ACCURSIO, Mariangelo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 1 (1960)

ACCURSIO (Accorso), Mariangelo

Augusto Campana

Nato ad Aquila, come sembra, nel 1489 da Giovan Francesco, cancelliere del Comune aquilano, e da una Tebaldeschi di Norcia. Anche il padre non era aquilano (di Norcia?) perché solo nel 1538 all'A. fu concessa la cittadinanza aquilana di pieno diritto. Niente sappiamo dei primi studi, ma la normale formazione umanistica dei cancellieri cittadini del Rinascimento induce a pensare che dal padre abbia ricevuto i primi insegnamenti e indirizzi.

Prima data certa della biografia è stata finora considerata quella della sottoscrizione a una copia delle notae epigrafiche di Valerio Probo, autografa, come sembra, dell'A., nel codice Ambrosiano O 125 sup.: "Neapoli in nonis Maiis 1402", che il Mommsen riteneva errore materiale per 1502. Indipendentemente dalla correzione del Mommsen, poiché seguono le sigle "P.F.", la sottoscrizione appare copia di una altrui: non è dunque possibile fondarsi su di essa per immaginare un capitolo giovanile della biografia dell'A., legato all'umanesimo napoletano. Non sappiamo esattamente quando si trasferì a Roma. Certo vi era, ed era già noto nelle cerchie umanistiche che fiorivano ai margini della Curia romana, nel settembre 1513, quando compose, in tre giorni a quanto dice egli stesso, e pubblicò il suo primo scritto, Osci et Volsci dialogus ludis Romanis actus. I ludi Romani sono le rappresentazioni che furono date nel teatro fittizio eretto sulla piazza del Campidoglio per le cerimonie che accompagnarono il conferimento della cittadinanza e del patriziato romano a Giuliano e a Lorenzo de' Medici, rispettivamente fratello e nipote di Leone X, il 13 e 14 settembre 1513. Nonostante l'indicazione del titolo, il dialogo non fu rappresentato, come risulta dalle relazioni che ci sono giunte (di Paolo Palliolo e di Marcantonio Altieri) e come l'A. stesso dice nella dedica a Tommaso Pietrasanta. Si tratta di una composizione satirica, in cui è evidentemente preso di mira lo stile latino, miscuglio di elementi arcaizzanti e di linguaggio apuleiano, del bolognese Battista Pio, che proseguiva ed esagerava quello di Filippo Beroaldo e imperversava allora dalla scuola di Roma, a cui Giulio II lo aveva chiamato nel 1512. La parodia di quella tendenza dell'umanesimo bolognese prende forma nel dialogo dei due personaggi, Oscus e Volscus (comincia Oscus: "Vitulatio est mi phisiculanti conruspanti privaque diruncienti", cfr. la prefazione del Pio al suo commento a Plauto, Mediolani 1500: "Phisiculanti subinde et ... acerrime vestiganti"); secondo l'uso del Pio, non vi manca un pezzo poetico, che comincia "Offerumenta nuo nostri sequeculi honoses" , e vi è anche inserita una lettera di Volscus "Casmillo Sorianti"; alla fine la vera "Romana Eloquentia" sopraggiunge a punire i colpevoli e li costringe a sottomettersi e a giurare di ritornare al linguaggio comune: "ab eo qui displicere iam incipit verborum usu poenitus abstinere". L'operetta, che fu più volte ristampata e attirò anche l'interesse di studiosi moderni, è evidentemente testimonianza di genialità e di dottrina estrosa e documento importante delle polemiche umanistiche sullo stile latino: ma non è mai stata sottoposta a un esame filologico analitico e ad una precisa esegesi che soli potrebbero rivelarne compiutamente il significato.

È probabile che ancora per molti anni l'A. si trattenesse in Roma, partecipando, forse con qualche indipendenza, ai cenacoli letterari, quale quello di Johann Goritz (Ianus Corycius) da cui uscì la celebre raccolta di carmi latini intitolata Coryciana, che si apre con un suo carme, "Protrepticon ad Corycium", e contiene di lui anche un epigramma. Menzioni e dediche sue e di altri a lui attestano di suoi rapporti con quella società letteraria: Tommaso Pietrasanta, Giano Vitale, Augusto Valdo, A. Colocci, B. Casale, il Goritz, G. Pieno Valeriano, Girolamo Aleandro, e i due letterati che ci lasciarono in verso e in prosa il quadro dell'umanesimo romano tra gli inizi del pontificato di Leone X e il Sacco di Roma, l'Arsilli nel De poetis urbanis e il Giovio negli Elogia e nei dialoghi. Questi menziona l'opuscolo satirico dell'A., con altri suoi scritti, nel dialogo edito dal Tiraboschi, insieme al poemetto dell'Arsilli, in appendice alla trattazione del sec. XVI; e lo ricorda anche - non si può dubitarne sebbene qui ne taccia il nome - nell'elogio del Pio.

Ma il meglio del tempo e degli interessi dell'A. dovette essere dedicato in quegli anni alle ricerche epigrafiche e agli studi filologici, che poco dopo daranno i primi frutti cospicui. Nel 1521 usciva a Roma dai tipi di Iacopo Mazzocchi, col titolo di Epigrammata antiquae Urbis, la prima cospicua collezione a stampa di epigrafi antiche, che è insieme la più estesa raccolta compilata fino ad allora di iscrizioni antiche di Roma. La compilazione è anonima e rimane misteriosa, sebbene non manchino fondamenti all'opinione tradizionale che l'attribuisce al fiorentino Francesco Albertini; in ogni caso proseguita su altro piano e forse ampliata dopo la morte dell'Albertini da uno o più collaboratori. I suoi difetti, che risultano principalmente dalla fusione tutt'altro che critica di precedenti sillogi manoscritte e di materiale nuovamente raccolto, dovettero imporsi allo stesso stampatore e ai suoi consiglieri; alla stampa, probabilmente iniziata nel 1517 e protratta a lungo, alla fine fu deciso di aggiungere un ampio errata-corrige, che occupa gli ultimi otto fogli dell'edizione e risulta sostanzialmente di una serie di correzioni e osservazioni critiche, fondate su una sistematica revisione (in quanto possibile) delle pietre originali. L'autore della revisione è taciuto, ma una vaga testimonianza di I. Metellus e una serie di indizi e di considerazioni hanno condotto alla convinzione, tuttora valida, che si tratti dell'Accursio. D'altra parte il suo nome appare esplicitamente nell'edizione come curatore dell'opuscolo di Valerio Probo de notis antiquarum litterarum, a cui segue lo ps.- Probo alfabetico, stampati nei fogli preliminari. La revisione esclude di proposito le aggiunte di testi nuovi, ma è molto probabile che l'A. si riservasse di pubblicare un supplemento alla collezione Albertini-Mazzocchi e che la silloge romana che si trova nei suoi manoscritti Ambrosiani abbia avuto origine contemporaneamente a quel lavoro di revisione.

È possibile che sia esatta, e in tal caso dovrebbe riferirsi a questo periodo, la notizia di una tarda fonte, il Massonio, che "per opra sua furono nel Campidoglio messe insieme molte antichità".

Frattanto l'A. si era posto al servizio di due giovani principi tedeschi della casa di Hohenzollern, i fratelli Giovanni Alberto e Gumberto marchesi di Brandeburgo, venuti a Roma a completare la loro educazione, in qualità di maggiordomo, forse anche di precettore e di guida ("oeconomiae me praeficitis" scriverà nella dedica delle Diatribae; e la parola "maggiorduomo" appare esplicitamente in due lettere del 1526 a lui dirette). Con loro fece intorno al 1522 uno o più viaggi in Ungheria, Germania, Polonia, Lituania e con loro tornò a Roma dove pubblicò, dedicandola ai suoi protettori, la sua principale opera filologica, le Diatribae sul testo di Ausonio, di Solino, delle Metamorfosi di Ovidio, in una edizione assai bella uscita dall'officina di Marcello Silber (Mariangeli Accursii Diatribae, Romae octavo kalendas Aprilis MDXXIIII in aedibus Marcelli Argentei, in fol., di cc. 102 n.n.). L'opera consta di una serie (molto numerosa soprattutto per Ausonio) di "castigationes" ossia di correzioni ragionate a passi corrotti, ed è buona testimonianza della sua preparazione e vasta conoscenza di testi greci e latini, della sua capacità di ricercatore di fonti manoscritte, di congetturatore e di esegeta; è anche pregevole per accenni a cose e persone contemporanee e ad esperienze di viaggio, per riferimenti a codici (specialmente della Biblioteca vaticana) e iscrizioni. Alle "castigationes" fa seguito un interessante scritto polemico, intitolato (da un apologo col quale ha inizio e da un'altra favola che lo chiude) Testudo, "la tartaruga". Nella Testudo l'A. si difende dall'accusa di plagio che secondo un calunniatore non nominato egli avrebbe commesso servendosi di un commento ausoniano di Fabrizio Varano vescovo di Camerino; non sembra possibile (nonostante un tentativo già fatto) identificare l'ignoto calunniatore. Anche la Testudo, che risale a qualche anno prima (nella stampa è datata "idib. novemb. MDXXI", è dedicata ai due marchesi di Brandeburgo e di essa esiste anche un manoscritto del 1520, probabilmente l'esemplare di dedica, conservato a Monaco (lat. 377; v. Cat. cod. lat. Bibl. r. Monacensis, I, 1, 1892, p. 100).

Dopo quell'anno, in cui cade anche un viaggio a Venezia e ad Aquileia per copiare iscrizioni, l'A. rimane ancora, per quasi un decennio, al servizio dei Brandeburgo: in Germania e Francia nel 1525; in Spagna 1525-29, con i suoi padroni al seguito della corte imperiale di Carlo V, dal quale gli furono conferiti privilegi per sé e per la famiglia (nel 1527 e nel 1532), nell'Italia settentrionale e in Germania 1529-30, a Roma 1530, poi ancora in Germania 1530-32. Non sappiamo esattamente quando e per quali motivi lasciasse il loro servizio; ma per un anno intero, prima del suo ritorno in patria, lo troviamo ad Augsburg nella clientela del ricco banchiere e mecenate Antonio Fugger. In tutti questi viaggi continua la sua attività di epigrafista militante, che è soprattutto importante durante il periodo spagnolo. Ce ne conservano la documentazione preziosa i fascicoli e le carte epigrafiche dell'A., che comprendono anche materiali italiani del periodo giovanile e degli anni più tardi, e sono raccolti in due codici dell'Ambrosiana (D 420 inf., O 125 sup.).

Ad Augsburg nel 1533 pubblica due importanti edizioni di testi antichi allora in parte inediti, le storie di Ammiano Marcellino e le Variae e il De anima di Cassiodoro. La prima (Ammianus Marcellinus a Maria ngelo Accursio mendis quinque niillibus purgatus et libris quinque auctus ultimis, nunc primum ab eodem inventis, Augustae Vindelicorum in aedibus Silvani Otmar mense Maio MDXXXIII) è dedicata ad Antonio Fugger in data 1 apr. 1533. È la prima edizione completa dei diciotto libri superstiti delle storie di Ammiano Marcellino: inediti erano i libri XXVII-XXXI. Editio princeps è anche quella delle Variae, di cui si avevano solo gli estratti pubblicati da Giovanni Cochlaeus nel 1529: Magni Aurelii Cassiodori Variarum libri XII, item de anima liber unus, recens inventi, et in lucem dati a Mariangelo Accursio, Augustae Vindelic. ex aedibus Henrici Silicei mense Maio MDXXXIII, dedicata in data 1 maggio 1533 al cardinale Alberto dei marchesi di Brandeburgo arcivescovo di Magonza. È interessante notare che ambedue le edizioni sono provviste del privilegio di stampa, per un quinquennio, del papa, dell'imperatore e della Repubblica veneta. Nel giugno 1533, finito il lavoro delle due edizioni, si accinge a ritornare in patria, diretto a Venezia e ad Aquila (John Coler a Erasmo, 5 giugno, in Opus epistolarum Des. Erasmi Roterodami, ed. P.S. Allen, X, Oxonii 1941, p. 232). Il 1 agosto passa da Padova e vi incontra Viglio Zuichemo: da lui sappiamo che si era trattenuto un anno intero presso A. Fugger e che tornava in patria ben provvisto e soddisfatto della sua dimora in Germania (a Erasmo, 2 agosto: "integrum hunc annum egit apud D. Antonium. Visus est mihi bene oneratus redire ex Germania, nec temere esse quod eam laudat"; Opus epist., X, p. 285;a nche una lettera di Erasmo a Bonifacio Amerbach, 12 giugno, p. 244, contiene un interessante accenno all'Accursio).

Tornato in patria, non interrompe né gli studi epigrafici né i rapporti con i suoi protettori tedeschi. Nel 1534 uscì a Ingolstadt, a cura di P. Apianus e B. Amantius, la prima collezione complessiva di iscrizioni del mondo antico (Inscriptiones sacrosanctae vetustatis, dedicata a Raimondo Fugger): compilazione caotica e scarsamente critica, tale dovette apparire anche all'A., che nel campo dell'epigrafia antica aveva accumulato una esperienza assai superiore a quella dei due compilatori. Di qui la spinta a un lavoro di revisione simile a quello che l'A. aveva dedicato agli Epigrammata antiquae Urbis.

Un esemplare delle Inscriptiones, ampiamente corretto, rielaborato e fornito di indici dall'A., è conservato, come i suoi manoscritti epigrafici, nell'Ambrosiana, ma è andato purtroppo distrutto nelle vicende dell'ultima guerra; secondo l'opinione del Mommsen doveva servire di base per una nuova edizione dell'opera, dedicata ad Antonio Fugger, che poi non ebbe effetto. Ancora nel 1538 invia al Fugger una silloge di iscrizioni della Dacia e dell'Ungheria che gli era stata mandata, ma ne trae una copia per sé, che ci è rimasta nelle carte Ambrosiane. Anche con i Brandeburgo i suoi rapporti continuano: quando muore a Ginevra (1536) Federico di Brandeburgo canonico di Frisinga, ne scrive l'epitafio; più tardi, nei viaggi che ancora compirà oltre le Alpi in servizio della sua città, sa o crede di potere ancora contare sull'appoggio della famiglia al cui servizio era vissuto oltre un decennio, percorrendo gran parte d'Europa, seguendo gli eventi della storia europea da un importante osservatorio, facendo esperienza di uomini e di paesi, esercitando egli stesso un'influenza, quale che fosse e anche se oggi è impossibile misurarla, sulla cultura degli ambienti toccati nelle sue peregrinazioni.

A contrasto di questa esperienza europea, l'ultimo periodo della sua vita (1533-46) si svolge in una prospettiva tutta diversa, familiare e cittadina, anche se interrotta da rinnovati contatti con gli ambienti transalpini che gli erano stati familiari. Forse alcuni anni dopo il ritorno ad Aquila, sposa, non più giovane, Caterina Lucentini Piccolomini e ne ha un figlio, Casimiro (il nome è quello di un fratello dei suoi protettori), che darà qualche buona speranza di studi umanistici, ma morirà giovane, studente in medicina a Padova, nel 1563. Si occupa di affari della città e nel 1538 riceve la piena cittadinanza aquilana, essendo aggregato al quartiere di S. Pietro e al castello di Civitareale. Gli è così aperta la strada agli uffici del Comune, e di fatto almeno una volta, nel primo bimestre 1539, copre la carica di Camerlengo, la prima magistratura cittadina. Tra il 1535 e il 1545 sostiene, da solo o con altri, non meno di sette missioni, a Napoli, a Roma, in Germania, che costituiscono solo una fase della lunga vicenda delle trattative condotte dalla città per ottenere dalla corte imperiale la reintegrazione dei diritti sui castelli, che erano stati tolti al Comune ed assegnati ai baroni dal principe d'Orange dopo la rivolta del 1528. Alcune di queste ambascerie lo portano ancora, ma in condizioni ben diverse, oltre le Alpi, nel 1538 (?), 1540-41 e 1544-45. Benché riesca a incontrare più volte l'imperatore e a ottenere qualche cosa, i risultati delle sue trattative sono inferiori alle speranze o rimangono senza effetto, le beghe con un collega di missione e l'avversità di una parte del Consiglio fanno precipitare la situazione. Al suo ritorno, l'A. viene allontanato dalla prosecuzione delle trattative, la sua stessa gestione è sottoposta a inchiesta, e solo dopo la sua morte, nel 1551, al piccolo Casimiro sono riconosciuti i conti delle spese sostenute dal padre per l'ultima ambasceria. Probabilmente queste fatiche e vicende rattristarono gli ultimi anni dell'A., anche se non ne accelerarono la fine. Tuttavia in questo decennio gli studi, gli affetti, le cure domestiche dovettero dargli qualche conforto. Le lettere dalla Germania del 1540-41 al cognato G. B. Lucentini, oltre che delle notizie della sua missione, sono piene di accenni domestici: la moglie, il bambino, il fratello Girolamo (anch'egli cultore di lettere), la parentela, la casa. In quegli anni seguitò a trascrivere epigrafi dove le occasioni lo portavano, in Germania, a Roma, a Napoli e certo in Abruzzo; ne raccolse anche in originale (alcune si conservavano ancora nella sua casa nel secolo scorso).

Morì in patria nel 1546 e fu sepolto in S. Bernardino.

Testimonianze di contemporanei ricordano la sua abilità nella recitazione, la conversazione piacevole, la conoscenza di più lingue. Si aggiunga che un passo della Testudo ci èpreziosa testimonianza di attitudini, di studi, persino di qualche singolarità dell'uomo, di cui non ci resterebbero altri ricordi: "novistis ipsi Principes - così scrive rivolto ai suoi mecenati - quam mihi vestitum prope (ut aiunt) militarem probro verterint, tum fidibus scire, musicen callere, philosopho indignum praedicent; quantumque invaserint quod et opticen cum literarum studiis vernaculosque cum latinis numeris coniunxerim" (Diatribae, c. R III r-v). Degli studi di musica e di ottica non pare che rimanga traccia, così dei versi volgari, ma è certo che, egli non poté essere scrittore se non latino, di uno stile elaborato e talvolta oscuro. Le poche lettere volgari che di lui si conoscono hanno interesse solo come documenti umani, non letterari; se mai, per i riflessi abruzzesi della lingua.

Ma degli studi dell'A. sono degni di sopravvivere due aspetti soprattutto: il filologo e l'editore di testi, e il cultore indefesso di epigrafia romana. Un giudizio esauriente sull'A. filologo è prematuro, perchè neppure le Diatribae, la sola opera che consenta, come si è visto, un giudizio delle sue capacità, sono state oggetto di uno studio tecnico in questo senso. Ancora più difficile è. giudicare delle sue edizioni. Che si sia occupato prevalentemente di testi della tarda antichità può essere indizio di un suo particolare interesse per quel periodo. Ma è certo che la preferenza per testi inediti (anche nelle Diatribae ci sono parti inedite di Ausonio e altri autori), e per testi difficili e particolarmente bisognosi di cure critiche, come Ammiano Marcellino, indica, oltre alla fiducia nelle proprie forze, un orientamento sui compiti della filologia, o almeno un particolare interesse per materiali nuovi, che è in sostanza lo stesso che lo spinse a occuparsi di iscrizioni, e insieme il gusto per la filologia testuale e la congettura. Al suo vanto di aver corretto 5000 errori nei libri già noti di Ammiano, espresso nel frontespizio e ripetuto più volte, corrisponde una analoga statistica nel suo Cassiodoro, dove si vanta di aver corretto 363 errori nel testo del De anima. Altrove ci informa di averne corretti 700 in Claudiano "ex vetustis exemplaribus ... inter equitandum" durante il viaggio in Germania e Sarmazia (Diatribae, c. A 4r); e più di 60 nell'editio princeps di Rutilio Namaziano (curata dal Pio; ibid., c. I 6r). Conosciamo all'incirca quale sia stato il peso delle edizioni da lui curate sulla tradizione critica (o meglio, editoriale) dei secoli seguenti, ma un vero giudizio sul suo contributo critico, sulla sua capacità e sui suoi procedimenti di editore, presuppone uno studio analitico e strettamente tecnico che ancora manca; solo materiali forniscono le introduzioni e gli apparati degli editori moderni (specialmente Mommsen per Cassiodoro e Clark per Ammiano).

Più chiaramente delineabile è la sua posizione e portata nella storia degli studi epigrafici. Quando l'A. cominciò ad occuparsi di iscrizioni, l'epigrafia antica poteva vantare in Italia già un secolo, da Poggio a fra Giocondo, di tradizione ininterrotta di ricercatori e raccoglitori. Era una tradizione ormai stanca, che aveva bisogno di un rinnovamento dalla base. Gli Italiani che nei primi decenni del Cinquecento sentirono meglio di tutti questo compito, certo indipendentemente, furono l'A. e Andrea Alciato. L'A., come mostra la revisione da lui eseguita degli Epigrammata antiquae Urbis, quella progettata delle Inscriptiones sacrosanctae vetustatis, e tutta la sua diretta attività di trascrittore, ebbe assai viva la consapevolezza della necessità di rifarsi da capo, controllando sugli originali le copie tramandate, obbedendo a precise esigenze metodiche (fedeltà nella trascrizione e nella divisione delle linee, corredo di disegni, dati topografici), estendendo le esplorazioni. Se l'Alciato gli fu superiore nel commento dei testi epigrafici e nella loro utilizzazione storico-giuridica, maggiori sono le benemerenze dell'A. come raccoglitore, soprattutto per intere regioni fino allora quasi del tutto inesplorate come la Spagna, o poco esplorate come l'Italia meridionale (per la sua terra natale, l'Abruzzo, egli fu in senso assoluto il primo), ma anche per i testi nuovi raccolti in centri già molto battuti, come Roma; e anche per le iscrizioni cristiane, sebbene egli mostrasse un certo disdegno di classicista per questa categoria dì monumenti. E non si deve dimenticare che non siamo in grado di misurare se una parte, e quanta, dei suoi materiali, sia andata perduta. La sua figura di epigrafista avrebbe avuto maggiore rilievo se fossero stati pubblicati da lui vivo o, come fu progettato, durante la generazione seguente i ricchi frutti delle sue ricerche. Invece essi rimasero del tutto ignorati fino al sec. XVIII, quando il Muratori cominciò a utilizzarli nel Novus thesaurus veterum inscriptionum. Ma solo nel secolo scorso, con lo spoglio sistematico e critico dei suoi manoscritti Ambrosiani, compiuto principalmente da Hubner, Mommsen e Henzen in servizio del Corpus Inscriptionum Latinarum, essi hanno dato tutto il loro contributo alla conoscenza dell'epigrafia antica e insieme la misura dell'attività epigrafica dell'A, e del suo valore in questo campo.

Edizioni e fortuna: Per la bibliografia delle opere edite, meglio dei repertori biografici, si v. Catalogue général des livres imprimés de la Bibliothèque Nationale, I, 1897, p. 134; British Museum. General Catalogue of printed books, I, 1931, coll. 482-483; Gesamtkatalog der Preussischen Bibliotheken, I, 193 I, col. 480, che registrano anche le ristampe del Dialogus e l'uso parziale delle Diatribae (le note ad Ausonio sono riprodotte quasi integralmente in D.M. Ausonii Opera, ed. I. Tollius, Amstelodami 1671, e per singoli testi anche da altri). Alle opere registrate nel corso della biografia si aggiunga un breve scritto sull'origine dello stemma di Augusta, noto agli eruditi aquilani forse da una copia manoscritta e considerato perduto, che fu invece stampato postumo: De Insignibus urbis Augustae. Von der Statt Augspurg Wapen, Augustae 1566, cc. 6 (esemplare a Berlino).

Per i pochi carmi latini, editi sparsamente in Coryciana, Romae 1524, e altrove, indicazioni e testi negli scritti del Calì (v. bibl.). Alcune delle iscrizioni da lui composte sono pubblicate tra quelle del concittadino Pierleone Casella, amico di suo figlio Casimiro (P.L. Casellae, De primis Italiae colonis, etc., Lugduni 1606, pp. 187-189: "Mariangeli Accursii Aquilani viri clarissimi, quae superant Epitaphia, ne pereant heic adscripsimus"; i carmi latini che seguirono non sono dell'A., come qualcuno credette, ma del Casella).

Per il Dialogus, che ha goduto di una interessante fortuna europea fino alla seconda metà del sec. XVII, si registrano tutte le edizioni conosciute, correggendo numerose incertezze ed errori dei biografi e bibliografi: 1. Osci et Volsci dialogus ludis Romanis actus, 40, cc. 12 n.n., 8. n. t., ma Roma, Ioannes Beplin (v. F. Isaac, An Index to the early printed books in the British Museum, Part II, Sect. II-III, London 1938, n. 12093) e sicuramente del 1513; 2. Id., Romae per Stephanum Guillereti et Herculem [de Nani] socios 1514, 40 (indicata da tutti con la data 1574, e talvolta 1774; l'indicazione risale a G. Cinelli Calvoli, Della biblioteca volante, Scanzia VI, Roma 1689, p. 8 s; le note tipografiche tolgono ogni dubbio sull'esistenza e la data di questa edizione); 3. Id., 40, cc. 10 n.n., s.n.t., ma Tubinga, Thomas Anshelm, 1514; ristampa curata da Ph. Melanchton: dalla sua dedica a Ermanno conte "Novae Aquilae" risulta che questi aveva portato l'opuscolo dall'Italia, certo in una delle due edizioni romane, e lo aveva donato al grande Io. Reuchlin, prozio del Melantone; 4. Osco, Volsco Romana que eloquentia interlocutoribus dialogus ludis Romanis actus. In quo ostenditur verbis publica moneta signatis utenduni esse...(lunghissimo titolo-prefazione), MDXXXI id. octob., 80, cc. 12 n.n., s.l. e tip., ma probabilmente Venezia, Gugl. da Fontaneto di Monferrato; 5. De priscis exoletisque antiquorum ac recentiorum vocibus Mariangeli Accursii dialogus, con Erasmo, Paraphrasis seu epitome... in Elegantiarum libros Laurentii Vallae,almeno nell'edizione Lugduni, apud haeredes S. Vincentii, 1535; 6. De antiquato et obsoleto sermone fugiendo..., a cura di L. Margonius, typis Ant. Candidi 1598 (in altri esemplari M. Accursii, Dialogus de antiquato..., Aureliae Allobrogum, Ant. Candidus, 1598); 7. Id., ...Dialogi duo elegantissimi...(l'altro dialogo non è dell'A.), Argentorati, Bertramus, 1609; 8. Id. id., Argentorati 1610; 9. Id., ...Dialogus elegantissimus..., Helmstadii, Muller, 1679.

Opere perdute o incerte: Di una raccolta di carmi latini, Sylvarum libri duo priores ad Philippum Caroli Regis filium diede per primo notizia il Tafuri (ma v. anche Dragonetti) probabilmente da buona fonte aquilana, anche se per errore fu creduto che l'opera fosse stampata. Così anche di un'opera storica, De principum interioris Italiae post Romanum imperium successoribus et inter se bellis compendium, che è detta conservata presso la vedova. Nelle Diatribae annunzia uno scritto intorno all'origine del corso del Danubio (c. M 5r: "Plura de his, quae superiore anno conspexerimus, peculiari aliquando opere a nobis dicentur"); altrove allude oscuramente a un'opera storica sulla famiglia dei marchesi di Brandeburgo (c. R iii v); ma forse l'uno e l'altra rimasero allo stato di propositi.

Un'operetta "De Typographicae artis inventore ac de libro primo omnium impresso", registrata da tutti i biografi, è dovuta a un equivoco: si tratta di una interessante nota manoscritta (da ritrovare) da lui apposta a un'antica edizione della Grammatica di Donato (v. A. Rocca, Bibliotheca Apostolica Vaticana, Romae 1591, c. a 4r e p. 411; anche in Opera omnia, Romae 1719, II, pp. 161 e 349-350).

Fonti e Bibl.: Di una vita dell'A, composta dal suo contemporaneo e concittadino Bernardino Cirillo (1500-75), che faceva parte dei suoi Elogi di illustri aquilani, si conoscono solo alcuni passi pubblicati dal D'Afflitto e in parte riportati dal Dragonetti; una redazione più breve nei mss. del Cirillo della Biblioteca provinciale dell'Aquila (K 354), vol. II, c. 287. Anche il congiunto Antonio Vicentini (1552-1620) avrebbe scritto secondo il Dragonetti (p. 217) una Vita di M. A. Scarseggiano i documenti locali utili per la biografia (tanto che le stesse date estreme della vita, fissate per primo dal Dragonetti, restano da verificare sulle fonti, non esplicitamente indicate). Uno scrittore aquilano poco posteriore, S. Massonio, Dialogo dell'origine della città dell'Aquila, L'Aquila 1594, pp. 153-154, oltre a valersi di elementi dalla tradizione orale, ha visto i diplomi di Carlo V che ancora si conservavano al suo tempo; A. L. Antinori (mss. nella Biblioteca provinciale dell'Aquila) poté attingere ad atti del Comune ora perduti notizie usate dal Palatini e dal Pansa; il Pansa ha pubblicato (non bene) otto lettere dell'A. e documenti relativi alla missione del 1540-41. Sono le sole lettere conosciute dell'A., mentre solo sparsi resti del suo carteggio scientifico rimangono nei mss. Ambrosiani; ma lo spoglio sistematico di questi ha fornito a Hübner e Mommsen una fitta trama di notizie dei suoi itinerari di Spagna e Germania. Secondo una notizia che risale a vecchi eruditi aquilani (in Dragonetti, pp. 28-29), le carte epigrafiche e filologiche dell'A. riempivano sette volumi in folio; e secondo il Massonio molti scritti dell'A., alla morte di Casimiro, "si sa fermamente essere stati perduti nelle stamperie". Si èsalvata la parte che dopo la morte del figlio Casimiro rimase a G. V. Pinelli e nel 1568 fu oggetto di trattative di pubblicazione con Aldo il Giovane (per tutto ciò v. le lettere nn. 1145, 1152, 1376, 1378, 1649 indicate in E. Pastorello, L'epistolario manuziano, Firenze 1957, che integrano Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, IX, p. XXVI) e certamente dal Pinelli passarono all'Ambrosiana. Si tratta dei codici Ambrasiani D 420 inf. e O 125 sup., ordinati in modo sommario e accidentale (il primo raccoglie fascicoli in fol., il secondo in 4°), e di una copia tratta dal secondo, O 248 sup.

I repertori bio-bibliografici che trattano dell'A. in L. Ferrari, Onomasticon, Milano 1947, p. 3; qui si citano solo quelli che conservano qualche utilità: G. B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, III, 1, Napoli 1750, pp. 265-272; III, 6, ibid. 1770, pp. 126-131 e 577-579 per il figlio Casimiro (= Camillo); G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 1, Brescia 1753, pp. 92-94, e p. 89 per Casimiro (anche qui sdoppiato); E. D'Afflitto, Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, I, Napoli 1782, pp. 20-30 (e 30-33 per Casimiro); A. Dragonetti, Le vite degli illustri aquilani, Aquila 1847, pp. 11-30, con ritr. (e 197-198 per il figlio Casimiro e il fratello Girolamo). Rapporti con i Fugger: P. Lehmann, Eine Geschichte der alten Fuggerbibliotheken, I, Tubingen 1956, pp. 11 e 20. Affari del Comune di Aquila: L. Palatini, La questione della reintegrazione del dominio dell'Aquila sulle castella del contado, in Bollett. d. Soc. di storia patria A. L. Anzinori negli Abruzzi, IX (1897), in particolare pp. 77-87; G. Pansa, Otto lettere inedite del celebre umanista M. A. relative all'ambasciata a Carlo V in Germania..., in Bollett. cit., XV (1903), pp. 3-12, 39-43 (documenti), 43-60 (lettere). Opere letterarie e filologiche: A. De Angeli, L'umanista M. A. e le diatribe in Ovidium, in Bollett., cit., V (1893), pp. 170-204 (modesto; nelle pp. 175-201 traduzione annotata delle note accursiane alle Met.); C. Calì, Spigolature umanistiche, I, M. A. e le sue poesie, in Bollett., cit., VI (1894), pp. 73-80; con lo stesso titolo, in La Nuova Rass., II (1894), pp. 45-47; rielaborato col titolo Operette satiriche e versi di M. A., in Studi letterari, Torino 1898, pp. 177-195 (non senza giudizi arbitrari); F. Flamini, Il Cinquecento, Milano [1902] pp. 96-97, 199, 536.

Sull'A. editore di testi, le questioni sulle sue fonti manoscritte e loro rapporti con la tradizione, si possono vedere, per Valerio Probo: Th. Mommsen, M. Valerius Probus de notis antiquis,in Berichte der Sächsischen Gesellschaft der Wiss. zu Leipzig, phil.-hist. Classe, V (1853) pp. 93, 109-110; Id., in G. Keil, Grammatici latini, IV, Lipsiae 1864, pp. 271, 351; per Ausonio: R. Peiper, Die handschriftliche Ueberlieferung des Ausonius, in Jahrbücher für classische Philologie, XI Suppl.-B., 1880, pp. 213, 344, 348, 350-353; Id., D. Magni Ausonii Opuscula, Lipsiae 1886, pp. LXXX-VIIII; per Solino: Th. Mommsen, C. Iulii Solini Collectanea, Berolini 1895, p. LII; per Ammiano Marcellino: V. Gardthausen, Die Ammianhandschrift des Accursius, in Hermes, VII (1873), pp. 168-170; Th. Mommsen, Ueber die Ammianhandschrift des A., ibid., pp. 171-175 (poi in Gesammelte Schriften, VII, Berlin 1909, pp. 384-388); H. Nissen, Ammiani Marcellini fragmenta Marburgensia, Berolini 1876, pp. 24-29 ("Caput IIII. De editionibus Accursii et Gelenii"); e meglio Ch. U. Clark, The text tradition of Ammianus Marcellinus, New Haven 1904, pp. 10-11, 16-38, 55, 62-67; per Cassiodoro: Th. Mommsen, Cassiodori Senatoris Variae, Berolini 1894, in Monumenta Germ. Hist., Auctores antiquissimi, XII, pp. XCI, CX-CXI, CLXXXIV.

Per gli studi epigrafici e i mss. Ambrosiani, G. Henzen, Ueber die stadtrömische Inschriftensammlungen aus der Epoche nach Cyriacus bis auf Jac. Mazochi, in Monatsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 1868, pp. 403, 406-408; Corpus Inscriptionum Latinarum, II, 1869, pp. VII-VIII (E. Hubner; importante per l'itinerario spagnolo); III, 1873, pp. XIX, 154 (Mommsen); V, 1, 1872, p. 79; V, 2, 1877, p. XIII (Mommsen); VI, 1, 1876, pp. XLVI-XLVII, num. XXI, XXV, XXVII (G. Henzen); IX, 1883, pp. XXV-XXVI, 397-399 (Mommsen; fondamentale); XII, 1888, p. XIV (O. Hirschfeld); XIV, 1887, p. XI (H. Dessau). Per le iscrizioni cristiane A. Silvagni, Inscriptiones Christianae Urbis Romae, ms., I, 1922, p. XLI n. 35. Per le pietre originali raccolte dall'A., Corpus Inscriprionum Latinarum, IX, p. 20, n. 407 e I, p. 398.

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