MARMO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1995)

Vedi MARMO dell'anno: 1961 - 1973 - 1995

MARMO (v. vol. IV, p. 860 e s 1970, p. 460)

C. Napoleone

Con il termine generico di m. s'intendevano nell'antichità oltre ai m. veri e proprî, compatti e di media durezza, suscettibili di polimento, anche quelle roccie con struttura e durezza assai maggiore come graniti e porfidi. Correntemente con la definizione «marmi antichi» si intendono quelle pietre policrome adoperate soprattutto dai Romani i quali, come è noto, dall'età tardo-repubblicana ne fecero grande uso nella decorazione e nell'architettura. Ma ancor prima dei Romani, l'impiego ornamentale dei m. colorati per palazzi, ville ed edifici pubblici risale all'Egitto tolemaico e alla cultura alessandrina.

I giacimenti dei graniti e degli alabastri furono tuttavia largamente sfruttati dalla civiltà egizia fin dalla I dinastia. Ad Assuan non si cavò soltanto il granito roseo, o rosso di Siene, per monumenti e sculture, ma anche quelle qualità varianti dal grigio al nero, talune particolarmente macchiettate, denominate pietra di Etiopia, di Tebe, o sienite nera. Mentre i porfidi del Gebel Dokhan (Mons Porphyrites) e i graniti del deserto orientale egiziano (wādī Barud, wādī Fawakir, Umm Śaygilat, Gebel Fatire, ecc.) non vennero sfruttati in epoca faraonica ma solo sporadicamente in età tolemaica: è a Roma, dopo che le cave divennero proprietà imperiale, che il porfido rosso trovò un vastissimo impiego.

Numerose sono invece le statue di divinità e di faraoni realizzate fin dall'Antico Regno in basanite, o grovacca, e all'infuori del sarcofago detto di Alessandro (in realtà di Nectanebo I) conservato al British Museum, scarse sono le testimonianze dell'impiego della breccia verde d'Egitto (lapis hecatontalithos) la cui cava è antistante quella della basanite nello wādī Ḥammāmāt (Mons Basanites). Un gran numero di iscrizioni in caratteri geroglifici, greci e latini sulle pareti del monte dal quale veniva estratta la basanite, documentano il passaggio di cavatori delle tre civiltà.

Vasi in porfido serpentino nero (wādī Umm Towat), canopi in alabastro cotognino della valle del Nilo, e statue in granito e basanite - che gli antichi consideravano sacra e che chiamavano pietra bekhen - avvalorano, oltre l'esteso uso che ne fu fatto da quelle dinastie, anche le suggestioni che crearono presso i Romani dopo la conquista dell'Egitto (31 a.C.).

Per tutto ciò che concerne la problematica relativa al massiccio afflusso di m. colorati provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo (dall'Asia Minore alla Grecia, dall'Africa proconsolare all'Egitto, alla Spagna e alla Francia), per soddisfare il programma decorativo dell'edilizia imperiale pubblica e privata a Roma, ma anche nelle provincie e nelle zone più remote dell'impero, v. cave di marmo.

Si completa il repertorio dei m. antichi con notizie riguardanti quelle varietà che in misura minore furono impiegate dal mondo romano nella decorazione architettonica, nella scultura, nei manufatti ornamentali. M. per lo più di provenienza incerta, di età tarda, e con denominazioni che, non trovando riscontro nella terminologia antica e nelle descrizioni tramandate dalle fonti, corrispondono prevalentemente a quelle nomenclature adottate dalla trattatistica ottocentesca e dal tradizionale lessico dei marmorari romani.

Del c.d. porfido Vitelli, con fondo verdolino macchiettato da punti di un verde più chiaro (da distinguersi dal porfido verde del Gebel Dokhan assai più scuro nella tessitura punteggiata da inclusioni verdognole e da cristalli bianchi) non era nota la provenienza, secondo quanto risulta da una lettera di Faustino Corsi che per primo nell'Ottocento lo classifica e battezza «Vitelli», dal nome del proprietario di un grosso frammento rinvenuto sul litorale di Ostia. Recentemente, a Krokeai (tra Marathonisi e Levetsova nel Peloponneso), da cui proviene il porfido verde di Grecia (lapis lacedaemonius) o serpentino, sono stati identificati numerosi massi di porfido Vitelli che comproverebbero l'origine finora discussa.

Tra i porfidi egiziani del Gebel Dokhan troviamo limitatamente impiegati il porfido rosso laterizio e il nero grafico, così chiamati popolarmente per l'affinità cromatica rosso mattone del fondo costellato da piccole macchie rosate tendenti al bianco e al grigio, e per i cristalli sottili bianchi disposti a somiglianza di una grafia (vaso di fattura moderna a Villa Albani, Roma; specchiatura in porfido nero grafico nel fronte della Schola Cantorum, in opera cosmatesca del 1205 nella chiesa di San Saba a Roma).

Il semesanto, o breccia di semesanto, è una varietà della breccia di Sciro che per la sua friabilità veniva estratta solo in piccoli blocchi. Minute e fitte macchiettature lattiginose ne punteggiano il fondo paonazzo cupo tendente al viola. Fu impiegata per mattonelle, cornici e manufatti in epoca romana (Casa dei Cervi, Ercolano; piano di tavolo nell'Antiquarium di Pompei), e molto apprezzata nel tardo Rinascimento e in età barocca nel reimpiego di tarsie e impiallacciature di arredi «a commesso» particolarmente pregiati.

Fra le brecce rosate dell'Asia Minore la più diffusa a Roma era la breccia corallina della Bitinia (tazza imperiale nella Sala dei Capitani, Palazzo dei Conservatori, Roma). Una sua varietà, con larghe pezzature giallo zolfo e inclusioni bianche, è il c.d. broccatellone, per la presunta somiglianza con il broccatello di Spagna, ma di più limitato impiego (colonne della Pergola nella Cappella di Sant'Elena, Santa Maria in Aracoeli, Roma).

Frequente nel III secolo d.C. è l'impiego ornamentale del cipollino rosso (marmor carium o iassense), la cui cava si trova in una zona compresa tra il villaggio di Abkük e Asin, l'antica lasos in Caria, regione ricca di giacimenti di brecce dalle tonalità più o meno intense, come il rosso brecciato, di cui si possono vedere numerosi esempì nelle decorazioni di Ostia, Leptis, e in parecchie chiese di Roma.

Da Ezine, in Troade, proviene la breccia pavonazza o m. palatino, con macchie bianche oblunghe su fondo rosso violaceo.

Da estrazioni sporadiche in fondi privati in Italia e altrove, provengono numerose breccie, come la breccia cenerina, viola pallido con inclusioni tendenti al bianco, nota fin dall'età giulio-claudia per mattonelle pavimentali e piccoli manufatti.

Alcune brecce di ignota provenienza traggono i loro nomi dai monumenti in cui furono reimpiegate, o dalle aree di Roma dove furono rinvenute. La breccia pavonazza sfrangiata di Santa Maria degli Angeli con venature rosse e gialle (colonne dell'altare della cappella dell'Epifania nella omonima basilica romana), la breccia bruna del Testacelo (proveniente dalle Alpi Apuane), la breccia pavonazza bruna del Suffragio (plinto di colonna nella Cappella di S. Giuseppe in Santa Maria del Suffragio a Roma), confermano il retaggio ottocentesco nel criterio di catalogazione ancora corrente.

Si presume che alcune brecce gialle provenienti dalle più disparate regioni dell'impero siano state utilizzate in età tarda, in sostituzione del più costoso giallo antico di Numidia (Semtu, Tunisia), destinato principalmente alla casa imperiale e ai grandi edifici pubblici. La breccia nuvolata gialla e la breccia nuvolata rosa dell'Algeria ne sono evidente testimonianza nei rivestimenti di Roma, Ostia, Piazza Armerina e Cartagine. Più rara è la breccia gialla Godoy (dal rinvenimento di alcuni frammenti nella Villa Mattei al Celio dove risiedette nella prima metà dell'Ottocento il generale spagnolo Manuel Godoy y Alvares de Faria, 1767-1851), le cui venature giallo paglierino su fondo chiaro ricordano il m. numidico. Si ignora la cava, che taluni hanno ipotizzato nei pressi di Corinto, del m. giallo tigrato, impiegato in qualche pavimento di Roma e dintorni e riutilizzato in un vaso di fattura moderna ora esposto nella Galleria dei Candelabri in Vaticano. La breccia dorata delle Alpi Apuane si incontra invece più frequentemente nei rivestimenti di Roma e di Ostia e in molti reimpieghi di chiese e palazzi del barocco romano.

Sono genericamente chiamate policrome o traccagnine quelle brecce composte da frammenti rotondeggianti di varí colori contrastati, tendenti allo scuro: la breccia policroma degli Angeli (colonne nella cappella «Litta» sulla destra del presbiterio della chiesa di S. Maria degli Angeli), la breccia policroma Caetani (cappella in Santa Pudenziana, Roma), di cui insieme alla breccia rossa policroma ovoide e alla breccia rossa e gialla si ignora la provenienza. Forse originarie dell'Asia Minore sono la breccia policroma capitolina (colonna nella Sala del Galata, Musei Capitolini, Roma), la breccia policroma di San Bernardo (specchiature nella balaustra della chiesa di S. Maria degli Angeli) e la breccia policroma Lucullea dalla Villa di Lucullo. Brecce importate in quantità esigue e per periodi circoscritti come la breccia policroma di San Benone (lastre parietali della cappella in Santa Maria dell'Anima, Roma), o la breccia rossa polìcroma lumachellata detta anche della Villa Casali, dai cui scavi sul Celio nel secolo scorso emersero due splendide colonne. La breccia Quintilina dalla Villa di Quintilio Varo nella campagna prossima alla residenza imperiale di Adriano a Tivoli, detta anche di Tivoli (o Adriana, o Adrianea), potrebbe invece provenire dalle cave del rosso di Levanto in Liguria, trattandosi presumibilmente di una sua varietà. La breccia bruna oolitica è ben rappresentata in una colonna dell'ambone di San Marco a Venezia. Né mancano brecce verdoline e, fra tutte, quella con la macchia più stravagante è la breccia frutticolosa il cui fondo costellato di ciottoli arrotondati ben definiti e policromi, intramezzati da dendriti ferruginose, ricorda, più che dei frutti veri e propri, i loro noccioli.

Alcuni collezionisti e antiquari hanno legato il loro nome a talune pietre particolarmente rare. Dal noto artigiano del m., Francesco Sibilio, che nel secolo scorso aveva a Roma la sua bottega, prendono il nome un porfido bigio (sorta di granito a morviglione del Frejus), una lumachella o madreporite rossa, e un granito mischi. La lumachella bronzina di Dodwell dell'Asia Minore, grigia con riflessi conchigliari che ricordano il metallo dorato, figurava nella raccolta di m. antichi composta negli anni '30 dell'Ottocento dall'archeologo inglese E. Dodwell. La pietra braschia delle Alpi orientali, verde tendente al bigio, utilizzata in epoca tardo romana per manufatti di piccole e medie dimensioni (urnette cinerarie nel Museo Archeologico di Aquileia), deriva il nome dai due vasi fatti eseguire nel tardo Settecento da papa Pio VI Braschi a ornamento della Galleria dei Candelabri in Vaticano.

Certamente i Romani conobbero anche la fluorite o spatofluore, come testimoniano i ritrovamenti di alcuni blocchi ancora grezzi negli scavi della Marmorata a Roma, ma non sappiamo se sia quella proveniente dal Derbyshire nordoccidentale o se dalle vicine miniere di piombo della Tolfa.

La massiccia importazione dei materiali lapidei a Roma termina intorno alla metà del V sec. d.C. La cristianizzazione degli edifici pagani, se da una parte avvia il processo distruttivo di Roma antica, dall'altra inizîa il capitolo del reimpiego dei m. policromi nell'architettura romanica e medievale. Roma stessa si trasforma in un'inesauribile cava di m., non solo a uso dei Romani, ma anche di numerose città d'Italia, dalla Palermo normanna e sveva a Pisa e Firenze, con l'eccezione di Venezia dove la maggior parte delle pietre provengono dal sacco di Costantinopoli a opera dei Crociati nel 1204.

Innestandosi sui modelli decorativi delle basiliche costantiniane, mosaici, mattonelle e lastre in porfido, serpentino e granito compongono pavimenti in opus sectile, crustae parietali e arredi liturgici sviluppando lo stile tramandato dalle maestranze bizantine. La Cappella di San Zenone in Santa Prassede a Roma (817-820, chiamata anche Hortus Paradisi per la ricchezza dei suoi m. e delle sue policromie), bene esemplifica quell'arte muŚiva che fino al XV sec. viene comunemente definita cosmatesca, da una delle famiglie di scalpellini e ornatisti che operarono principalmente nelle antiche chiese di Roma e dell'Italia centrale.

Nel Rinascimento, a Roma, i grandi architetti rompono con la tradizione del Medioevo e introducono soluzioni ornamentali più elaborate nel ripristino dei m. antichi per impreziosire palazzi e cappelle gentilizie: la Cappella Gregoriana in San Pietro (1583) e la Cappella Sistina a Santa Maria Maggiore (1587), segnano il propagarsi di un gusto in cui la ricerca della pietra rara di scavo, si esalta non solo nell'inedito repertorio dei rivestimenti di pareti e altari, ma anche nelle virtuosistiche composizioni geometriche di tavoli e manufatti «a commesso». Alle durezze e alle severe tonalità dei porfidi, dei graniti e delle dioriti nelle tarsie rinascimentali e barocche, si prediligono quei m. più teneri e venati, dal pavonazzetto al bianco e nero d'Aquitania alle macchie minute del semesanto, delle lumachelle, delle brecce policrome e degli alabastri. Il termine «mischi» ne sottolinea la suggestiva e multiforme derivata dalle tonalità screziate, disposte a cornice attorno a lastre centrali di maggiori dimensioni. Gli opifici di Roma detengono il primato in questo genere di artigianato aulico, di cui uno degli esempi più spettacolari è il Tavolo Farnese (1565), conservato al Metropolitan Museum di New York.

Durante il XVII sec. si intensificano gli impieghi di lastre di m. antico per abbellire interi ambienti. Accostamenti di diverse venature marmoree ispirati a un impianto architettonico classico - basato sulle evidenze degli scavi e ritrovamenti dell'epoca - reinventano la natura stessa decorativa delle pietre nella scompaginazione in frammenti e scaglie delle specchiature marmoree inserite nei rivestimenti architettonici. La Cappella Altieri in Santa Maria sopra Minerva (1672) presenta nella cornice dell'alta zoccolatura un'opera di ricomposizione minuta di lastre di pavonazzetto dell'Asia Minore, trasformando con nuovi effetti cromatici il verso della venatura del m. frigio a imitazione di un sontuoso broccato. Parallelamente alle decorazioni di edifici e al rinnovato uso del mosaico inserito nei monumenti e negli arredi barocchi, il collezionismo dei m. colorati apparteneva come «genere» a molte raccolte di antichità del tempo. Agli esordî del collezionismo antiquario mediceo, coronato dall'istituzione di un vero e proprio opificio nel 1588, la corte di Firenze imiterà la produzione romana, per presto maturare uno stile autonomo di soggetti naturalistici ricavati dalle cromie delle pietre dure «a commesso» su fondo nero di paragone (marmo nero del Belgio). Anche le botteghe artigiane di Napoli adotteranno la consuetudine decorativa fiorentina negli altari barocchi per la presenza di maestranze toscane nel capoluogo partenopeo. In seguito ai ritrovamenti di Ercolano e Pompei, prevale un classicismo geometrico ispirato a quei modelli originali. Si assisterà così nelle decorazioni moderne a clamorosi riassemblaggi di reperti litici romani. I pavimenti in opus sectile riesumati dall'antiquario R. Hadrawa fra i resti delle ville imperiali di Capri nel 1778 furono infatti ricomposti sia intorno all'altare maggiore della chiesa di Capri sia nella Villa Favorita di Ferdinando IV a Napoli, e in alcuni tavoli con tracciati a losanghe recanti nella fascia esterna la dicitura del ritrovamento e la dedica a re Ferdinando.

Nel Settecento si afferma un interesse documentario per i m. antichi: compaiono i primi cataloghi ragionati delle pietre usate dai Romani, contemporaneamente ai primi compendî con le classificazioni delle loro varietà e origini, compilati da studiosi e mercanti che agivano a ridosso della grande tradizione di studi antiquari dei secoli precedenti.

Le indagini litologiche erano state oggetto di studio già dalla metà del Cinquecento; oltre al Vasari, fu il monaco Agostino del Riccio al volgere del XVI sec. a puntualizzare, con metodo scientifico comparato, le origini e l'impiego dei m. e delle pietre dure nei diversi campi dell'arte. Il suo trattato, l'Istoria delle Pietre (1587), recupera il lessico degli scalpellini e precisa le più auliche denominazioni latine di molte qualità di m. fino ad allora mai elencati, con riferimenti alle cave antiche e moderne. Indagini queste, riprese e allargate dagli studi comparati di Cassiano Dal Pozzo che, nella prima metà del Seicento, compose il più vasto repertorio iconografico di disegni dall'antico (il Museum Chartaceum). Le tavole che compongono il campionario litologico su carta appartenuto al Dal Pozzo, e ora conservate nella Royal Library di Windsor Castle, rappresentano quel collezionismo, e implicitamente quel mercato, di m. colorati che all'epoca si concretizzava in manufatti moderni, vasi in porfido rosso, serpentino, alabastro, e nelle tarsie ornamentali delle chiese e dei palazzi più importanti di Roma. Reperti in m. colorati venivano anche genericamente assimilati fra le curiosità antiche o in quelle peregrine dei gabinetti di storia naturale, come in quello del gesuita Athanasius Kircher conservato al Collegio Romano.

Più circostanziato ed erudito, nei primissimi anni del Settecento è il trattato manoscritto sui m. di monsignore Leone Strozzi (Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, V Serie, 1254), proprietario anche di un campionario di pietre riapparso di recente sul mercato antiquario. La raccolta dello Strozzi, rilegata in due preziosi volumi in pelle con incastonature in gabbro dioritico, o granito verde del Deserto Orientale egiziano (lapis ophites), illustra in modo originale la moda di costituire «studi» o «mostre» con tipologie ragionate di m. antichi. Saggi di pietre e m. che, se da una parte coincidevano con l'approfondimento delle conoscenze storico-archeologiche, dall'altra nutrivano il vivace mercato delle botteghe dei marmorari romani che con i campionari rendevano il collezionismo dei m. colorati sempre più appetibile a un largo pubblico di turisti e viaggiatori stranieri, quali preziose reliquie dell'antichità.

Il De Antiquis Marmoribus del poeta e antiquario napoletano Biagio Garofalo (Blasius Caryophilus, 1738) in cui sono riunite tutte le fonti greche e latine a lui conosciute, anticipa di un secolo l'opera fondamentale Delle pietre antiche di Faustino Corsi, apparsa nel 1828 e ampliata nelle riedizioni del 1833 e 1845. Documenti e nomenclature antiche e moderne messe a confronto con singole tipologie di m. fanno di questo trattato - dal punto di vista scientifico e umanistico - il testo più completo e basilare del XIX secolo. E se alla fine del Settecento vengono ancora concepite campionature in «arredi preziosi» come la splendida teca bivalve del cardinale Riminaldi, conservata al Museo Civico di Ferrara, o il gigantesco campionario sistemato nei pavimenti di Palazzo Rondinini a Roma, è proprio Faustino Corsi che diffonde fra un pubblico colto e borghese campionari disposti in regolari mattonelle, secondo un criterio ragionato, corredati da rispettivi cataloghi con singole diciture. Più meticolose, impostate sul modello di classificazione sistematica del Corsi, sono le raccolte di Tommaso Belli e i cataloghi a stampa del fratello Francesco, composti nella seconda metà dell'Ottocento. Indice di un perfezionato metodo d'inventariare ciascuna formella con iscrizioni dettagliate sulla provenienza e la qualità dei m., insieme a riferimenti sulle principali botteghe dei marmisti e antiquari romani, sono i cataloghi di Francesco Belli che correggono e integrano in molti casi le definizioni della fortunata opera del Corsi: il catalogo della collezione del conte Stefano Karoly formata nel 1842, e quello per la collezione del cardinale Giacomo Antonelli approntata nel 1869, insieme a quello della raccolta del barone Ravenstein, esposta nei Musei Reali a Bruxelles. Il catalogo - andato disperso - della raccolta di Tommaso Belli (tuttora conservata presso l'Istituto di Geologia dell'Università di Roma in 600 esemplari) rimane parzialmente trascritto nei taccuini di viaggio dell'inglese Henry Tolley (proprietario di un altro campionario ora al British Museum).

Dei diversi campionari costituiti nell'Ottocento e conservati in pubbliche istituzioni si segnalano a Roma: la Collezione Dodwell all'Istituto di Geologia dell'Università La Sapienza, comprendente 247 reperti riuniti nel 1832; la Collezione Pio de Santis formata nel 1850, costituita da 60 campioni, e la Collezione Federico Pescetto che risale al 1870 e che si compone di 1036 esemplari di m. fra antichi e moderni, acquistate dal Servizio Geologico d'Italia; la Collezione Pietro Podesti (1297 pezzi) e la Collezione Filippo Scalzi (420 campioni) al Dipartimento di Scienze dell'Antichità dell'Università La Sapienza; la Collezione Grassi (650 reperti) al Museo Nazionale Romano. A Milano la Collezione Borromeo presso il Museo Civico di Storia Naturale comprende 800 campioni. A Siena la Collezione Pietro Rocchi è conservata all'Accademia dei Fisiocritici e presso il Museo Archeologico di Berlino si conserva la Collezione Alceo Feliciani (812 esemplari), presentata all'Esposizione Universale di Vienna nel 1873. La fortuna delle pietre ornamentali, pur tra alterne vicende, non è mai cessata; l'opera di R. Gnoli delinea la storia del loro impiego e del connesso commercio, delle collezioni e degli studi fino ai nostri giorni.

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