POMPEDDA, Mario Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

POMPEDDA, Mario Francesco

Alberto Melloni
Enrico Galavotti

Nacque e fu battezzato il 18 aprile 1929 a Ozieri (Sassari), da Giuseppa Pompedda e da padre ignoto e solo nel 1946 fu riconosciuto come figlio naturale da Salvatore, un contadino che simpatizzava per il Partito socialista. Frequentò le scuole elementari del Cantaro a Ozieri, ricevette la cresima il 3 marzo 1936 e a nove anni, nel 1939, fece il suo ingresso nel seminario di Sassari, dove compì gli studi ginnasiali; si trasferì quindi nel pontificio seminario regionale sardo di Cuglieri, istituito da Pio XI nel 1927 e affidato ai gesuiti, dove completò gli studi liceali e rimase sino al compimento della frequenza del primo anno di teologia.

Di questi primi anni di vita trascorsi in Sardegna, alla quale rimarrà sempre profondamente legato, ricorderà più tardi la «durezza del lavoro dei contadini e dei pastori, la vita misera dei più, ma anche la loro fierezza […]. Ricordo i contadini poveri che addirittura assaltavano le case dei possidenti, la disoccupazione di massa, con Piazza Cantareddu piena di uomini sfaccendati» (L’Unione Sarda, 18 aprile 2005).

Venne quindi inviato a Roma come alunno del prestigioso Almo collegio di Capranica, dove fece il suo ingresso il 17 ottobre 1948; il 6 marzo 1949 ricevette la prima tonsura. Nell’Urbe frequentò l’Università Gregoriana, dove conseguì la laurea in teologia, e il Pontificio istituto biblico, dove ottenne la licenza in Sacra Scrittura; presso la Pontificia università lateranense si laureò invece in utroque jure, appagando finalmente il suo crescente interesse per il diritto canonico, che lo condusse anche al conseguimento del titolo di avvocato rotale dopo la frequenza dei corsi presso lo Studium Sacrae Romanae Rotae, dove avrebbe svolto a sua volta, per circa vent’anni, la funzione di docente.

Il suo approdo a Roma divenne così definitivo dopo l’ordinazione sacerdotale, ricevuta nella basilica di S. Pietro il 23 dicembre 1951. Venne infatti incardinato nel clero vaticano (e più tardi in quello diocesano di Roma) iniziando a svolgere un’attività di tipo pastorale presso la parrocchia di N.S. di Guadalupe a Monte Mario. L’ingresso ufficiale nella Curia romana avvenne nel 1955, con la qualifica di scrittore presso la Sacra Romana Rota. Di fatto, fu nell’ambito di questo tribunale che si sviluppò la parte prevalente, ancorché non esclusiva, della sua attività all’interno della struttura curiale (fu, infatti, anche docente nella facoltà di diritto canonico dell’Università Gregoriana e nell’Ateneo della Santa Croce di Roma). Così ricevette successivamente la nomina a difensore del Vincolo e, nel 1969, assunse la qualifica di prelato auditore, che mantenne sino al 1993, anno in cui, l’11 settembre, giunse la nomina a decano di quella che, nel frattempo, era stata ridenominata come Rota Romana (l’unico dicastero della S. Sede che non contemplava, al suo interno, la presenza di cardinali). Il suo contributo al lavoro nella Rota si esplicò dunque in un’intensa attività di dibattimento intorno alle cause matrimoniali giunte sino al tribunale romano, che lasciò trasparire ben presto il profilo di un canonista che rivelava una padronanza eccezionale della strumentazione tecnica del suo lavoro e che, allo stesso tempo, si sforzò costantemente di chiarire che al centro di questo lavoro si collocavano coloro che facevano ricorso alla Rota, con il loro carico di drammi e incomprensioni; pose quindi in modo diretto ai propri colleghi la questione di dove trovasse fondamento «la presunzione che, pur tacitamente od implicitamente, sembra stare alla base di tanti nostri giudicati, che cioè la parte in giudizio è generalmente se non addirittura sempre menzognera» (Il Vangelo della Giustizia, a cura di M. Cecilia, 2009, p. 272). Dedicò quindi una parte cospicua dei suoi lavori scientifici ad approfondire i nodi delle perturbazioni e incapacità psichiche e i relativi effetti sul vincolo matrimoniale. Già nel 1981, nella conferenza Ancora sulle nevrosi e personalità psicopatiche in rapporto al consenso matrimoniale (in Borderline, nevrosi e psicopatie in riferimento al consenso matrimoniale nel diritto canonico, Roma 1981, pp. 39-64), Pompedda insisteva sul fatto che il progresso delle conoscenze psicologiche e psichiatriche mostrava come i limiti del consenso fossero più ampi di quelli sin lì individuati.

Questo introduceva la perizia psichiatrica e psicologica in ambito canonico e apriva la porta a una valutazione della ‘immaturità affettiva’ come fattore capace di distruggere la libertà volitiva richiesta dal sacramento del matrimonio: il principio sancito in tribunale si scontrava dunque con un «error personam pervadens» che dava significato canonistico al documento dei vescovi tedeschi sull’autocoscienza di nullità nella vexata quaestio delle ammissibilità tramite penitenza ordinaria dei divorziati risposati alla eucarestia. Emerse così il suo impegno costante a contemperare due esigenze che solo un approccio superficiale alla tematica matrimoniale poteva giudicare incomponibili: da un lato, la certezza della persistenza di una dimensione oggettiva dei fondamenti dell’atto matrimoniale che la giurisprudenza doveva continuare a sviscerare e che non poteva svendere passivamente alla psicologia; dall’altro, la consapevolezza che la dottrina doveva appunto compiere ancora un lungo cammino per adempiere a una piena comprensione di espressioni quali la «incapacitas adsumendi onera coniugalia», che pure erano utilizzate quotidianamente nei tribunali canonici, affinché esse avessero finalmente un significato e un contenuto giuridicamente definito (Ius Canonicum, XXII (1982), 43, pp. 189-207). Alla base di questo approccio si poneva il convincimento radicato di come il diritto canonico si muovesse all’interno di un vero e proprio paradosso, costituendo un ordinamento la cui tipicità consisteva «nell’essere il più possibile atipico, e cioè nello sforzarsi di far coincidere al massimo il typos (la costanza, la conformità) con il kayros (il singolare, il nuovo)» (Il Vangelo della Giustizia, cit., pp. 46 e 222).

Proprio per questa attitudine diede un contributo essenziale in vista della conclusione del processo di revisione del Codice di diritto canonico, che Giovanni Paolo II portò a compimento nel 1983 e che introduceva alcune novità nell’ambito della legislazione sul matrimonio. Condotto a interessarsi in modo del tutto particolare delle questioni inerenti al consenso matrimoniale, la sua attenzione si rivolse in special modo verso il canone 1095 del nuovo Codex: un articolo che non trovava corrispondenti nel Codice pio-benedettino e che definiva i contorni di coloro che venivano giudicati incapaci di contrarre matrimonio. Pompedda lo qualificò dunque un punto di arrivo tanto della dottrina quanto della giurisprudenza canonistica, giacché ancora prima che arrivasse questo canone, giudici e tribunali avevano dovuto progressivamente mettere a fuoco nuove dimensioni del negozio matrimoniale; giudicò dunque tale norma complessivamente equilibrata, ma lungi dall’esaurire tutti i risvolti delle questioni che essa doveva disciplinare. Sunteggiando i canoni in tema matrimoniale più importanti del nuovo Codex, osservò che se il matrimonio era definibile, nella sua essenza, come «consorzio fra l’uomo e la donna; coinvolgente tutta la vita; perpetuo ed esclusivo; ordinato al bene dei coniugi; ed insieme alla generazione-educazione della prole», era urgente e, in prospettiva, sempre più necessario, «approfondire e dare un significato esistenziale e concreto a tutti e a ciascuno di quegli elementi della essenza del matrimonio» (Ius Canonicum, XXVII (1987), 54, pp. 535-555).

Dopo l’approvazione del Codex il suo impegno all’interno della Rota fu rivolto appunto ad avviare questo approfondimento. In diverse occasioni reagì allo stereotipo del canonista come custode di una realtà immutabile, esortando i propri colleghi ad abbandonare un certo «quietismo» e «una certa pigrizia mentale», limitandosi a quanto era stato tramandato dai più insigni giureconsulti del passato: non bisognava temere, insomma, «di incidere col bisturi della ricerca, della riflessione, con lo studio spassionato, sulla realtà dell’uomo» (Il Vangelo della Giustizia, cit., p. 25); così chiariva pure che le sentenze di dispensa non dovevano essere considerate «già quali vulnera legis, bensì quali legis exsecutiones» (ibid., p. 85), giacché mantenendosi entro i limiti fissati dal diritto configuravano, nella forma della giustizia, la legge stessa. Nel febbraio 1996 fu quindi cooptato nella commissione istituita da Giovanni Paolo II allo scopo di elaborare una nuova Istruzione che raccogliesse organicamente le norme dedicate dal Codex al processo di nullità matrimoniale accompagnandole con gli opportuni approfondimenti interpretativi: un’esperienza che segnò a un tempo l’acme, ma anche l’inizio della discesa del suo peso all’interno della Curia romana, che coincise con l’inesorabile declino di Giovanni Paolo II. Fu subito evidente infatti l’intenzione di Pompedda di dare un seguito concreto ai suoi proponimenti di una rilettura delle rigidità interpretative che continuavano ad accompagnare i dibattimenti rotali circa le cause di nullità, e nel settembre 2002 rivelò nel corso di un congresso di specialisti che lo schema di istruzione che aveva approntato confermava in linea di principio l’obbligo della doppia sentenza conforme – primo grado e appello al tribunale regionale – per le cause di nullità matrimoniale, ma prevedeva la possibilità di deroghe al secondo grado di giudizio nel caso ci fosse una «già confortevole sicurezza» circa la pronuncia del collegio giudicante (Verità e giustizia nella doppia sentenza conforme, in La doppia conforme nel processo matrimoniale. Problemi e prospettive, Città del Vaticano, 2003, pp. 7-18); il suo schema fu però accantonato e sostituito con quello elaborato dalla commissione presieduta dal cardinale Herranz, che diventò infine l’istruzione Dignitas connubii (25 gennaio 2005), con la quale si ribadirono le posizioni più tradizionali (F. Daneels, Una introduzione generale all’istruzione “Dignitas connubii”, in Ius Ecclesiae, XVIII (2006), 2, pp. 317-342).

Nel frattempo Pompedda ridefinì su incarico del papa le norme che presiedevano alla sede vacante e all’elezione del pontefice, promulgate da Giovanni Paolo II con la costituzione Universi dominici gregis del 22 febbraio 1996, che stabilivano, tra le altre cose, importanti novità sul quorum per l’elezione del papa e cassavano le forme di voto di più complessa decifrazione come l’acclamazione o la conspiratio (A. Melloni, Il conclave. Storia dell’elezione del Papa, Bologna 2013, pp. 147-160). Giovanni Paolo II lo nominò quindi vescovo (con il titolo di arcivescovo di Bisarcio, da lui scelto in omaggio alla sua terra d’origine) il 29 novembre 1997 e lo consacrò nella basilica vaticana il 6 gennaio 1998; il 16 novembre 1999 giunse la duplice nomina a prefetto del tribunale della Segnatura apostolica e a presidente della Corte Suprema per lo Stato della Città del Vaticano, incarichi da cui si dimise il 27 maggio 2004; tra il febbraio e il novembre 2000, prese parte ai lavori della commissione ristretta incaricata di redigere la nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano, promulgata da Giovanni Paolo II nel febbraio 2001.

Il 21 febbraio 2001 Giovanni Paolo II lo creò cardinale, assegnandogli il titolo della Ss. Annunciazione della B.V. Maria a via Ardeatina e pochi mesi più tardi prese parte alla X assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dedicata alla figura del vescovo, nel corso della quale sviluppò un lungo intervento di disamina dell’Instrumentum laboris in cui, tra le altre cose, criticò l’ipotesi di attività di formazione per i vescovi poste in essere dai dicasteri romani e postulò la necessità di ridurre il numero di prelati della Curia romana insigniti della dignità episcopale (Il Vangelo della Giustizia, cit., p. 31).

Nell’aprile 2005 prese parte al conclave che elesse Benedetto XVI e nelle settimane precedenti a esso, interpellato in merito a una possibilità di rinuncia al ministero petrino da parte di Giovanni Paolo II, ricordò che la costituzione Universi dominici gregis contemplava appunto la possibilità teorica di un conclave non solo a seguito della morte del pontefice; a questo riguardo alcuni individuarono in Pompedda l’autore del diario utilizzato in una ricostruzione del conclave che ha evidenziato il peso della candidatura del cardinale Bergoglio durante l’elezione pontificia del 2005 (L. Brunelli, Così eleggemmo papa Ratzinger, in Limes, (2005), 5, pp. 291-300). Il dimissionamento dagli ultimi incarichi di Curia, avvenuto in perfetta coincidenza con il compimento dei settantacinque anni (nel marzo 2005 si concluse anche il suo mandato quinquennale da presidente della Commissione degli Avvocati) e con la contestuale assunzione della carica di gran priore del Sacro militare ordine costantiniano di San Giorgio, gli consentì finalmente di intervenire con maggiore libertà di espressione su temi rispetto ai quali persisteva nella Chiesa italiana un conformismo di facciata che dissimulava, in realtà una profonda disparità di vedute. Così mostrò una certa apertura rispetto al tema del testamento biologico e definì un «machiavello» ovvero «una specie di sotterfugio» l’indicazione impartita dal cardinale Camillo Ruini di un’astensione sul referendum sulla legge sulla procreazione assistita (Corriere della sera, 1° febbraio 2005); e mentre si era acceso un forte dibattito intorno all’ipotesi avanzata da Romano Prodi di introdurre nell’ordinamento italiano forme di tutela giuridica per le unioni di fatto così com’era avvenuto in altri Paesi europei e non, dichiarò che queste non potevano essere equiparate ai matrimoni, ma aggiunse che le unioni di fatto erano «un fatto», che non si poteva tralasciare che da un’unione durata anni nasceva «una relazione che non può non generare diritti» e che non vedeva una «inconciliabilità totale tra la dottrina cattolica e qualche forma di tutela per le unioni di fatto» (Il Giornale, 14 settembre 2005); nel novembre 2005, pochi giorni prima che Benedetto XVI rivolgesse alla Curia il suo discorso sulla ermeneutica del Vaticano II, intervenne poi per affermare che «alla lettura (non ancora ri-lettura) del Concilio deve seguire uno spirito di riforma. Alla de-lineazione dell’immagine di Chiesa che il Concilio ha fornito, deve oggi seguire un progetto operativo, coerente con il piano complessivo e generale» (Il Vangelo della Giustizia, cit., p. 277); nel marzo 2006, nell’ambito di una riflessione sul laicato italiano, lamentò quindi come i cosiddetti movimenti ecclesiali, che pure avevano goduto del sostegno e della simpatia di Giovanni Paolo II, palesavano il limite «di non guardare alla preparazione e formazione dei propri membri a una azione sociale e, quindi, politica», con evidenti ricadute sulla situazione politica italiana (intervista in G. Cionti, Gli “atei devoti” e il rischio di svuotamento della fede, in Jesus, marzo 2006, p. 55).

Morì all’Ospedale Gemelli di Roma, dove era ricoverato da alcune settimane, il 18 ottobre 2006 e il 20 ottobre successivo Benedetto XVI presiedette i suoi funerali nella basilica di S. Pietro; esaudendo una sua richiesta, il suo corpo venne tumulato nella cattedrale di Ozieri. Fu insignito di lauree honoris causa dall’Institut catholique di Parigi (1995) e dall’Università di Cagliari (2004); tra gli incarichi ricoperti ci fu anche quello di consulente ecclesiastico della Union internationale des juristes catholiques.

Fonti e Bibl.: Per l’analisi della sua attività all’interno della Rota è indispensabile il rinvio alla raccolta, divisa per anni, delle Rotae Romanae decisiones seu sententiae, Città del Vaticano 1909. I suoi scritti scientifici sono stati raccolti in: Studi di diritto matrimoniale canonico, Milano 1993; Studi di diritto processuale canonico, Milano 1995; Studi di diritto matrimoniale canonico, II, Milano 2002; è invece uscita postuma, e purtroppo viziata da una inadeguata cura editoriale, la raccolta di discorsi e omelie tenuti tra il 2001 e il 2005 intitolata Il Vangelo della Giustizia, a cura di M. Cecilia, Napoli 2009.

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