DIAZ GARLON, Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DIAZ GARLON, Maria

Felicita De Negri

Figlia di Ferrante conte di Alife e di Violante Grappina, se ne ignorano data e luogo di nascita, probabilmente avvenuta nell'ultimo ventennio del sec. XV a Napoli, dove abitavano i Diaz Garlon, che appartenevano alla nobiltà del "sedile" di Nido.

Le fortune della famiglia erano incominciate con Pasquasio, uno dei giovani catalani che avevano seguito Alfonso di Aragona alla conquista del Regno. Al servizio di Alfonso e poi di Ferrante, Pasquasio era riuscito a percorrere una rapida carriera, al culmine della quale aveva acquistato per 12.000 ducati Alife con le terre di Dragoni e di Sant'Angelo Raviscanina ed era stato insignito del titolo di conte. I discendenti, pur senza ottenere cariche importanti, continuarono ad accrescere lentamente il patrimonio familiare, stringendo al contempo, attraverso un'accorta politica matrimoniale, proficue relazioni sociali. Ferrante, secondo conte di Alife, figlio di Pasquasio e di Lucrezia di Chiaromonte, sposò Violante Grappina, signora dell'Oliveto e di Pietrapertosa; Antonio, suo erede, prese in moglie Cornelia Piccolomini dei marchesi di Deliceto.

La D. si unì invece in matrimonio con Alfonso Sanseverino, appartenente, anche se soltanto attraverso un ramo secondario, ad una delle più potenti famiglie baronali del Mezzogiorno. Padre di Alfonso era Giovanni Antonio, signore di San Chirico, fratello minore del principe di Bisignano; la madre, Errichetta, nasceva Carafa. Le nozze furono celebrate il 29 ott. 1509 dal vescovo di Alife nel feudo materno dell'Oliveto, ma l'eco mondana dell'avvenimento giunse sino a Napoli. Per la D. il matrimonio rappresentava, entro certi limiti, una fortunata occasione di promozione sociale. Di origine normanno-sveva, i Sanseverino spiccavano infatti fra le altre casate nobiliari per l'orgogliosa consapevolezza dell'antichità della loro stirpe, laddove la nobiltà dei Diaz Garlon risaliva solo ad un'epoca relativamente recente. In compenso, però, la sposa poteva vantare una grande avvenenza, di fronte alla quale riusciva facile dimenticare ogni altra lacuna, persino l'assenza di una dote cospicua.

Dopo il matrimonio, i novelli sposi stabilirono la loro dimora a Napoli, in un palazzo signorile di recente costruzione situato nel quartiere di Nido, dove si raggruppavano le più fastose abitazioni baronali. Al pari della madre, già celebrata per la sua bellezza, la D. stimolò la vena dei poeti. Iacopo Sannazzaro, che aveva dedicato alcuni versi a Violante Grappina, in occasione delle nozze della D. compose un epigramma, nel quale, rivolgendo un mesto pensiero alla sua giovinezza ormai trascorsa, ne esaltava l'incanto giovanile (lib. III, 1). Il Capanio ce la raffigura come una delle trenta nobildonne napoletane che sorreggono, a mo' di colonne, il "tempio dell'amore" (Ceci-Croce, Lodi di dame napoletane, p. XXVII), mentre il cardinale Borgia, protagonista ideale del poemetto "Dechado de Amor", l'annovera fra le signore che fanno corona alla regina vedova Giovanna di Aragona e alla sua corte (Croce, La società galante, pp. 149-150). Rimatore era pure Petro de Acuña, priore di Messina, il gentiluomo del cui servizio la D. si compiacque, in ossequio alle consuetudini della "galanteria cavalleresca", che godevano di una nuova stagione di fioritura.

Intanto, a soli tre anni dal matrimonio le prime nubi minacciavano il ménage familiare. Alfonso era un "cavaliero, che con le cortesia, et humanità mostrava bene la nobiltà del sangue e dell'animo suo", ma, a causa del "vivere più splendido di quel che sopportavano le forze sue", pur potendo contare su 5.000 ducati annui di rendita, si trovò ben presto oberato di debiti (Terminio, pp. 141-142). La condotta del Sanseverino non presentava caratteri di eccezionalità. In questo caso, però, l'imprevidenza di uno dei coniugi si scontrò con la ferma opposizione dell'altro, ben deciso a difendere i propri diritti. Né, d'altra parte, sfuggiva alla D. che erano in gioco le sorti dell'intero nucleo familiare, del quale sarebbero state frustrate le legittime aspirazioni a vivere "iuxta eius condicionem". Pur consapevole della gravità del passo, la D. fece ricorso alla giustizia, al fine di impedire che i creditori di Alfonso si impadronissero anche della sua dote, equivalente alla somma di 8.500 ducati.

Nei capitoli matrimoniali, pena una grave sanzione pecuniaria, Alfonso si era impegnato a conservare intatta la dote, garantendola sui propri beni, mobili e immobili, burgensatici e feudali, sui quali era pure garantito l'antefato di 2.833 ducati e i tari, che egli aveva costituito all'atto del matrimonio a favore della sposa. Ciononostante, il Sanseverino aveva continuato, come era già suo costume, a dilapidare il patrimonio, incurante delle sue nuove responsabilità. La D. chiedeva, quindi, che i beni feudali e burgensatici del consorte fossero posti sotto sequestro per la parte sufficiente a coprire il valore della dote e dell'antefato. Il patrimonio di Alfonso era costituito, oltre che da varie masserie adibite all'allevamento del bestiame, da alcuni feudi in Basilicata e in Calabria Citra, fra i quali quello di Fiumefreddo procurava il reddito più consistente.

Per il momento, comunque, la minaccia messa in atto dalla nobildonna non sortì effetti concreti e la prima crisi economica della coppia fu superata, a quanto sembra, senza gravi conseguenze. Probabilmente, Alfonso ricorse a nuovi prestiti per tamponare le falle. Frattanto, era già avvenuta la nascita del primogenito e futuro erede, Giovanni Bernardino; altri figli sarebbero venuti in seguito.

Negli anni successivi il Sanseverino non mutò stile di vita, lanciandosi anzi in speculazioni avventurose. Acquistata a credito, in società con altri nobili, una partita di seta, Alfonso assunse interamente su di sé il rischio dell'impresa, offrendo come garanzia il feudo di Fiumefreddo. L'operazione si concluse con un insuccesso e, puntualmente, i creditori chiesero il rispetto dei patti (1521): Fiumefreddo sembrava dunque ormai perduto, senza che la D. fosse riuscita anche questa volta a predisporre adeguate contromisure, quando, improvvisamente, la situazione subì un completo ribaltamento, per ragioni a noi ignote. Non solo il feudo non fu venduto, ma anzi il Sanseverino acquistò da Guglielmo de Groy l'importante possedimento di Somma, in Terra di Lavoro, per il quale fu insignito del titolo di duca (1521). La D. divenne così duchessa di Somma. In verità, anche quest'ultima iniziativa di Alfonso non era immune da elementi di rischio: parte dei 50.000 ducati necessari per comprare Somma proveniva dalla vendita di proprietà minori; la restante porzione era stata invece racimolata a fatica, mediante prestiti gravati da forte interesse. D'altronde, tale prassi era molto diffusa fra la nobiltà napoletana, in un momento di generali difficoltà finanziarie.

Le angustie economiche dei duchi di Somma trassero sollievo dal matrimonio del primogenito Giovanni Bernardino con Maria Aldonsa Beltrana, nipote del ricco mercante catalano Paolo Tolosa, socio in affari di Alfonso. Nell'unione, che fu celebrata intorno al 1524, è possibile ravvisare tutte le caratteristiche del buon affare per la famiglia dello sposo. La Beltrana, quasi a farsi perdonare la condizione di vedova (aveva sposato in prime nozze Giacomo Sanseverino, conte della Saponara) e l'età, probabilmente non più verde, portava una dote considerevole di 25.550 ducati, rispetto alla quale l'antefato costituito dal secondo marito, 4.000 ducati, rimaneva ben al di sotto della quota di un terzo, fissata dalla consuetudine "dei magnati e dei baroni del Regno". Neanche la dote di Maria Aldonsa riuscì, però, ad assestare in via definitiva gli affari della famiglia, la situazione restò precaria, al punto che Alfonso, in circostanze poco chiare, fu costretto a svendere per soli 6.000 ducati il feudo di Fiumefreddo a Giovanni Tomacelli. Erano quelli gli anni della spedizione del Lautrec e della conseguente spaccatura del baronaggio nelle opposte fazioni filofrancese e filospagnola. Il Sanseverino si schierò dalla parte angioina, rimanendo fedele alla consolidata tradizione familiare; tuttavia nel determinare la sua scelta di campo non furono del tutto assenti calcoli utilitaristici. Ed infatti, in cambio del valoroso servizio prestato in guerra, ottenne dai Francesi il ricco contado di Rende, la cui alienazione sarebbe stata finalmente sufficiente a liberarlo dai debiti. Sono noti il disastro finale in cui incorse l'armata francese e la lunga sequela di confische, carcerazioni, condanne capitali che il governo spagnolo inflisse ai feudatari ribelli. Mentre Giovanni Bernardino venne fatto prigioniero, il duca di Somma si sottrasse alla condanna per lesa maestà rifugiandosi in Francia; il patrimonio, però, gli venne confiscato.

La D. non seguì le sorti del marito; la famiglia Diaz Garlon non era tra quelle che avevano appoggiato i Francesi ed ella, pur essendo moglie di un ribelle, poté restare indisturbata nel Regno, impegnandosi nella pertinace difesa dei suoi personali interessi. Gravi problemi economici, infatti, l'affliggevano: la rovina di Alfonso aveva significato per lei, priva com'era di beni suoi propri, la perdita di ogni fonte di reddito. L'ex duchessa indirizzò allora un'accorata protesta alla Camera della Sommaria, chiedendo che, come previsto dalle consuetudini "dei magnati e dei baroni" del Regno "in casu soluti matrimonii", le fossero restituiti la dote e l'antefato e che, di conseguenza, il Regio Fisco, a vantaggio del quale i beni del Sanseverino erano stati espropriati, riconoscesse i suoi diritti sul feudo di Fiumefreddo. La D. si mostrava quindi ben decisa a considerare l'esilio forzato del marito come un evento definitivo, tale da troncare un rapporto coniugale che, in verità, aveva rappresentato per lei la causa di continue preoccupazioni. Né dalla Sommaria vennero smentite ad un simile atteggiamento: tra i casi di scioglimento del matrimonio, previsti dalle consuetudini del Regno, vi era la morte civile di uno dei coniugi, quale, appunto, quella derivante da bando o da forindicatio. Nell'attesa di definire i contrastanti diritti dei pretendenti al patrimonio di Alfonso (la D., Giovanni Tomacelli, il Regio Fisco), essa dispose che fosse pagato alla nobildonna l'usufrutto della dote e del dovario.

Terminata la fase più acuta delle persecuzioni politiche e delle vendette personali, la condotta di Alfonso fu riesaminata, insieme con quella di molti compagni di parte, dalla speciale commissione che Carlo V costituì nel tentativo di promuovere una generale pacificazione. Ma, a differenza del fratello Giovanni, cui i beni vennero integralmente restituiti, Alfonso non fu reintegrato nei suoi possedimenti. Il feudo di Fiumefreddo restò a Pietro Gonçalez de Mendoza, cui era stato concesso dopo la confisca, mentre Somma fu rivenduta dal Fisco a Ferdinando de Cardona, grande almirante, e la casa di Napoli fu data al commendator Rosa, in riconoscimento dei servigi prestati al principe di Orange. Alla D. fu assegnata la metà delle rendite di Fiumefreddo, di cui risultava beneficiario, per l'altra metà, il nuovo feudatario. Delle ulteriori vicissitudini del Sanseverino i documenti superstiti non recano traccia; probabilmente, egli fissò la sua dimora in Francia. Ed in terra francese lo avrebbe raggiunto, stando al Terminio, lo sfortunato primogenito, dopo aver invano tentato di risollevare le sorti della famiglia, ponendo le sue armi al servizio del marchese di Pescara. Quanto alla D. la ritroviamo, libera ormai della tutela maritale, nelle nuove vesti di laboriosa e oculata amministratrice del patrimonio superstite, sia che si tratti di rivendicare il diritto di introdurre granaglie nella capitale senza pagare, in virtù di una prerogativa baronale, la relativa gabella; sia che occorra ottenere il diffalco di una somma, in verità modesta, erroneamente computata nell'adoa a lei imposta per i redditi feudali percepiti; sia, infine, che si presenti la necessità di intentare lite al Regio Fisco, per strappare la completa soddisfazione dei suoi diritti dotali. Non ne conosciamo la data di morte.

Dalle nozze della D. con Alfonso Sanseverino erano nate, oltre al già ricordato Giovanni Bernardino e a Giovanni Antonio, rimasto celibe, tre figlie femmine, che contrassero, invece, buoni matrimoni: Errichetta sposò Geronimo Carafa dei principi di Stigliano, Violante fu data in moglie a Giulio Orsini signore di Monterotondo, Porzia si unì in matrimonio con Fabrizio Mastrogiudice barone di Pietravairano.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, R. Camera della Sommaria. Repert. generale dei quinternioni (sec. XV-XVI), f. 282; Ibid., Repert. dei quinternioni di Terra di Lavoro e Molise (secc. XV-XVI), ff. 4v, 183v, 184; Ibid., Quinternione XVIII, ff. 164v-165v; Ibid., Taxis adohae, reg. 103, f. 59; reg. 101, ff. 7v, 8, 154; Ibid., Notamenti, reg. 16, ff. 12, 174; Ibid., Partium, reg. 115, f. 153v; reg. 128, f. 145v;reg. 176, f. 130v; Ibid., Significatorie dei relevi, reg. 2, f. 5; Ibid., Relevi, reg. 5, f. 221; Ibid., Sacro Regio Consiglio, Processi civili (ordinamento Zeni), fs. 163, fasc. 10; Ibid., Arch. Sanseverino, Pergamene (I numerazione), nn. 113, 151, e Istrumenti, n. 61; Ibid., Manoscritti Livio Serra di Gerace, vol. III, f. 1216; G. Passero, Giornali, a cura di M. M. Vecchioni, Napoli 1875, p. 155; A. Terminio, Apologia dei tre seggi illustri di Napoli, Venezia 1581, p. 172; S. Ammirato, Delle fam. nobili napolitane, Firenze 1651, p. 62; Lodi di dame napol. del secolo decimosesto dall'"Amor prigioniero" di Mario di Leo, a cura di G. Ceci-B. Croce, Napoli 1904, pp. XXVII, 59-60;N. Cortese, Feudi e feudatari napol. nella prima metà del Cinquecento, Napoli 1931, pp. 125, 127; B. Croce, La società galante italo-spagnuola nei primi anni del Cinquecento, in La Spagna nella vita ital. durante la Rinascenza, Bari 1949, pp. 149-150.

CATEGORIE