Mare

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Mare

Alessandra Mignolli

(XXII, p. 264; App. II, ii, p. 263; App. IV, ii, p. 392)

Diritto internazionale

Il diritto del m. ha subito, a partire dalla fine degli anni Settanta e mentre erano ancora in vigore le convenzioni di codificazione concluse a Ginevra nel 1958, una notevole evoluzione, interpretata addirittura come una 'rivoluzione' dei suoi principi fondamentali. Tale evoluzione è stata trasfusa nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, aperta alla firma a Montego Bay (Giamaica), il 10 dicembre 1982. Adottata a conclusione di una trattativa durata quasi dieci anni, la Convenzione, che rispecchia in larga misura le modifiche del diritto internazionale consuetudinario, ma in parte rappresenta uno sviluppo fortemente innovativo, è entrata in vigore solo il 16 novembre 1994: alla fine del 1993, infatti, con il deposito del sessantesimo strumento di ratifica, si era aperta la strada alla sua entrata in vigore. Tuttavia, la totale assenza, tra gli Stati che fino a quel momento vi avevano aderito, dei paesi industrializzati, rendeva estremamente problematica l'effettiva applicazione della Convenzione, soprattutto della parte operativa di questa, relativa al regime di sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo dell'alto mare. Per gli Stati industrializzati, infatti, tale regime risultava, così come era stato concepito nel disegno originario della Convenzione, del tutto inaccettabile, in quanto volto a tutelare in modo giudicato eccessivo gli interessi dei paesi in via di sviluppo; l'esigenza di assicurare alla Convenzione la partecipazione più ampia possibile, la sua almeno tendenziale universalità, ha indotto il segretario generale delle Nazioni Unite ad aprire nuovi negoziati, volti alla conclusione di un accordo sull'applicazione della Parte xi, dedicata appunto al regime di sfruttamento delle risorse minerarie del fondo marino e del relativo sottosuolo oltre le giurisdizioni nazionali. Tale accordo fu infine adottato, come allegato a una sua risoluzione, dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel luglio 1994, pochi mesi prima dell'entrata in vigore della Convenzione. Se certamente la Parte xi, così controversa, è quella che contiene gli elementi maggiormente innovativi del nuovo diritto del m., è vero però che l'intera struttura della Convenzione delinea un quadro del regime del m. profondamente diverso da quello noto ai cultori del diritto internazionale classico. Inoltre, se si prescinde, ancora una volta, dal regime dei fondi marini, il cui fondamento consuetudinario è discusso, l'assetto del m. quale emerge dalla Convenzione è in larga parte il frutto della formazione, nella comunità internazionale, di nuove norme consuetudinarie.

Per secoli, infatti, il diritto del m. era stato dominato dal principio della libertà dei m., che si era affermato fin dal 17° secolo consentendo di superare le ambizioni di alcune potenze marittime al dominio dei mari. Come conseguenza del regime di piena libertà vigente sul m., i diritti degli Stati costieri erano estremamente ridotti: il m. territoriale, infatti, era concepito come necessario esclusivamente alla difesa del territorio dello Stato e come tale aveva un'estensione limitata (per lungo tempo non fu superiore alle tre miglia nautiche dalla costa). Nel 20° secolo, e in particolare nel secondo dopoguerra, il regime dei m. ha visto svilupparsi una tendenza di segno opposto e la giurisdizione degli Stati costieri si è progressivamente estesa, riducendo in misura corrispondente gli spazi ancora soggetti al regime di libertà e in talune aree sovrapponendosi a esso, come è il caso della zona economica esclusiva.

La nascita dei nuovi istituti del diritto internazionale marittimo è legata strettamente all'emergere di nuove esigenze, soprattutto di natura economica, ma anche ambientale, quale, per es., l'esigenza di assicurare al più gran numero di Stati, anche quelli poveri e geograficamente svantaggiati, la possibilità di usufruire delle risorse marine, garantendone al contempo la conservazione attraverso strumenti tesi a una gestione razionale delle risorse stesse. Per effetto di tali esigenze si è dunque prodotta una profonda revisione dell'intero regime giuridico degli spazi marini. La revisione, avviata dalla progressiva formazione di nuove norme consuetudinarie, può dirsi compiuta con la conclusione della Convenzione del 1982, che ha impresso un ulteriore impulso innovativo alla materia. Oltre a una sensibile estensione dei poteri e della giurisdizione degli Stati costieri, funzionali allo sfruttamento economico delle fasce di m. adiacenti alle coste, ciò ha comportato anche l'introduzione di limiti a un regime di libertà, quello tradizionale dell'alto mare, che finiva per favorire solo le potenze tecnologicamente più avanzate. Di qui il nuovo status di patrimonio comune dell'umanità di cui godono le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo del m. al di là delle giurisdizioni nazionali e di qui anche il tentativo, fatto con l'accordo del 1995, di regolamentare l'attività di pesca in alto mare.

Mare territoriale e zona contigua

Il maggiore risultato raggiunto dalla Convenzione di Montego Bay relativamente a queste aree di m. è stato quello di fissarne il limite esterno, rispettivamente a 12 e 24 miglia marine dalle coste. La Convenzione indica inoltre i criteri che possono essere utilizzati dagli Stati al fine di delimitare la linea di costa, facendo riferimento, in alternativa, alla linea di bassa marea, che segue ovviamente tutte le tortuosità della costa, o al sistema delle linee rette, che dà la possibilità di tracciare le linee di base in modo da congiungere i punti sporgenti della costa e addirittura le isole antistanti la costa stessa, permettendo di comprendere nelle acque interne vaste aree di mare. La linea di base italiana sul versante tirrenico, per es., corre esternamente alle isole dell'arcipelago toscano e alle isole pontine, con la conseguenza che l'intera area tra tali isole e la costa rientra nelle acque interne.

Stretti. - La Convenzione di Montego Bay presta particolare attenzione alle esigenze della navigazione internazionale. In tale prospettiva essa ha introdotto, per gli stretti che rivestono particolare importanza ai fini della navigazione marittima internazionale, il nuovo istituto del passaggio in transito, definito dalla Convenzione come "libertà di navigazione e di sorvolo al solo fine di un transito continuo e rapido". A differenza di quanto previsto per il passaggio inoffensivo codificato dalla Convenzione di Ginevra del 1958 (che resta vigente ove esista una rotta di alto mare, alternativa allo stretto, di comodità comparabile), il passaggio in transito non richiede notifiche preliminari per le navi da guerra, né impone ai sottomarini di navigare in emersione.

Piattaforma continentale

Questo istituto era già stato codificato a Ginevra nel 1958 e rispetto ad allora le novità riguardano ancora i criteri di delimitazione. Abbandonato il riferimento esclusivo alla conformazione geologica della piattaforma e alla concreta sfruttabilità del fondale, si è preferito un criterio più oggettivo, di natura spaziale. Ogni Stato possiede dunque una piattaforma continentale dell'ampiezza di 200 miglia marine dalle linee di base costiere, sulla quale esso gode del diritto esclusivo di sfruttare le risorse biologiche e minerarie del fondo e del sottosuolo.

La Convenzione di Montego Bay prevede il ritorno a criteri geologici, qualora uno Stato possieda una piattaforma naturale che si prolunga oltre le duecento miglia. In tal caso, entro il limite massimo di 350 miglia o, in alternativa, di 100 miglia oltre l'isobata di 2500 metri, lo Stato interessato può procedere, con l'ausilio delle raccomandazioni di un'apposita commissione sui limiti della piattaforma continentale, a fissare i confini della propria piattaforma oltre le 200 miglia. In questo spazio, detto outer continental shelf, i poteri dello Stato costiero sono parzialmente mitigati dall'obbligo di devolvere all'Autorità internazionale dei fondi marini parte dei profitti conseguiti dallo sfruttamento delle risorse minerarie, in ragione del fatto che questa porzione di piattaforma sottrae spazio e risorse all'Area internazionale dei fondi marini, e i diritti dello Stato costiero vanno quindi contemperati con gli interessi collettivi al patrimonio comune dell'umanità.

La Convenzione del 1982, inoltre, ha innovato in materia di delimitazione della piattaforma continentale tra Stati limitrofi o tra Stati che si fronteggiano, in considerazione dei problemi sollevati dalle numerose controversie internazionali sorte essenzialmente perché il criterio geometrico dell'equidistanza, dettato dalla Convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale del 1958, finiva spesso per dare risultati iniqui. La stessa Corte internazionale di giustizia ha ripetutamente affermato la mancata corrispondenza al diritto consuetudinario del criterio dell'equidistanza, esortando gli Stati a procedere alla delimitazione attraverso la conclusione di accordi fondati più su principi di equità, che tengano conto della concreta conformazione delle rispettive coste, che su criteri rigidamente geometrici quale il criterio dell'equidistanza. Tale indicazione è stata recepita dalla Convenzione di Montego Bay, che demanda agli Stati interessati la delimitazione dei confini delle proprie piattaforme continentali attraverso la conclusione di accordi.

Zona economica esclusiva

Questo nuovo istituto del diritto internazionale marittimo è stato elaborato nel corso del negoziato per la Convenzione di Montego Bay, seguendo la prassi di numerosi Stati di istituire al largo delle proprie coste zone esclusive di pesca sempre più ampie. Anche questa prassi riflette esigenze e interessi di natura economica: molti Stati, in prevalenza latino-americani, manifestarono infatti il timore che le risorse biologiche marine delle fasce di m. situate al largo delle proprie coste rischiassero di esaurirsi per effetto dell'intensa attività di pesca praticata dalle potenti flotte pescherecce d'alto mare dei paesi industrializzati. Nel codificare questo istituto, nato come si è detto spontaneamente, si è tentato di trovare un equilibrio tra il regime di libertà, proprio dell'alto mare, e l'estensione dei poteri attribuiti allo Stato costiero; il risultato è fortemente sbilanciato a favore di questi ultimi, che sono estremamente ampi: in particolare, essi riguardano non solo l'esclusività dell'esplorazione, sfruttamento e conservazione delle risorse naturali del m. e del relativo fondo e sottosuolo, ma anche l'installazione di strutture fisse e di isole artificiali, il controllo della ricerca scientifica in m., la protezione dell'ambiente marino dall'inquinamento. Agli Stati terzi sono per contro assicurate le libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di cavi e condotte sottomarini, mentre, per quanto riguarda la pesca, è previsto che gli Stati privi di litorale o geograficamente svantaggiati possano essere ammessi a usufruire delle risorse della zona economica esclusiva attraverso la conclusione di accordi con lo Stato costiero, su base bilaterale o a livello regionale. La zona economica esclusiva si presenta così come un'area dalla natura giuridica ibrida, difficilmente inquadrabile in modo univoco nel regime di libertà o in quello di sovranità, anche in considerazione del fatto che la giurisdizione dello Stato costiero non vi si estende automaticamente, ma solo a seguito di un'apposita dichiarazione dello Stato interessato. L'Italia, come la maggior parte degli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, non ha istituito una zona economica esclusiva. Si può pertanto dire che nella zona economica esclusiva la sovranità di tipo funzionale di cui gode lo Stato costiero convive con le libertà tradizionali dell'alto mare, spettanti a tutti gli altri Stati.

Area internazionale dei fondi marini

Si tratta della più rilevante novità introdotta dalla Convenzione di Montego Bay nel diritto del mare. Così come definita dalla Convenzione, l'Area include il suolo e il sottosuolo del m., e le risorse minerarie ivi contenute, situati oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali, in altre parole, i fondali e il sottosuolo dell'alto mare. L'idea che tali risorse dovessero essere soggette a un regime di sfruttamento diverso da quello della piena libertà vigente sull'alto mare deriva dall'applicazione a esse dello status giuridico derivante dal principio del patrimonio comune dell'umanità.

Con una famosa risoluzione del 1970, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite dichiarò che tali risorse costituiscono il patrimonio comune dell'umanità. Ma quale fosse la portata rivoluzionaria di tale principio probabilmente non era ancora chiaro. Patrimonio comune dell'umanità significa, nella sua essenza fondamentale, e ormai con ogni probabilità acquisita dal diritto consuetudinario, una limitazione alla piena libertà di cui tutti gli Stati godono nello sfruttamento delle risorse comuni, cioè non soggette e non assoggettabili alla sovranità di alcuno Stato. La limitazione introdotta dal patrimonio comune dell'umanità risponde a esigenze di uguaglianza sostanziale, soprattutto sotto il profilo economico, largamente avvertite negli anni Settanta, quando si avviò e si sviluppò il lungo e tormentato negoziato per la Convenzione di Montego Bay. Il patrimonio comune dell'umanità comporta dunque che lo sfruttamento di risorse esauribili debba essere gestito in modo tale da permettere di beneficiarne all'intera comunità internazionale, e in primo luogo ai paesi in via di sviluppo, e anche alle generazioni future. Esso presenta pertanto una duplice dimensione: spaziale, nel senso di voler estendere il godimento dei benefici economici derivanti dallo sfruttamento a tutti gli Stati, anche a quelli che non possiedono gli strumenti tecnologicamente avanzati e costosi che tale attività richiede; e temporale, in quanto siffatto principio implica un'attenzione da parte degli sfruttatori alla conservazione futura delle risorse. Ne deriva una gestione al tempo stesso solidale con i paesi più poveri e accorta e non indiscriminata. Non necessariamente, però, tale gestione deve essere compiuta da un organismo internazionale in qualche modo sovraordinato agli Stati: per soddisfare il principio del patrimonio comune sarebbe sufficiente che i singoli Stati, nell'intraprendere attività di sfruttamento, si impegnassero a rispettare i criteri che si sono detti.

A ragione il complesso e accentrato regime proposto dalla Convenzione di Montego Bay per dare attuazione al principio del patrimonio comune dell'umanità è stato considerato la punta più avanzata del "nuovo ordine economico internazionale", perseguito negli anni Settanta e Ottanta, che immaginava le relazioni internazionali fondate su rapporti di solidarietà miranti a ottenere quell'uguaglianza sostanziale tra gli Stati che era ed è invece così lontana dalla realtà. La Convenzione ha costruito un edificio complesso, affidando la gestione delle risorse del suolo e sottosuolo dei grandi fondali oceanici a un'organizzazione internazionale, l'Autorità internazionale dei fondi marini. Questa avrebbe dovuto agire secondo il cosiddetto sistema parallelo: ogni sito minerario individuato avrebbe dovuto essere diviso in due parti uguali, una delle quali affidata all'operatore che lo aveva individuato ed esplorato, l'altra all'Impresa internazionale dei fondi marini, organo operativo dell'Autorità che avrebbe agito per conto e nell'interesse dei paesi in via di sviluppo. All'Impresa gli Stati più industrializzati avrebbero dovuto trasferire, a condizioni agevolate, la tecnologia e il know-how necessari per operare. Inoltre, erano previsti meccanismi di compensazione a favore dei paesi in via di sviluppo produttori terrestri degli stessi minerali estratti dai fondali marini, per limitare i danni in termini di prezzi e quantità esportata che la concorrenza del prodotto marino avrebbe potuto comportare. In realtà il regime è estremamente complesso, ma già da questa rapida descrizione si intuiscono le condizioni di maggior favore della Convenzione nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Tant'è vero che nell'imminenza della sua entrata in vigore nessuno Stato industrializzato aveva ancora provveduto a ratificarla. Un così sofisticato regime, però, non sarebbe mai stato in grado di funzionare senza l'apporto degli Stati tecnologicamente avanzati. Di qui l'esigenza di universalità della Convenzione, e di qui anche, per la crescente opposizione dei paesi ricchi, la necessità di una revisione di quelle parti che per essi risultavano eccessivamente onerose. Inoltre, nei dodici anni trascorsi dall'apertura alla firma della Convenzione al momento della sua entrata in vigore, il clima delle relazioni internazionali era profondamente mutato. Il "nuovo ordine economico internazionale" era ormai in piena decadenza e ai principi di solidarietà si stavano gradualmente sostituendo quelli del libero mercato e della concorrenza, quali andavano emergendo dagli accordi conclusivi dell'Uruguay Round del GATT, firmati a Marrakech proprio nel 1994. Per altro verso, i limitati progressi della tecnologia nel settore dell'estrazione mineraria sottomarina mostravano quanto fosse ancora lontana la prospettiva di uno sfruttamento redditizio di quelle risorse. In queste condizioni una revisione della Parte xi della Convenzione diveniva necessaria. L'Accordo del luglio 1994 non fa che registrare il nuovo clima e le nuove esigenze, tra l'altro ridimensionando la struttura dell'Autorità e dell'Impresa in modo da ridurre i relativi costi, eliminando l'obbligo al trasferimento di tecnologie, limitando i meccanismi di compensazione a favore dei produttori terrestri, modificando le procedure di voto negli organi decisionali al fine di attribuire la maggioranza ai paesi industrializzati. Tale accordo, che ha orientato l'intero regime in una prospettiva di libero mercato, ha reso possibile il raggiungimento di un consenso quasi universale alla nuova Convenzione. In sostanza, gran parte dell'impatto ideale del nuovo regime è andato perduto, lasciando spazio a una disciplina più realista e quindi più concreta. Resta ferma però la grande conquista del patrimonio comune dell'umanità e il principio essenziale dell'equa ripartizione dei benefici derivanti dallo sfruttamento di risorse esauribili comuni.

Pesca

Giudicata non sufficientemente incisiva quanto agli obblighi imposti agli Stati in materia di protezione dell'ambiente marino dall'inquinamento (benché l'intera Parte xii sia dedicata a questi aspetti) e di conservazione delle risorse biologiche marine (i temi relativi alla pesca sono affrontati nella Parte vii), la Convenzione è stata affiancata da un accordo per l'attuazione delle sue disposizioni relativo alla conservazione e gestione degli stock ittici sconfinanti e degli stock ittici altamente migratori, aperto alla firma a New York il 4 agosto 1995. Tale accordo si propone di risolvere i problemi posti dall'esigenza di conservazione delle specie il cui habitat sia a cavallo tra le zone economiche esclusive (ove esse sono tutelate dalle politiche di conservazione, non sempre peraltro rigorose, degli Stati costieri) e l'alto mare (aperto a una libertà di pesca non adeguatamente limitata dalla Convenzione di Montego Bay) e delle specie migranti. A questo fine, esso disciplina essenzialmente la pesca in alto mare, benché alcuni principi fondamentali di conservazione debbano essere applicati anche dagli Stati costieri all'interno delle aree marine (in particolare la zona economica esclusiva) soggette alla propria giurisdizione.

Soluzione delle controversie

Questo capitolo della Convenzione riveste grande importanza, in quanto costituisce un'efficace garanzia del rispetto dei principi contenuti nella Convenzione stessa. Si è introdotto un sistema di soluzione obbligatoria delle controversie derivanti dall'interpretazione o dall'applicazione della Convenzione, istituendo a tal fine un organo arbitrale permanente, il Tribunale internazionale del diritto del mare, la cui giurisdizione è concorrente con quella della Corte internazionale di giustizia e di tribunali arbitrali che possono essere costituiti ad hoc. La scelta dell'organo cui sottoporre la controversia spetta agli Stati coinvolti, i quali possono farlo in via preventiva, presentando una dichiarazione di scelta della giurisdizione competente in caso di future controversie, o successivamente, al momento del sorgere di una concreta controversia. In caso di mancata scelta, è obbligatoria la costituzione di un tribunale arbitrale ad hoc, benché in presenza di alcune categorie di controversie, sia esclusiva la giurisdizione del Tribunale del mare. Questo è il caso, per es., delle controversie derivanti dall'applicazione della Parte xi della Convenzione: le controversie che possono sorgere tra gli Stati, o tra Stati e Autorità internazionale dei fondi marini, o anche tra questa e privati, persone fisiche o giuridiche, nell'esercizio dell'attività di sfruttamento delle risorse dei fondali marini, sono obbligatoriamente sottoposte alla giurisdizione della Camera dei fondi marini del Tribunale del mare.

bibliografia

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