Il principale contributo di acque superficiali è dato, all'estremo settentrionale, dal Po e dai fiumi veneti, all'estremo meridionale, dai fiumi albanesi. La valle del Po può considerarsi come il naturale prolungamento del bacino adriatico, chiuso nell'arco non interrotto dei rilievi appenninico, alpino e dinarico.

Ongine ed evoluzione del bacino adriatico. - La pianura padana, nei numerosi pozzi tubolari infissi, si è dimostrata ovunque, dalla pianura piemontese alla pianura veneta, di natura alluvionale e deltizia fino a profondità di 100, 200 e più metri, oltre i quali si raggiungono sabbie marine plioceniche. Ciò prova che ancora nel Pliocene l'Adriatico si estendeva nella valle del Po fin oltre Torino. In quell'epoca si estendeva anche oltre i confini attuali, specialmente ad O., spingendo un ramo a ponente del Monte Gargano, e nelle epoche anteriori esso era ancora più esteso; si è andato sempre più restringendo per il progressivo sollevamento delle Alpi, delle Dinaridi e dell'Appennino. La sua costituzione entro il bacino attuale non sarebbe quindi che la conseguenza di quel grande fenomeno orogenetico, iniziatosi nel Miocene e che sembra ancora in corso di svolgimento. Secondo gli studî di De Stefani e i più recenti di Bourcart, sembra che continui nella zona delle Dinaridi un processo di corrugamento in cui si alternano zone anticlinali di sollevamento e sinclinali di sprofondamento. Il bacino adriatico, dalle Alpi Occidentali al Canale d'Otranto, può considerarsi come una grande geosinclinale, che è andata sprofondandosi in corrispondenza al sollevamento della zona montuosa che la circonda, e che in gran parte ricolmata dai depositi glaciali e alluvionali che hanno costituito la pianura padana.

Secondo l'ipotesi che, formulata dapprima dallo Stache e dal Mojsisovics ed estesa e volgarizzata dal Suess, godette grande credito fino a pochi anni fa, l'Adriatico avrebbe origine assai più recente, essendosi formato per lo sprofondamento di una terra ferma che riuniva l'Italia alla Balcania (l'Adria o Adriatide), di cui sarebbero residui il M. Gargano, che è di terreni più antichi del retrostante Appennino, le isole Tremiti, Pianosa, Pelagosa, Lagosta, Lissa, S. Andrea e lo scoglio Pomo, e tutta la zona subacquea su cui si elevano le isole stesse e che è fiancheggiata a N. e a S. da fosse più profonde. Come argomenti in favore di questa ipotesi, si citano le forme del litorale dalmata e istriano, che accusano una recente sommersione; l'esistenza di depositi dovuti a grossi corsi d'acqua in piccole isole, come Sansego; i resti fossili di grandi mammiferi in parecchie isole della Dalmazia; i caratteri stessi delle faune attuali (molluschi terrestri del Gargano, in parte identici a specie dalmate, presenza dello sciacallo in parecchie isole della Dalmazia, ecc.) (v. paleogeografia). Ma all'ipotesi di tale sprofondamento recente contraddice la presenza di terreni pliocenici marini, anche a grande altezza, lungo tutto il perimetro della valle del Po e su tutto il versante orientale dell'Appennino, e nelle stesse isole di Tremiti, Pianosa e Pelagosa, che dimostrano anzi un forte sollevamento postpliocenico; nonché la presenza di terrazzi, sia vallivi (nelle valli della Kerka, della Narenta, della Recina, del Drin), sia costieri, lungo le coste e le isole dalmate, come attorno al Conero e al Gargano, sulla costa italiana.

Se e come continui attualmente il processo orogenetico nella zona adriatica, e in particolare lungo le coste, è questione ancora discussa, potendosi addurre prove tanto di sollevamento che di sprofondamento recente. Le prove di sprofondamento sarebbero date specialmente da avanzi di costruzioni romane e medievali (muri, mosaici, ecc.) a parecchi metri sotto il suolo attuale, e anche al di sotto del livello attuale del mare; le prove di sollevamento recente, oltre quelle sopra citate, sarebbero gole d'incisione marina e linee di spiaggia elevate di parecchi metri sul livello del mare in varî punti della costa istriana e dalmata.

È da notare che le prove di spostamenti costieri sono sempre riferite al livello del mare, che si suppone invariato ed invariabile; mentre si deve ammettere che, per molte cause astronomiche, geologiche e climatologiche, esso sia soggetto continuamente a variazioni, per quanto lente. Causa di una forte variazione del livello del mare in epoca geologicamente recente, e i cui effetti non si può dire che non si risentano tuttora, furono le grandi invasioni glaciali quaternarie, che, fissando sulle terre emerse un'enorme quantità d'acqua evaporata dal mare, ne dovettero abbassare notevolmente il livello: si calcola di circa 100 m. Il mare Adriatico dovette quindi subire alternative di ritiro e di espansione, in corrispondenza alle fasi glaciali e interglaciali, e non è detto che non sia continuata nell'epoca storica, e non continui tuttora, l'espansione e l'innalzamento successivo all'ultima espansione glaciale, di cui si hanno ancora vasti residui nelle terre artiche ed antartiche (specialmente nella Groenlandia e nell'Antartide). Questa progressiva elevazione del livello del mare potrebbe spiegare in parte gli apparenti spostamenti negativi (di sprofondamento) della costa, ma non distrugge, anzi rafforza, le prove di spostamenti positivi, numerosi ed evidenti specialmente sulla costa orientale, che appare quindi in fase di sollevamento.

Il ritiro del mare durante le invasioni glaciali, pel quale non solo la valle del Po, ma parte dell'Adriatico superiore doveva rimanere all'asciutto, spiega la formazione di depositi terrestri, glaciali e fluviali, anche a profondità di un centinaio di metri sotto il livello attuale del mare. Il rilievo di fondo dell'Adriatico superiore, rivelato dai numerosi scandagli della R. Marina, conserva infatti tuttora le tracce del solco del Po, e dei solchi degli affluenti, in continuazione dei fiumi attuali della costa italiana, fino alla linea isobata di circa 110 metri, che ora attraversa il mare all'altezza di Grottammare. Il bassofondo dell'Adriatico settentrionale si sarebbe quindi formato per ricolmamento quaternario. D'altra parte, poiché i depositi alluvionali e glaciali della valle del Po hanno spessori perfino superiori ai 200 metri, si deve ammettere anche uno sprofondamento tettonico postglaciale della valle stessa e probabilmente dell'Adriatico settentrionale, mentre si avrebbero prove di un contemporaneo sollevamento quaternario delle Alpi e degli Appennini settentrionali. Questo concetto di una accentuazione della geosinclinale padano-adriatica, già formulato dal Pantanelli, si accorda coll'analogo fatto rivelato dal Bourcart per le pieghe Dinariche, e si accorda colle moderne teorie isostatiche.

Rilievo del fondo adriatico. - I numerosi scandagli eseguiti finora, e le carte idrografiche costruite in base ad essi, dànno un'idea abbastanza particolareggiata della conformazione della conca adriatica, benché i metodi di scandaglio non diano sempre garanzia di una grande esattezza.

Partendo dal golfo di Venezia, entro il quale i massimi fondali si mantengono attorno a 30 m., il fondo scende in dolce pendio, nel quale, come si disse, sono incisi i solchi dei fiumi glaciali, fino alla quota di 110 m. già accennata all'altezza di Grottammare, con una pendenza media del 0,3‰. Di qui scende con ripido pendio verso una fossa della profondità media di 220 m. (massima 243) e dell'ampiezza media di circa 40 km., che attraversa normalmente l'Adriatico, coll'asse sulla linea Ortona-Sebenico. Da questa fossa il fondo si rieleva verso la soglia già accennata, su cui sorgono le isole Tremiti, Pelagosa e tutte le isole della Dalmazia meridionale. Questa soglia sarebbe formata da due promontorî sommersi: l'uno, che dal Gargano e dalle Tremiti e Pelagosa si spinge verso N; l'altro che dalla costa dalmata si spinge verso SO., come base di tutto l'arcipelago dalmata meridionale fino alle isole di Lissa, S. Andrea e scoglio Pomo. Questi due promontorî sono divisi da un canale di profondità attorno ai 170 m., che unisce la fossa accennata al bacino meridionale, assai più ampio e profondo. Si scende infatti dalla soglia trasversale e dalle rive italiane e albanesi, prima con pendenza dolce fino all'isobata di circa 200 m., poi con pendenza più ripida verso un'ampia piattaforma centrale, della profondità media poco superiore a 1200 m. (tra 1200 e 1250; la profondità di 1645, registrata fino a non molti anni fa dalle carte nautiche e dai portolani, e in atlanti e trattati, fu dimostrata erronea da scandagli più recenti). A sud il fondo si risolleva verso il canale d'Otranto, che rappresenta un'ampia sella col vertice verso 740 m. di profondità, da cui si ridiscende per una larga valle a ripidi versanti laterali verso lo Ionio.

L'Adriatico è formato quindi da due bacini distinti, chiusi tra rilievi di fondo, e di profondità molto diversa. Il bacino settentrionale, che è la continuazione della valle del Po è, come questa, ricolmato in gran parte dai depositi alluvionali del fiume stesso, accumulativisi nei periodi glaciali di abbassamento del livello del mare; il forte pendio fra l'isobata di 110 e il fondo della fossa centrale rappresenta la scarpa della spiaggia alluvionale nell'ultima fase glaciale. Quale sia l'andamento del fondo sotto il mantello alluvionale non si può dire; ma le profondità di alcuni pozzi infissi a oltre 200 m. nell'estuario veneto, tutte attraverso materiale alluvionale, talvolta anche grossolano, e quelle dei pozzi padani già ricordati, messe a confronto con quelle della fossa centrale adriatica, accennerebbero a una conca piatta, generata forse per isostasi dal peso delle alluvioni stesse.

L'andamento delle sponde sommerse corrisponde sui due lati a quello delle coste; nel bacino settentrionale poco profondo, le coste occidentali scendono con minor pendenza che le coste orientali lungo l'orlo esterno dell'Istria e delle isole dalmate, riscontrandosi, nei canali fra queste, profondità massime eguali a quelle della piattaforma centrale. Nel bacino meridionale i fiumi albanesi hanno creato invece a oriente una più ampia piattaforma subacquea fino a 300 m., donde il pendio precipita ripidamente verso la profonda fossa centrale.

Fisica dell'Adriatico. - Uno studio delle condizioni fisiche dell'Adriatico fu condotto tra il 1911 e il 1914 da una commissione internazionale italo-austriaca mediante crociere, nelle quattro stagioni, della R. N. Ciclope e della S. M. S. Najade lungo otto trasversali, con stazioni di cinque in cinque miglia. Furono raccolte misure di temperatura, salsedine, ossigeno disciolto a varia profondità, e compiute osservazioni meteorologiche: e i numerosissimi dati furono pubblicati in un Bollettino italiano e in Berichte austriaci; ma per le vicende e le conseguenze della guerra non poté finora esserne fatta la discussione completa. Nelle linee generali esse rivelano una grande regolarità nella distribuzione degli elementi fisici. La salsedine (salvo che nel golfo di Venezia, particolarmente davanti al delta del Po, lungo le coste albanesi e, in linea subordinata, lungo tutta la costa italiana, dove l'afflusso delle acque fluviali e la loro deriva per effetto di corrente mantengono una zona di acqua alquanto più dolce) oscilla di pochi decimi attorno a un valore di circa 38,5‰ (trentotto grammi di sali disciolti per chilogrammo d'acqua), in media alquanto maggiore di quella del Mare Ionio.

La temperatura in ogni stagione varia in generale da punto a punto nello stesso senso della salsedine, in modo che le variazioni di densità; che ne risultano, sono assai piccole, mantenendosi le superficie di eguale densità, e quindi quelle di eguale pressione, molto approssimativamente parallele ed orizzontali. Ciò prova che non vi sono nella massa movimenti molto accentuati, correnti profonde ben definite. Nel golfo di Venezia, per il radunarsi in esso di acque fluviali, si mantiene uno strato superficiale d'acqua sensibilmente meno salsa e meno densa.

La temperatura segna di regola una normale diminuzione con la profondità, naturalmente con forti variazioni colle stagioni. D'inverno, nell'Adriatico centrale e meridionale, il raffreddamento superficiale si propaga per moti convettivi fino a grande profondità, in conseguenza (dell'accennata uniformità di composizione e di densita: per effetto di questa il fenomeno si svolge come in un bacino d'acqua dolce, potendosi, p. es., riscontrare in inverni molto rigidi, come quello 1911-12 alla fine di febbraio, una temperatura e una salsedine quasi uniformi dalla superficie al fondo, anche nelle massime profondità del bacino meridionale. Nel bacino settentrionale invece, e in particolare nel golfo di Venezia, il raffreddamento invernale non è sufficiente a determinare nelle acque più dolci superficiali una densità maggiore di quella dell'acqua marina profonda e il corrispondente rimescolamento convettivo: cosicché si mantiene uno strato più freddo al di sopra dell'acqua più calda. D'estate, il riscaldamento superficiale e i movimenti convettivi determinati dall'evaporazione, che aumenta la salsedine, determinano la formazione di uno strato quasi omogeneo, di 10-20 m. di spessore, più caldo e più salso, da cui si passa con rapida diminuzione, specialmente della temperatura (strato di salto), alla massa profonda, dove temperatura e densità diminuiscono lentamente colla profondità. Lo strato di salto è particolarmente accentuato nell'Adriatico settentrionale, dove l'acqua superficiale è più dolce, ed esso può presentare oscillazioni ondose accentuatissime come la superficie di separazione di due liquidi di densità diversa.

Mentre è difficile constatare, in base alla distribuzione degli elementi fisici, movimenti ben definiti nella massa profonda, più evidente è la presenza di correnti superficiali. Era nota da secoli l'esistenza di ma corrente litoranea, da N. a S., lungo la spiaggia veneta (Corrente del Montanari). La pratica nautica affermava poi l'esistenza di una corrente litoranea continua che, entrando dallo Ionio sul lato orientale del canale d'Otranto, seguiva tutta la costa orientale e settentrionale e ridiscendeva lungo tutta la costa italiana uscendo sul lato orientale del canale, e girando, almeno in parte, il capo di S. Maria di Leuca, per risalire entro il golfo di Taranto. Si ammetteva inoltre che due filoni si distaccassero dalla corrente orientale attraverso il mare dalle isole di Meleda e Lagosta verso il Gargano e dal Quarnero verso Ancona. Tale quadro parve confermato dalla distribuzione e della salsedine e della temperatura, secondo le misure raccolte in alcune crociere estive dai professori Wolff e Luksch, fra il 1880 e 1890. Le misure, molto più numerose e rigorose, raccolte nelle diverse stagioni, in quattro anni di campagna, dalla commissione italo-austriaca, hanno rivelato condizioni assai più complesse e molto variabili. Rimane confermata la presenza, si può dire costante, di una corrente ascendente dal canale d'Otranto lungo la costa orientale, che però assai raramente si estende fino alla costa istriana, espandendosi più spesso verso il centro del mare già all'altezza del Gargano. Rimane anche confermata l'esistenza, al di sotto di Ancona, di una corrente discendente lungo la costa occidentale, che spesso però non è la continuazione della corrente litoranea del golfo di Venezia, nel quale facilmente si forma un vortice autonomo che può spingere le acque del Po fino alla costa istriana; ma è alimentata specialmente o dal movimento di ritorno della corrente orientale o da un movimento discendente dall'Istria verso Ancona. Lungo la costa ravennate vi è più spesso un flusso verso nord. Così pure nell'arco di costa dal M. Conero al Gargano la corrente discendente, che corre rettilineamente secondo la corda, determina una corrente ascendente di ritorno. La corrente discendente, urtando contro la punta del Gargano, ne viene deviata verso il largo, formando vortice nel golfo di Manfredonia, dove si riavvicina alla costa, alla quale rimane aderente fino all'uscita; spesso però essa davanti al canale d'Otranto spinge un ramo verso E., chiudendo la circolazione nel bacino meridionale. Questa rappresentazione, basata sulla distribuzione superficiale della salsedine e della temperatura, fu confermata dai risultati di numerosissimi lanci di bottiglie galleggianti, compiuti tanto da parte italiana che da parte austriaca. La velocità delle correnti, verificata in questi lanci, si dimostrò assai variabile, ma in media di meno di un quarto di miglia all'ora, pur verificandosi in casi eccezionali, con venti molto forti, anche velocità di quasi un nodo.

L'indeterminatezza nell'estensione, direzione e velocità delle correnti dell'Adriatico risponde alla grande uniformità degli elementi fisici, per la quale non possono stabilirsi gradienti molto accentuati di densità, risultando perciò più sensibili le influenze esterne dei venti, delle variazioni di dislivello barometrico fra Adriatico e Ionio, e delle correnti di marea.

I venti predominanti sull'Adriatico sono la Bora (da NE.) e lo Scirocco (da SE.), pur essendo assai frequente sulla costa italiana il Maestrale (da NO.), specialmente nei mesi estivi, e il Libeccio o Garbino (da SO.), specialmente forte sulla costa albanese. La Bora è specialmente pericolosa per l'Adriatico settentrionale, perché è una vera cascata d'aria dalle alte coste istriane (v. bora). È vento freddo, asciutto, violentissimo, della durata di pochi giorni.

Lo Scirocco può verificarsi in tutte le stagioni, quando domini una bassa pressione sul Mediterraneo; più frequente perciò in inverno ed autunno, e si estende a tutto l'Adriatico, in quanto ne segue la direzione. Nell'inverno è vento caldo, umido, piovoso, che può durare anche parecchi giorni e talvolta assume violenza di burrasca: d'estate può essere anche fresco ed asciutto (v. scirocco).

Maree. - L'Adriatico, specialmente l'Adriatico settentrionale, ha maree molto più accentuate di quelle del Mediterraneo, che, com'è noto, hanno ampiezze di pochi centimetri; a Venezia l'ampiezza media è di 60 cm., a Trieste di 80; ma essa va diminuendo fin quasi ad annullarsi verso il mezzo dell'Adriatico, per crescere di nuovo, ma meno che sul lato settentrionale (30 cm.), nel bacino meridionale. L'oscillazione di marea è quindi nell'Adriatico come un'oscillazione di sessa (v.), un bilanciamento dei due bacini attorno ad una linea nodale centrale. Perciò anche le ore di alta e bassa marea sono invertite fra i due bacini settentrionale e meridionale. Nel bacino settentrionale la propagazione dell'onda di marea avviene però come per rotazione sinistrorsa (amfidromia) dalla costa orientale alla occidentale. L'ampiezza di marea varia, com'è noto, con le fasi della luna (massimi di sizigie e minimi di quadrature), con le stagioni [massimi equinoziali), e col vento. A Venezia può superare m. 1,20 e con lo scirocco, che spinge l'acqua verso N., valori anche maggiori, determinando l'invasione dell'acqua anche in città. Fra i canali dalmati l'oscillazione di marea determina correnti di Marea molto forti.

Bibl.: Portolano delle coste d'Italia, fasc. 6°; Costa adriatica dal Capo S. Maria di Leuca al confine austriaco, Genova 1909 (R. Marina italiana); Segelhandbuch der Adria, Pola 1906 (K. K. Kriegsmarine); T. Taramelli, La formazione dell'Adriatico, in La Geografia, 1917; G. De Stefani, Géotechnique des deux versants de l'Adriatique, in Annales de la Soc. géol. de Bélgique, Liegi 1908; J. Bourcart, Une hypothèse sur la formation de l'Adriatique, in Comptes rendus des séances de l'Acad. des Sc., CCLXXVIII, Parigi 1924; L. De Marchi, Variazioni del livello dell'Adriatico in corrispondenza colle espansioni glaciali, in Acc. Scient. Veneto-Trentino-Istriana, Padova 1922; G. Feruglio, Risultati di esperienze con galleggianti per lo studio delle correnti nel Mar Adriatico negli anni 1910-14, con appendice di G. Feruglio e L. De Marchi, Le correnti dell'Adriatico secondo la distribuzione superficiale della salsedine e della temperatura, R. Comitato talassografico ital., Mem. 4, V, Venezia 1920; B. Castiglioni, Sulla circolazione dell'Adr. meridionale, in Rend. Acc. Lincei, Classe Sc. fisiche, s. 6ª, VII-VIII (1928).

La funzione economica dell'Adriatico. - In generale, pur se non accada sempre, la funzione economica più importante di un mare è quella commerciale. Ora, la funzione commerciale dell'Adriatico è andata mutando nel volger dei secoli.

In tutto l'evo antico, questo mare non solo non ha una fisionomia commerciale sua propria, ma non rappresenta che un braccio secondario del Mediterraneo occidentale, il quale già di per sé ha un'importanza commerciale assai minore della sua parte orientale. Ed anche quando Cartagine divenne grande città commerciale, pare che l'Adriatico poco partecipasse alla destata attività dei traffici nel Mediterraneo d'occidente. Né l'emigrazione greca che pur fondò importanti colonie sulle rive dell'Ionio, né il sorgere della grandezza romana aumentarono in maniera veramente sensibile i traffici nell'Adriatico, che dovette cominciare ad assumere grande importanza commerciale solo nell'alto Medioevo, sotto il dominio bizantino, col fiorire di Ravenna e, più tardi, col rapido sviluppo di Venezia.

Alle fortune della Serenissima sono legate, in tutti i tempi di mezzo, le sorti di questo mare. Per quasi tutto il Medioevo possiamo dirlo senz'altro mare veneziano: la sua funzione commerciale di via di transito fra l'Oriente e l'Occidente, che è la sua funzione maggiore in questo lungo periodo di tempo, risponde bensì a condizioni naturali particolarmente favorevoli, perché sull'Adriatico settentrionale sboccano le principali vie alpine ed esso costituiva la strada più breve fra l'Europa centrale e settentrionale ed i paesi dell'Oriente; ma, se la posizione della città non fosse stata sagacemente sfruttata dal governo della Serenissima e se la potenza di questa non si fosse così vastamente distesa in Oriente, è assai probabile che l'Adriatico sarebbe stato chiamato soltanto ad esplicare una funzione commerciale assai modesta, non diversa forse, proporzionatamente, da quella che svolge ora. Ma Venezia, nel periodo della sua massima espansione, e cioè nei due secoli che precedono la conquista di Costantinopoli per opera dei Turchi, è giudicata dagli stranieri stessi "il più grande emporio del mondo", a cui affluiscono, nei periodi di fiera, mercanti d'ogni parte d'Europa, specialmente della Germania centrale e meridionale; ed i rapporti abituali e periodici tra Venezia e l'Occidente si spingono fino alle rive del Mar del Nord, all'Inghilterra e alla Francia. Venezia possiede una marina mercantile e militare fra le più forti; controlla gli sbocchi della pianura padana e delle valli alpine sull'Adriatico; gode il più ampio predominio militare, politico e commerciale nella maggior parte dei paesi di Levante. E le mude di Alessandria, di Soria, di Costantinopoli, di Fiandra, apportatrici di ricchezza e di grandezza, solcano periodicamente le acque del glauco mare, e fanno svolgere all'Adriatico, in tutta la sua pienezza, la funzione commerciale naturalmente assegnatagli dalla sua situazione geografica.

La diversa struttura fisica ed economica dei paesi rivieraschi chiamava, però, l'Adriatico anche ad un'altra funzione commerciale, più modesta forse, ma non meno efficace per l'attività dei traffici, e probabilmente più continua: sulle sue acque, cioè, si operava anche lo scambio dei prodotti naturali o industriali delle sue rive. Ma anche questo traffico si svolgeva in gran parte sotto l'egemonia della Serenissima: Venezia, che più di ogni altra città adriatica aveva bisogno di rifornirsi soprattutto di vettovaglie e di materie prime, e meglio di ogni altro stato aveva i mezzi e l'opportunità di farlo, accentrava in sé anche questo commercio, e tale accentramento fu spinto anzi a tal punto che, per qualche periodo di tempo, persino le merci scambiate fra le due opposte sponde dovevano prima essere trasportate a quel porto. Dalla costa occidentale dell'Adriatico, e soprattutto dalla Puglia, Venezia importa grano, vino, olio, lana, ed altre materie prime, di cui rifornisce anche tutta l'Italia settentrionale; esercita il monopolio del sale in tutto l'Adriatico settentrionale ed in quasi tutta la pianura padana; riceve dalla costa orientale animali vivi, pelli, lana, formaggi, miele, cera, pietre e specialmente legname da costruzione e schiavi; rifornisce entrambe le sponde dei prodotti delle industrie.

Col decadere della potenza veneziana, inesorabilmente minata dalle conquiste turche, dalle guerre, dalla politica di terraferma, e soprattutto dallo spostarsi delle vie di comunicazione a causa delle nuove scoperte e dei nuovi caratteri che va assumendo il commercio, anche l'Adriatico decade e diviene un mare del tutto eccentrico, le sorti del quale neppure il taglio dell'istmo di Suez, compiutosi nella seconda metà del secolo scorso (1869), vale a risollevare. Decadenza relativa, ben s'intende, ché, per cifre assolute, il commercio attuale offre cifre di gran lunga maggiori di quelle dei secoli addietro.

Oggi, delle due funzioni commerciali esercitate dall'Adriatico nel passato, l'una, la più importante, è quasi del tutto spenta, e i traffici tra il mondo orientale e quello occidentale (anch'essi hanno relativamente perduto moltissimo della loro importanza) non si svolgono più attraverso i nostri mari; o, almeno, le navi che esercitano tali commerci solcano il Mediterraneo senza neppur sostare nei nostri porti, e noi andiamo a comprare a Londra o a Liverpool il cotone, il the, e magari il grano, provenienti dall'Egitto, dall'India, dall'Australia. Non solo, ma le statistiche italiane ci rivelano anche che, pur nei riguardi della nostra nazione stessa, i traffici coll'Oriente non preferiscono il litorale adriatico in confronto con quello ligure, ed il commercio dell'Adriatico coi paesi europei del carbone è assai maggiore che non quello coi paesi dell'Oriente. Non è da dolersene, perché coi rivolgimenti profondi avutisi in tutta quanta l'economia moderna e con lo spostamento più completo avvenuto nel valore della situazione geografica dei diversi paesi, non era possibile che l'Adriatico conservasse, sia pure in piccola parte, quella sua funzione commerciale.

Nel 1924, anno delle ultime statistiche ufficiali della navigazione per operazioni di commercio, i paesi che più commerciarono coi porti del litorale adriatico furono, per ordine d'importanza, i seguenti: la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Iugoslavia, gli Stati Uniti d'America, l'India, la Tunisia, l'Algeria.

L'intensità del commercio coi paesi esteri dell'altra sponda, ed il fenomeno che le merci trasportate in navigazione di cabotaggio raggiungono quantitativi abbastanza elevati, in confronto alle merci in navigazione internazionale, ci dicono, invece, che è ancora viva e più che mai fiorente la funzione commerciale dell'Adriatico che potremmo dire interna. I caratteri fisici ed economici delle due opposte sponde non sono mutati nel mutar dei secoli, ed ancora oggi noi importiamo dall'altra riva, come Venezia ai lempi della sua grandezza, animali vivi, pelli, frutta secche, pietre da calce e da cemento, soprattutto legname da opera e da fuoco; mentre vi esportiamo, come allora, alcuni prodotti peculiari della nostra agricoltura e della nostra industria, specie di quella tessile. Molte delle insenature del nostro litorale, un tempo porticciuoli abbastanza frequentati, non sono più oramai che poveri porti da pesca, e lo sviluppo demografico delle nostre regioni agricole meridionali e centrali non consente più la spedizione di alcuni prodotti agricoli di largo consumo, come il frumento. Malgrado questo, però, la diversità dell'economia dei paesi della stessa costa italiana ancora oggi determina un non trascurabile traffico, e mentre dai minori porti dell'Adriatico si esportano tuttora alcuni prodotti dell'agricoltura, come olio, vini, vinacce, frutta secche, ortaggi, ecc. o alcuni peculiari prodotti minerali o industriali, come pietra da calce, ghiaia, roccia asfaltica, laterizî, sale; dai porti maggiori si diffondono i manufatti o si distribuiscono alcune importanti materie prime.

Ma questo traffico di cabotaggio, per quanto attivo, rimane pur sempre molto inferiore alle quantità di merci che si importano dall'estero per i bisogni della popolazione o delle industrie delle regioni servite dai porti adriatici: i grani, il carbone, le fibre tessili, costituiscono oggi, anche per questo mare, le grandi masse del traffico, e Trieste e Venezia da sole concentrano la grande maggioranza del movimento commerciale dell'Adriatico.

Il traffico e le caratteristiche dei porti principali. - La diversa situazione geografica e le diverse condizioni economiche e politiche dello stato al quale essi appartenevano, diedero ai varî porti sorti differenti, ed ancora oggi, naturalmente, essi presentano diversa importanza. Tutti, però, ad eccezione, in parte, di Trieste, esercitano in prevalenza una funzione regionale, ed ai progressi del retroterra hanno legato le loro fortune. Tutti, ad eccezione di Trieste e di Fiume, servono un retroterra nazionale, che per alcuni di essi è anche strettamente limitato. In tutti, le importazioni superano di gran lunga i quantitativi di merce esportata. Ma il rapporto tra merce sbarcata e merce imbarcata muta di molto da un porto all'altro, come si può rilevare pur dalle cifre assolute della tabella che segue.

Il rapporto della merce imbarcata a quella sbarcata, molto elevato per Trieste e soprattutto per Fiume, mette in chiara evidenza il fatto che questi due porti, per l'ampiezza del loro retroterra, che si estende assai al di là delle frontiere (naturalmente ciò avviene in special modo per Fiume) e per l'industrialità della zona portuale stessa, nettamente si distinguono dagli altri maggiori porti adriatici, i quali hanno soprattutto il compito di rifornire di viveri e di materie prime un retroterra più o meno limitato, quasi sempre strettamente regionale.

La pesca nell'Adriatico. - Sebbene questo mare presenti, a paragone del Tirreno, un assai maggiore sviluppo della piattaforma continentale, specialmente nella sua parte più settentrionale, dove non si raggiunge l'isobata di 100 m., pure, per la temperatura delle sue acque, per la scarsezza di buoni porti, ove i battelli possano cercar rifugio in caso di tempesta, e per la natura stessa del fondo, non offre condizioni particolarmente favorevoli all'esercizio della pesca. Infine, non di rado, le accidentalità del fondo pregiudicano in tal modo la sicurezza delle reti, da escludere nella pratica da questo esercizio alcune zone, o, se non altro, da consentire lo sfruttamento solo mediante alcuni determinati tipi di reti.

In qualche zona, d'altra parte, la scarsezza delle comunicazioni col retroterra o la mancanza di centri urbani importanti a non molta distanza dai luoghi di pesca, diminuisce di molto il valore di questo prodotto, specie in caso di pesche di eccezionale abbondanza.

La pesca è ancora oggi, in maggioranza, esercitata con barche a vela che vanno a coppie (paranze), ed in non poche zone questa industria ha ancora carattere primitivo; però, non sempre le condizioni naturali ed economiche consentirebbero uno sfruttamento più razionale, ed i rapidi progressi fattisi negli ultimi tempi hanno già molto diffuso i pescherecci a motore, e reti e metodi di pesca davvero moderni.

Assai maggiore pescosità della nostra costa offre, per la sua natura, l'opposta sponda dell'Adriatico e in special modo la zona insulare, dove sono soliti spingersi i nostri pescatori. In questa zona insulare, ancora assai poco sfruttata, sono particolarmente fruttifere la pesca delle aragoste e degli astici, che in quantità spesso molto abbondanti vengono spediti nella nostra penisola, sui mercati di Venezia, Trieste, Milano, e la pesca delle sardelle. Queste vengono per lo più salate sul posto e messe in barile dai pescatori stessi, che in qualcuna di queste isole sono semplici agricoltori dedicantisi alla pesca nella stagione opportuna. Si calcola che soltanto a Lagosta si preparino ogni anno in media circa 500 barili di sardelle, ma in qualche anno, come nel 1916, se ne prepararono persino 2000 barili (ogni barile di 56 kg. circa).

Nell'alto Adriatico, l'esercizio della pesca nelle acque comuni con la Iugoslavia è disciplinato dal trattato di Brioni.

L'esercizio della pesca sulla costa albanese è riservato a sudditi albanesi, i quali devono affittarne dal governo la concessione, che poi possono subappaltare, come attualmente fanno, anche a cittadini italiani. Lungo la costa albanese e nei numerosi stagni che la orlano, la pesca dà ottimi frutti ed il prodotto, mantenuto in apposite cassette a telaio in depositi galleggianti costituiti da vecchi velieri e settimanalmente forniti di ghiaccio, viene due o tre volte la settimana trasportato in Italia, specialmente a Bari, per mezzo di trasporti rapidi.

Per una valutazione esatta del prodotto della pesca nell'Adriatico non si hanno ancora dati attendibili; fu parzialmente tentata una valutazione dal Levi-Morenos, qualche anno fa, per Venezia.

Il più importante mercato peschereccio dell'Adriatico è Chioggia, che può dirsi anche il più importante mercato italiano.

Carattere particolare hanno la pesca lagunare e quella valliva.

Bibl.: P. Pasquini, Per una maggiore conoscenza della pesca adriatica ed insulare, in Boll. pesca, piscic., idrobiol., Roma 1926; D. Levi-Morenos, L'utilizzazione razionale ed intensiva delle lagune di Venezia per l'approvvigionamento, Comitato Talassografico Italiano, 1920; Per lo sviluppo della pesca in Albania, Relazione Comitato Talassografico Italiano, 1914.

Storia. - Notevole la vicenda storica di questo mare. Nella antichità non si fece mai una netta distinzione tra il mare Adriatico e lo Ionio: spesse volte lo Ionio è chiamato Adriatico (Atti degli Apostoli, XXVIII), e viceversa. Secondo le ricerche più attendibili, e lasciando da parte le numerose leggende contraddittorie, sulle due rive di quello che noi oggi chiamiamo Adriatico si stabilirono, in epoche remotissime, popolazioni provenienti dall'Oriente, sottomettendo o cacciando altre genti, già pervenute a un certo grado di civiltà. Veneti, Liburni, Iapigi, Messapi sembrano i nuclei principali stanziati sulla sponda occidentale, Illirî quelli che restarono sulla sponda orientale. Ai Veneti, navigatori e fondatori di città sulla costa e sui fiumi al settentrione del Po, si fa risalire la fondazione di Adria (Hatria) presso le foci del Po (e da non confondersi, come spesso accade, con Hadria o Hatria nel Piceno), donde probabilmente il nome del mare, Adriano, Adriaco, Adriatico. Gli Etruschi si sovrapposero ai Veneti in epoca non precisata e si estesero poi anche a mezzodì del Po, ed esercitarono una vera talassocrazia sulle città marinare adriatiche, non minore di quella esercitata sul versante tirreno.

Alla supremazia etrusca si contrappose, dal sec. VIII a. C. in poi, quella degli Elleni, che, occupate prima le isole Ionie, dette così da un ramo della loro stirpe, disseminarono di loro stabilimenti la parte centrale e settentrionale dell'Adriatico italiano e tutto il versante orientale. Ancona, Epidauro, Apollonia, Traù, Ragusa, Curzola (Corcyra nigra) debbono la loro fondazione alle colonie greche: oltre Corfù (Corcyra), Taranto, Siracusa nello Ionio. Sulla fine del sec. V e sul principio del IV, l'invasione gallica si estese dal Po all'Esino e forse oltre, scacciando gli Etruschi. Ma alla loro volta i Galli furono combattuti dai Romani, i quali fondarono forti colonie da Rimini (Ariminum) ad Atri (Hadria), e poi, vinta Taranto e conquistata la Magna Grecia, altre colonie fondarono sulle spiagge dell'Italia meridionale, tra cui Brindisi (Brundusium), che divenne base di operazioni navali per la conquista della Grecia.

Ebbe così inizio una marina da guerra romana nell'Adriatico; e siccome già, dopo la conquista dell'Etruria e della Campania, i Romani avevano affermato il loro dominio nel medio Tirreno, non tardò Roma ad esercitare la polizia marittima anche sull'altra sponda, dove, dalle isole curzolane e dalla costa che sta loro di fronte, numerosi nuclei di genti illiriche infestavano il mare esercitando la pirateria. Si ebbero così le prime spedizioni romane sull'altra sponda adriatica, le quali culminarono nelle guerre contro il regno degl'Illirî del 229-228 e del 219 a. C., che diedero a Roma, sia pure indirettamente dapprima, il dominio del medio e del basso Adriatico. Vinti definitivamente i Galli, abbattuti i Veneti, assoggettate con la forza le popolazioni dell'Istria, Roma fu assoluta padrona dell'Adriatico e con la fondazione della colonia d'Aquileia (181 a. C.), base strategica di prim'ordine, se ne assicurò la libera navigazione. Esso divenne poi un vero lago romano, dopo la distruzione del regno di Illiria, che aveva la sua capitale a Scutari (Scodra), e dopo che le città elleniche della riva orientale entrarono come alleate navali a far parte del dominio di Roma, Come già era stato, in parte, teatro delle guerre macedoniche, l'Adriatico fu campo di azione durante le guerre civili. Augusto vi fondò numerose colonie, tra cui Trieste (Tergeste), Pola, Parenzo, Zara (Iadra); altre, come Salona, nel Basso Adriatico, sia di importanza strategica, sia di importanza commerciale, sorsero più tardi. Si ha ricordo di importanti stazioni navali ad Aquileia ed a Brindisi: ma fra le città adriatiche, nel periodo del basso impero, acquistò somma importanza Ravenna, che nel principio del sec. V d. C. divenne residenza degl'imperatori d'Occidente. Il suo porto, Classe, fu sede di una squadra permanente.

Con la divisione dell'impero in occidentale ed orientale, la unità romana dell'Adriatico fu rotta: perché dal canale scaricatore delle acque del lago di Scutari in giù, la costa orientale fu attribuita all'impero d'Oriente, restando a quello d'Occidente tutta la costa, che chiameremo latina perché portava ormai impresso il profondo suggello della romanità, fino circa al 42° parallelo. Le vestigia dell'opera romana restarono incancellabili, e restano fino ai giorni nostri, nonostante molte vicende, invasioni e rivoluzioni. Finché l'impero d'occidente ebbe vita, non fu molto sensibile la netta divisione politica dell'Adriatico in due parti; né le prime invasioni barbariche poterono renderla evidente. Infatti la sponda occidentale, l'Istria e la Dalmazia, vennero in potere di Odoacre e poi di Teodorico, mentre l'impero romano d'Oriente, o bizantino, restò per lunghissimo tempo in possesso della regione illirica fino all'imboccatura dello Ionio.

Caduto il regno gotico per opera di Narsete, tutta l'Italia con l'Istria divenne dominio dell'impero bizantino, e l'unità dell'Adriatico sembrò ricostituita: ma, subito dopo, l'invasione dei Longobardi tornò a spezzarla, poiché essi a poco a poco, respingendo i Bizantini, posero piede sulla riva italiana dell'Adriatico centrale, e finirono con l'occupare, sia pure per brevissim0 tempo, Ravenna. In questa lotta, ausiliatori dei Bizantini furono i futuri dominatori dell'Adriatico, quei profughi dalle città venete di terraferma che avevano cercato rifugio nelle lagune tra Adige ed Isonzo, e che, sotto la sovranità bizantina, divenuta sempre meno sensibile, avevano goduto d'una certa autonomia, finché, trasferita la sede dell'autorità politica da Eraclea a Malamocco, e poi a Rialto, cominciarono ad esser conosciuti col nome di Venetici, poi di Veneziani.

Eredi, se non unici, certo primi delle gloriose tradizioni marinare romane, mentre nel resto dell'Italia adriatica ogni attività marittima sembra spenta, essi, i Veneti marittimi, fecero, fin dal sec. VI, la polizia dell'Adriatico, combattendo poi contro le frequenti incursioni arabiche in questo mare, talora uniti alle forze del governo bizantino, da cui dipendevano, ma spesso soli; e mostrarono la loro forza anche contro i Longobardi (a Ravenna) e poi contro i Franchi di Carlomagno e di Pipino. Ma più specialmente notevole è la lotta che essi sostennero contro le genti slave, affacciatesi all'Adriatico nei secoli VI-VII e insediatesi con la violenza in alcune isole della sponda orientale e lungo le coste al mezzodì del Quarnaro, specialmente alle foci dei fiumi e dei torrenti, che dalle Dinariche scendono al mare e formano delle vere vie di penetrazione. Sprovvisti di mezzi di sussistenza, avidi di preda, quegli Slavi meridionali avevano iniziato, come già le popolazioni contro cui Roma aveva combattuto, una sfrenata guerra di pirateria, alternandola col lucroso commercio di schiavi fatti nelle loro incursioni. Furono aspre, furibonde guerre, intramezzate da brevi insincere tregue, quelle che i duces (dogi) di Venezia sostennero con tali genti, dando loro la caccia, inseguendoli e sorprendendoli nelle loro basi, ma talvolta subendo la loro violenza, di cui resta traccia nella leggenda del ratto delle spose e nella cerimonia della benedizione del mare. Alcuni dogi perdettero la vita combattendo contro di loro, specialmente contro il terribile Domagoi (sec. IX), che, secondo le cronache veneziane, poteva disporre di ben ottanta navi, con cui devastò l'Istria, minacciò Venezia, sparse il terrore in tutto l'alto Adriatico. Contro di lui, già vinto dal doge Orso Partecipazio I in una fiera battaglia nei pressi di Zara, mosse il doge Pietro Candiano 1° (887), il quale morì combattendo. Né solo contro gli Arabi e gli Slavi, ma anche contro gli Ungari, i quali, vinto Berengario re d'Italia, avevano messo insieme un'armata e avevano saccheggiato Chioggia, combatterono e vinsero i Veneziani, liberando l'Adriatico da un nuovo gravissimo pericolo.

Nessuna meraviglia, dunque, che gli abitanti dell'Istria, mentre le autorità imperiali erano impotenti a difendere da tanti nemici le loro vite, i loro traffici, le loro navi di commercio, pagassero ai veri loro difensori un tenue tributo e ne riconoscessero l'egemonia marittima; donde poi continue querele dei Veneziani coi marchesi d'Istria. E anche gli abitanti della Dalmazia e dell'Italia centrale, dipendente dal pontefice in seguito alle donazioni caroline, e forse anche di alcune città dell'Italia meridionale soggette ai Bizantini, furono da quei valorosi marinai difesi contro le incursioni arabiche; sì che essi considerarono i Veneziani come amici potenti, come superiori, come desiderabili protettori.

Di questa protezione si ebbe una manifestazione tangibile, secondo i documenti a noi pervenuti, nell'anno 1000 d. C., quando il doge Pietro Orseolo II con una potente armata navale percorse tutto il litorale, dalle lagune a Cattaro, ricevendo gli omaggi e i tributi delle città latine, e usando la forza per obbligare a reverenza e ad omaggio le città e le isole, dove gli Slavi avevano imposto la loro volontà. Non fu un vero protettorato; ma fu indubbiamente il primo passo a quella supremazia, che doveva più tardi convertirsi in dominio. Gelosi di tale supremazia, ai Normanni che nel sec. XI, rovesciata la dominazione bizantina nell'Italia meridionale, cercavano di porre piede sull'altra sponda adriatica, i Veneziani fecero energica opposizione; costrinsero le città dalmate a non accoglierli nei loro porti, e quando, mutata la mèta, i Normanni cercarono di attaccare le terre adriatiche ancora appartenenti all'impero d'oriente, cioè l'odierna Albania, essi si schierarono, dietro lauto compenso, in difesa dei Bizantini. La campagna navale più memorabile che durante il Medioevo fosse combattuta in Adriatico, fu quella (del resto a noi mal nota) del 1081-1085 tra i Veneziani e Roberto Guiscardo, a Durazzo e a Corfù, che terminò solo con la morte del tenace ed astuto duca normanno.

Ma si rinnovarono le lotte sotto i successori di lui, che già avevano assunto il titolo reale; i dogi infatti, i quali alla loro volta avevano assunto il titolo di duchi di Croazia e di Dalmazia, scesero nuovamente in campo con le loro armate in difesa dell'impero bizantino; ed è evidente che non la simpatia verso antichi signori li spinse a quella politica, ma il timore che, posto il piede sull'altra sponda, gli intraprendenti ed attivi Normanni potessero loro togliere quel primato, che nessun altro poteva loro contestare. Resistere energicamente ai tentativi dei bani di Croazia di allargare il loro dominio: infrenare le sempre rinnovantesi incursioni dei sovrani d'Ungheria in Dalmazia, domando con la forza le città latine da loro sobillate a ribellione, come Zara; sorvegliare l'impero greco, quando Manuele Comneno tentò di far di Ancona una base alle sue rivendicazioni adriatiche; schierarsi contro gli imperatori svevi, eredi dei Normanni: ecco la politica adriatica di Venezia nel sec. XII e in parte del successivo, quando, dopo la cosiddetta quarta crociata, tutto il territorio adriatico dell'impero bizantino, da Cattaro in giù, le toccò in sorte.

Gli acquisti d'oltremare fecero della piccola città lagunare il più potente stato coloniale del Mediterraneo; ma nell'Adriatico, come del resto anche altrove, non fu facile ad una città senza retroterra e con popolazione relativamente scarsa tenere solidamente ciò che il trattato di partizione del 1204 le assegnava; perciò il possesso della regione albanese e delle isole Ionie fu allora più nominale che reale; e il titolo di signore della quarta parte e mezzo dell'impero romano (d'oriente), assunto dai dogi da Enrico Dandolo in poi, fu rispetto all'Adriatico soltanto formale. Ma, se il possesso del litorale albanese-epirota si limitò, e per non lungo tempo, a Durazzo ed a qualche isola, il dominio del mare fu assoluto, indiscutibile: anche le città dalle foci del Po al Tronto, nominalmente soggette al papa, lo riconobbero, obbligandosi con trattati a ricevere merci solo da Venezia, a non accettare nei loro porti navi di altri stati. Cominciò allora l'Adriatico ad esser chiamato il golfo di Venezia nei documenti della Dominante, anzi più tardi, per antonomasia, il golfo, quantunque la parte più meridionale di quel mare non fosse soggetta al dominio effettivo; e cominciò Venezia ad avere una squadra permanente nell'Adriatico per esercitarne la polizia e far rispettare i patti commerciali, sotto un magistrato elettivo, che fu detto capitano del golfo, e le cui funzioni durarono per molti secoli.

Ma contro l'egemonia veneziana si levano vecchi e nuovi nemici: il re d'Ungheria, che, unita alla sua corona quella di Croazia, voleva l'effettivo dominio delle coste al sud del Quarnaro, eccitava continuamente le città dalmate a ribellione, e finiva con l'imporre a Venezia, nel 1358, la rinunzia alla Dalmazia; il duca d'Austria, che voleva e riusciva ad avere dopo molte vicende e contrasti la città di Trieste, importantissimo sbocco all'Adriatico per i suoi dominî di terraferma; i Serbi, che nel periodo della loro maggior espansione (re Dusan, 1331-1355) tendevano anch'essi al dominio della Dalmazia meridionale; e, più temibile di tutti gli altri nemici, Genova, divenuta potenza navale di prim'ordine, che, come in tutti gli altri mari, anche nell'Adriatico, alleata con gli altri nemici, con le sue formidabili armate combatteva l'egemonia veneziana, costringendo Venezia a lotte che la prostrarono e la dissanguarono, anche se terminate con la vittoria. Curzola (1299), Parenzo (1354), Pola (1379), Chioggia (1381), legate ai nomi di quattro ammiragli della casa d'Oria, segnano gli episodî adriatici più famosi di questa lotta feroce, che non ebbe, si può dire, mai tregua, neppure quando le due città firmavano trattati di pace; e mentre determinano la fine della vera potenza marinara italiana nel Mediterraneo, per l'Adriatico costituiscono un periodo di sosta nella egemonia veneziana. Le città, che avevano subìto l'imposizione veneziana, Trieste, Ancona, Ferrara, Ravenna, rivendicano la loro libertà di navigazione; il doge deve rinunziare ai suoi titoli di duca di Dalmazia e di Croazia; d'ogni parte sorgono nuovi competitori. Ma all'inizio del sec. XV, rifatte le forze, conquistata la terraferma dall'Isonzo alle foci dell'Adige e del Po, Venezia riprende il dominio adriatico: rioccupa, e saldamente, la Dalmazia (1420); ora d'accordo, ora in lotta coi successori di re Dusan, si assicura il possesso di alcuni punti strategici della costa albanese; compera alcune delle isole Ionie e specialmente Corfù; e, se deve rinunziare al possesso di Trieste, non lascia passare occasione per tentarne il riacquisto e per escludere la casa d'Austria divenuta potentissima, dall'Adriatico.

Ma nuovi nemici, trascurati in principio, o almeno non combattuti con la necessaria energia, minacciano la risorgente egemonia adriatica, anzi tutto il Mediterraneo orientale: i Turchi Osmanli, che, gettatisi dall'Asia nella Balcania, prima ancora di occupare Costantinopoli, in una serie di vittoriose campagne travolgono Bizantini, Serbi, tutti i principati cristiani della penisola. Si affacciano essi minacciosi all'Adriatico, non solo sulle coste albanesi, ma occupando anche (sia pure per brevissimo periodo) Otranto, mentre con periodiche incursioni nel Friuli tentano di occupare anche le sponde settentrionali di questo mare. Invano Veneziani e Pontefici invocarono l'aiuto delle potenze occidentali contro il nuovo nemico; invano Venezia sostenne ed aiutò i principati balcanici, e specialmente l'eroe dell'indipendenza albanese, Giorgio Castriota (Skanderbeg); e se l'Adriatico nella lotta tra Venezia e i Turchi, durata tre secoli e più, ebbe una parte secondaria (poiché le grandi battaglie si combatterono nel Mediterraneo orientale), non è men vero che, e per terra e per mare, nell'Adriatico si combatté sempre. E fu merito grande di Venezia l'aver impedito i progressi turchi in questo mare; l'aver cercato qui dei compensi alla perdita delle colonie oltremarine; l'aver sempre, anche molestata e insidiata da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi aiutatori, gli Spagnoli padroni dell'Italia meridionale, e i Tedeschi di casa d'Austria (guerra degli Uscocchi), tenacemente difeso, anzi allargato i suoi possessi d'Albania, di Dalmazia (Castelnuovo) e delle isole Ionie, ponendo un argine al dilagare degli Infedeli.

Nelle ostilità dei due rami della casa d'Austria, talora non disinteressati e poco scrupolosi alleati contro i Turchi, più spesso insidiatori dell'indipendenza veneziana, è evidente l'intenzione dì sostituire il proprio al predominio adriatico di Venezia, fattosi sempre più debole, sempre meno efficace, ma pur sempre temibile, da quando il sogno ambizioso di assoluta padronanza, manifestatosi intorno al 1500 con l'occupazione di Bari, Monopoli, Cervia, Ravenna, Trieste ed altri luoghi del litorale, era stato stroncato dalla lega di Cambrai.

Sulla fine del sec. XVIII le condizioni politiche dell'Adriatico subiscono una radicale trasformazione: Venezia perde la sua indipendenza, e l'Austria, che da lungo tempo ne spiava l'agonia, diviene per il trattato di Campoformio la sua erede adriatica: dalle foci del Po sino a Cattaro essa estende la sua dominazione, sostituendo la sua aquila a due teste al leone alato di San Marco, che le popolazioni dalmate nascondono con dimostrazioni vibranti di affetto e di rimpianto.

Ecco l'Austria divenire una potenza navale, i cui elementi sono però prevalentemente italiani, veneziani cioè, istriani e dalmati, con lingua di comando italiana, con sentimenti italiani: e tale resterà fino al 1866, ed anche più tardi. V'è però una parentesi, che chiameremo francese, o meglio napoleonica, nella quale l'Adriatico, se non diventò un lago franco-italiano, ebbe però molti elementi per diventarlo: quando le coste adriatiche del regno di Napoli, le coste già pontificie, la Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le provincie illiriche, o sotto il diretto dominio dell'imperatore Napoleone, o sotto lo scettro dei re francesi di Napoli, o sotto il governo del regno italico, avrebbero potuto formare una grande unità. Mancò tuttavia il dominio del mare, e tutti gli sforzi per conseguirlo si spuntarono contro le navi d'Inghilterra, penetrate allora per la prima volta nell'antico golfo di Venezia. La battaglia di Lissa (1811), pur onorevolissima per la embrionale marina franco-italica, segnò la rovina del sogno imperiale.

La caduta di Napoleone I e la pace di Vienna ridiedero all'Austria la prevalenza nell'Adriatico, che né i re di Napoli, né i Pontefici, né i Turchi potevano contestarle. Nel breve periodo d'indipendenza di Venezia (1848-49) si sarebbe forse potuto rovesciare questa situazione: ma né le armate navali sarda e napoletana, né l'armatella veneziana si cimentarono con le forze austriache, che pure erano ridotte a minime proporzioni e di sentimenti malsicuri; e d'altra parte le vittorie terrestri dell'Austria avrebbero forse reso sterile una vittoria navale. In quella guerra, per la prima volta, la confederazione degli stati germanici mostrò d'interessarsi della sorte di Trieste, considerandola come parte della confederazione stessa ed iniziando quella politica, che poi i pangermanisti svilupparono per porre piede nell'Adriatico. Dopo la guerra del 1848-49, Trieste acquista notevolissima importanza commerciale: la ribelle Venezia viene spogliata d'ogni vantaggio commerciale e navale, ed a Trieste ormai fanno capo tutte le linee di navigazione, mentre con linee ferroviarie essa è allacciata all'Austria ed alla Germania, sicché non tarda a diventare, grazie anche al suo porto franco, l'emporio principale dell'Adriatico. E contemporaneamente si armano a difesa, contro possibili minacce del Piemonte, le isole della Dalmazia; e si viene iniziando nelle stesse isole e sulla terraferma quella politica abilissima di affievolire l'elemento italiano preponderante, favorendo l'immigrazione degli Slavi verso la costa, largendo loro privilegi e vantaggi d'ogni specie per farsene strumento di lotta contro gli Italiani. Anche i Veneziani avevano favorito l'immigrazione degli Slavi nell'Istria per ripopolare quella regione desolata dalla malaria (sec. XVII e XVIII); ma quegli Slavi erano allora fedelissimi alla repubblica di San Marco, mentre ora si eccitavano in varî modi a combattere l'italianità.

Questi provvedimenti si intensificarono dopo il 1859, nel quale anno la comparsa di una armata francese e sarda nell'Adriatico (fino a Lussinpiccolo), che doveva investire Venezia dal mare in cooperazione con l'esercito attaccante il quadrilatero, suscitò molto entusiamo e molte speranze negli Italiani dell'Istria e della Dalmazia; ma, come è notissimo, l'armistizio di Villafranca troncò in sul nascere ogni speranza. Una notevole modificazione alla situazione politica adriatica si ebbe, comunque, con l'annessione al regno sardo dell'Emilia e delle Romagne, perché sul territorio costiero dal Po alla Cattolica fu inalberata la bandiera tricolore, segnacolo di libertà, auspicio di redenzione. Quando, nel 1860, la spedizione delle Marche e dell'Umbria, ad opera del governo sardo, terminò con il bombardamento d'Ancona e con l'annessione di tutto il territorio dal Conca al Tronto al regno di Vittorio Emanuele II; quando, per effetto della spedizione garibaldina e dei plebisciti, il regno sardo, divenuto regno d'Italia (1861), estese il suo dominio dal Po a Santa Maria di Leuca, l'Adriatico rimase diviso fra tre padroni: l'Italia, l'Austria, la Turchia, quest'ultima già da allora minacciata anche nei suoi possessi adriatici dalle forze di espansione degli Slavi del sud, dall'insofferenza albanese e dalla cupidigia degli altri due stati adriatici, tra loro rivali.

Ancona divenne la base d'operazione dell'armata navale italiana, il cui precipuo scopo, la cui ambizione e la cui speranza era la liberazione di Venezia e delle altre terre di lingua e di nazionalità italiana; mentre l'Austria nella sua nuova base navale dell'istriana Pola, formidabilmente armata, si preparò a combattere per la difesa dei suoi possessi adriatici. Ancora una volta questo mare fu teatro di una battaglia navale, Lissa, in cui, per mancanza di energia nel nostro comandante supremo, la vittoria, che avrebbe potuto assicurarci almeno il possesso di Trieste, non arrise alle nostre armi; ed il nemico poté vantarsi, se non di una grande vittoria, di una parvenza di trionfo. Noi scontammo per un cinquantennio la non conseguita vittoria; e se nella pace ci fu assegnata soltanto Venezia senza l'Istria, senza la Dalmazia, senza le isole costiere, quell'acquisto, conseguito per trattative diplomatiche, ci fu doppiamente amaro (1866).

Erede delle tradizioni gloriose e dei diritti storici dell'antica dominatrice dell'Adriatico, l'Italia si sentiva chiusa e soffocata in questo mare; non poteva far risorgere a grandezza commerciale Venezia, poiché la mala signoria austriaca l'aveva troppo indebolita e la floridezza di Trieste era d'ostacolo ad ogni concorrenza, mentre sotto l'aspetto militare l'inferiorità strategica del nostro litorale era fin troppo manifesta. Infatti, mentre l'Austria, dal golfo di Trieste alla baia di Cattaro, aveva alcune formidabili basi, molte basi secondarie e un fittissimo cordone litoraneo di isole, dietro il cui riparo poteva spostare da una base all'altra le sue navi senza che fossero scoperte, e poteva tra l'una e l'altra tendere insidie a qualsiasi assalitore, la nostra costa, scoperta, bassa, importuosa, era esposta ad ogni assalto, inadatta a qualsiasi insidia. Unica base allora possibile era Venezia, alla cui difesa si richiedevano ingenti opere, mentre Ancona, disadatta a navi da guerra potenti, doveva essere ben presto abbandonata: e di Brindisi, oggi discreto ancoraggio per navi di media portata, fino alla guerra recentissima nessuno si occupò.

Parve che l'Italia avesse abbandonato ogni speranza di rivendicare nell'Adriatico, come altrove, i suoi confini naturali, quando, minacciata e provocata dai vicini d'oltre Cenisio, essa si strinse con le potenze centrali, Austria e Germania, in alleanza politico-militare, più volte rinnovata; e parve colpa grave pensare alle terre irredente, a Trieste specialmente, dove, sotto la pressione tedesca da un lato, e slava dall'altro, favorita quest'ultima dal governo austriaco per farsene strumento contro gli elementi italiani di gran lunga prevalenti, fermentava il lievito della ribellione e cominciava a sorgere quel partito, che voleva Trieste aggregata all'Italia, perché fosse "un potente mezzo di espansione italiana nel Mediterraneo e nell'Oriente". Nel frattempo, una non trascurabile modificazione politica subiva l'Adriatico orientale, poiché, in seguito alla guerra russo-turca ed alle successive stipulazioni di trattati nel congresso di Berlino, al mezzodì di Cattaro il piccolo stato del Montenegro otteneva uno sbocco sul mare con Antivari e poco dopo con Dulcigno (1878-1880); mentre la Grecia e la Serbia, ambedue cresciute di potenza e di ardimento in seguito alle sconfitte turche, tendevano anch'esse all'Adriatico, l'una e l'altra sorvegliando con cupido sguardo la provincia turca dell'Albania e fomentandovi insurrezioni. D'altra parte anche l'Austria e l'Italia aspiravano a quelle terre, il cui distacco dalla Turchia era preveduto prossimo; e lottavano per attrarre a sé le popolazioni. L'Austria però era più vicina e, nella sua propaganda, più ardita e fortunata; perché aveva ottenuto di esercitare la polizia marittima sulle coste montenegrine, e, occupata militarmente la Bosnia e l'Erzegovina, aveva acquistato in Adriatico un nuovo punto d'appoggio con Spitza. L'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina, avvenuta nel 1908, avvicinò ancora più di prima gli Slavi all'Adriatico, e rafforzò la posizione preponderante dell'Austria; di qui un inasprimento nelle relazioni italo-austriache, una maggiore pressione degli Slavi contro l'elemento italiano in Dalmazia, un più aperto favoreggiamento dei primi a scapito dei secondi da parte del governo austriaco, una vera sopraffazione a danno degli Italiani a Trieste, a Zara, a Sebenico, a Spalato. Dovunque poteva temersi che questi fossero in prevalenza si tentò anche un trapianto di elementi slavi, lasciando anche sperare la costituzione nella monarchia asburghese di un terzo stato autonomo con capitale Zagabria, solo politicamente, come l'Austria e l'Ungheria, riunito alla corona (trialismo). Anche a Fiume, che fin dal 1779 era stata eretta in corpo separato ed aggregata, con molti privilegi, alla corona di Santo Stefano (cioè al regno di Ungheria), la slavizzazione artificiale favorita dal governo procedeva rapida, nonostante la salda resistenza della popolazione schiettamente italiana.

Allorquando, dopo la nostra impresa libica, durante la quale l'Austria si era mostrata gelosissima di nostre operazioni contro i porti turchi dell'Adriatico, scoppiò la grande guerra balcanica del 1912, le condizioni politiche di questo mare subirono nuove modificazioni: la rivolta di tribù albanesi e le vicende belliche sottrassero ai Turchi le regioni albanesi, su cui si scatenarono le cupidigie dei Serbi e dei Greci, gli uni e gli altri anelanti ad uno sbocco in Adriatico. L'intervento delle potenze, invocato dall'Austria e dall'Italia, frenò le aspirazioni dei Serbi, che volevano insediarsi a San Giovanni di Medua e a Durzazo sull'Adriatico; e dei Greci che volevano assorbire l'Albania meridionale: creò uno stato autonomo di Albania (1912-1914), e in nome dell'equilibrio dell'Adriatico assicurò la libertà del canale d'Otranto.

Ma era appena calmato, o almeno soffocato, il fiero dissidio balcanico, allorché scoppiò la guerra mondiale, e l'Adriatico divenne subito uno dei campi secondarî di lotta. Dapprima contro le forze navali austriache si cimentò solo l'armata navale di Francia, la quale, priva di basi prossime per la nostra neutralità, intraprese solo qualche scorreria nell'Adriatico, senza conseguire vantaggio alcuno, anzi perdendo per siluramento due unità da battaglia. Quando poi, nel maggio del 1915, in seguito al trattato di Londra che ci assicurava nell'Adriatico, a malgrado della ostinata opposizione dei Russi, tutori degli interessi dei Serbi, notevoli vantaggi territoriali in Istria e Dalmazia (pur troppo non si parlò allora di Fiume) l'Italia scese in campo, la situazione mutò. Ebbe l'Italia un rinforzo di navi inglesi e di siluranti francesi (convenzione di Parigi); ma fu espressamente stabilito che il comando delle forze e la direzione delle operazioni in Adriatico spettassero esclusivamente all'Italia. La situazione strategica rese molto dura e faticosa all'armata nostra la conquista del dominio del mare, poiché nei primi tempi poterono i nemici bombardare alcune città costiere, fra cui Ancona, e ritirarsi indisturbati prima che dalle loro basi lontane le nostre navi potessero accorrere a tagliar loro la via del ritorno; ma con la tenacia, lo spirito di sacrificio, l'assidua crociera, a poco a poco gli Italiani costrinsero gli Austriaci a chiudersi nei loro porti. Tra le imprese navali più importanti, compiute dalla marina italiana, col concorso di alcune unità inglesi e francesi, merita di essere specialmente segnalato l'imbarco e il trasporto sulla sponda italiana dell'esercito serbo in ritirata, di parte della popolazione civile serba, degli stessi prigionieri austriaci (1916) dai porti albanesi di San Giovanni di Medua, di Durazzo, di Valona, occupata quest'ultima da noi prima della nostra entrata in guerra. Assai importante fu anche lo sbarramento del canale d'Otranto per chiudere il passo ai sottomarini nemici, che in Adriatico avevano la loro base: esso fu dapprima soltanto costituito da navi con reti; poi si trasformò in uno sbarramento di reti ancorate e vigilate da navi. I tentativi austriaci di sfondare l'uno e poi l'altro sbarramento fallirono sempre, ma diedero luogo a parecchi scontri. Non è qui il luogo di ricordare gli eroici episodi della guerra adriatica, a cui sono legati i nomi di Luigi Rizzo, di Mario Pellegrini, di Costanzo Ciano, di Gabriele D'Annunzio, di Rossetti e Paolucci.

Diremo solo che molte amare delusioni ci aspettavano dopo la vittoria, perché, mentre con un'indegna truffa il moribondo impero austriaco cedeva agli equipaggi slavi le sue navi, che due giorni dopo si obbligava nei patti d'armistizio a consegnarci, gli stessi alleati nostri, coglienido pretesto che il presidente degli Stati Uniti d'America affettava di non riconoscere il patto di Londra e che noi domandavamo anche Fiume, italianissima, non compresa in quel patto, si rifiutarono di dare a noi, vincitori della guerra, quei compensi territoriali a cui avevamo diritto. Essi si opposero in ogni modo all'aggregazione di Fiume alla Dalmazia e quando, per impedire che la generosa città fosse posta sotto il controllo di una polizia straniera, Gabriele D'Annunzio con pochi volonterosi occupò la città, ci posero l'alternativa di rinunziare a Fiume, o rinunziare ad una grandissima parte della Dalmazia (settembre 1919). E frattanto, con la complicità dei nostri antichi alleati navali, si scatenava contro di noi in tutta la Dalmazia meridionale una furibonda lotta da parte degli Slavi, che culminò con vergognose e sanguinose scene anche contro gli equipaggi delle nostre navi da guerra (rimase impunito e invendicato l'assassinio di Tommaso Gulli, comandante la regia nave Puglia a Spalato). La questione adriatica si trascinò lunghi mesi con alterne vicende di sconforti e di speranze, e si complicò con accordi italogreci (fortunatamente rimasti lettera morta) per cui i distretti meridionali dell'Albania erano riconosciuti di spettanza dei Greci, i quali avrebbero così riposto piede in Adriatico. Anzi, sotto la pressione del partito socialista, che si atteggiava a padrone dell'Italia, il governo abbandonò anche Valona, chiave strategica del basso Adriatico, restando in possesso del solo scoglio di Saseno, che un ministro d'allora non dubitò di dichiarare sufficiente alla difesa strategica di quel mare!

Dopo molte e difficili trattative col governo del Regno serbocroato-sloveno, imbaldanzito dalla mal celata protezione di nostri antichi alleati, desiderosi di impedire la nostra supremazia adriatica, nel novembre del 1920 venne stabilito il confine tra i due stati. Noi rinunziammo alla maggior parte dei vantaggi, che il trattato di Londra ci assicurava, e ci accontentammo di avere in Dalmazia Zara, con i suoi comuni censuarî, Borgo Erizzo, Cerno, Boccagnazzo e parte di Diclo, cioè un minuscolo territorio senza sufficiente retroterra, senza respiro, esposto ad infiniti pericoli; più le due isole di Cherso e Lussin, e qualche isoletta delle Curzolane. Quanto a Fiume, nel patto stipulato a Rapallo ne venne riconosciuta l'indipendenza; ma pur troppo in un articolo segreto venne convenuto che la Iugoslavia potesse occupare il Porto Barros, che è la parte di Fiume commercialmente e militarmente più importante. La linea di confine del territorio fiumano era tracciata in modo irregolarissimo, e i patti, che garantivano l'elemento italiano numerosissimo nelle città dalmate cedute alla Iugoslavia, erano molto vaghi e si prestarono subito a molte sopraffazioni.

Tentò realmente il D' Annunzio di violare subito quei patti, che, come disse più tardi un illustre generale al senato, riconoscevano "l'incontrastato dominio della Iugoslavia sulla sponda orientale del mare, che un dì fu tutto italiano" e di occupare Sušak e l'isola di Veglia; ma il tentativo fallì.

Riconosciuta l'impossibilità di dare esecuzione al trattato di Rapallo per quel che riguarda Fiume, si venne dal governo nazionale alla convenzione di Santa Margherita (Mussolini-Pasis̄ić) del 27 gennaio 1924, per cui lo stato libero di Fiume fu annesso all'Italia con continuità territoriale, assicurata ferroviariamente, e con la strada costiera; ma il Delta e Porto Barros dovettero essere lasciati alla Iugoslavia. Per attenuare le conseguenze di quella rinunzia, imposta al governo nazionale dalle stipulazioni di Rapallo, nel nuovo trattato fu stabilito tutto un complesso di provvidenze, che dovevano portare ad una collaborazione economica e commerciale. Ma di quelle disposizioni non tutte ebbero esecuzione, come pure furono violate dalla Iugoslavia le garanzie concesse all'elemento italiano in Dalmazia. La convenzione posteriore di Nettuno (20 luglio 1925), con cui si riparava a quell'inconveniente, fu ratificata dalla Iugoslavia solo il 14 novembre 1928.

L'Adriatico è diviso in tre parti: la sponda occidentale e settentrionale, fino a Fiume, e qualche piccolo punto della costa orientale appartengono all'Italia; da Fiume fino quasi a San Giovanni di Medua, cioè alle foci della Bojana con alcune piccole interruzioni esclusivamente costiere, si estende l'odierno confine della Iugoslavia; la parte più meridionale della costa, dalla Bojana al canale di Corfù, appartiene allo stato libero dell'Albania, la cui indipendenza, minacciata dalla cupidigia del regno serbo-croato-sloveno, è dall'Italia garantita anche con recentissimi trattati.

Sotto l'aspetto militare marittimo, le condizioni sono oggi notevolmente migliorate per l'Italia da quelle che erano prima del 1918, ma non sono ancora soddisfacenti. Una formidabile base del caduto impero austro-ungarico, Pola, è oggi nelle nostre mani e forma così con Venezia un discreto sistema difensivo dell'alto Adriatico; ma l'assurda linea di confine insulare nel golfo del Quarnaro, che attribuisce Veglia alla Iugoslavia, mentre lascia Cherso e Lussin all'Italia, costituisce già un primo pericolo. L'altro più grave pericolo deriva dal possesso dato alla Iugoslavia del denso e lungo cordone insulare lungo la costa da Carlopago in giù.

Bibl.: G. Cassi, Il mare Adriatico: sua funzione attraverso i secoli, Milano 1915; C. Manfroni, Storia della Marina Italiana dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo, Livorno 1899; Storia della Marina Italiana dal trattato di Ninfeo alla caduta di Costantinopoli, Livorno 1902; Benussi, L'Istria nei due millenni di storia, Trieste 1925; C. Manfroni, Le condizioni odierne dell'Adriatico, in Lega Navale, 1905, fasc. 22-24; De Luca, Gli Albanesi, i Macedo-Romeni e gli interessi dell'Italia, Roma 1913; Ch. Loiseau, L'équilibre adriatique (l'Italie et la question d'Orient), Parigi 1911; A. Pernice, Origine ed evoluzione storica delle nazioni balcaniche, Milano 1915; R. Fauro, Trieste, Italiani e Slavi, il governo austriaco, l'irredentismo, Roma 1914; G. Volpe, L'Italia in cammino, Milano 1927; V. Mantegazza, Italiani e Croati, Milano 1907; Menini, Passione adriatica, Bologna 1925; A. Giannini, La questione di Porto Barros, in Quaderni di politica, Roma 1923.

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