MARQUARDO di Annweiler

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

MARQUARDO di Annweiler

Berardo Pio

MARQUARDO (Markward) di Annweiler. – Nacque intorno al 1140 da una famiglia, forse originaria del Palatinato, di cui non si hanno significative notizie; i nomi dei genitori non sono noti. Grazie a capacità militari e politiche fuori dal comune, pur essendo di condizione servile, M. – che in un documento del settembre 1185, redatto a Liegi, compare per la prima volta come siniscalco del re di Germania (dapifer regis, cfr. Regesta Imperii, p. 7 n. 4b) – fece una brillante carriera al servizio di Enrico di Svevia, figlio dell’imperatore Federico I Barbarossa.

Nel biennio 1186-87 seguì in Italia Enrico, impegnato nella campagna per l’occupazione dei territori pontifici; nel 1189 partecipò alla crociata guidata dal Barbarossa e nell’inverno del 1189-90, insieme con Bertoldo di Kunigsberg e Marquardo di Neuenburg, prese parte all’ambasceria presso la corte bizantina che convinse il basileus Isacco II Angelo, di fronte alla prospettiva di un attacco contro Costantinopoli, a fornire viveri e navi per consentire all’esercito crociato di attraversare i Dardanelli. Dopo l’improvvisa morte dell’imperatore (10 giugno 1190) e la drammatica conclusione della crociata, che giunta ad Acri aveva perso (gennaio 1191) anche Federico V duca di Svevia, fratello di Enrico, subentrato al padre nel comando dell’esercito, M. rientrò in Europa e tornò al servizio di Enrico di Svevia, che nel frattempo era stato incoronato imperatore. Il 29 febbr. 1192, a Hagenau, sottoscrisse un documento imperiale con il titolo di dapifer de Annewilre (ibid., p. 85 n. 207), assumendo per la prima volta il nome della località vicina al castello imperiale di Trifels, dove probabilmente possedeva beni feudali insieme con il fratello Corrado.

Nell’estate del 1194 M. ottenne l’appoggio di Genova e Pisa alla spedizione per la conquista del Regno normanno e comandò la flotta fornita dalle due città, contribuendo in maniera determinate alla felice e rapida conclusione dell’impresa.

In breve tempo, grazie ai successi militari e diplomatici, si affermò come principale strumento della politica sveva in Italia, al punto che, nei primi mesi del 1195, Enrico VI gli concesse la libertà personale e il governo del Ducato di Ravenna e della Marca di Ancona, territori sottratti al dominio della Chiesa che garantivano i collegamenti lungo la fascia adriatica tra l’Italia settentrionale e il Regnum meridionale. Nell’autunno dello stesso anno ottenne la contea di Aprutium (l’Abruzzo teramano tra il Tronto e il Vomano) e nell’anno successivo fu investito anche della contea di Molise. Sempre nel 1196, per aver favorito i tentativi di raggiungere un accordo tra Francia e Inghilterra, ottenne dal sovrano francese Filippo II Augusto il feudo di Leberau (Lièpvre), in Alsazia.

Nella primavera del 1196 guidò un corpo di spedizione tedesco attraverso le Alpi e, giunto a Torino, vi attese l’imperatore Enrico VI. Sul finire dello stesso anno, insieme con Alberto da Vercelli, Corrado di Urslingen e altri membri della corte imperiale, partecipò all’ambasceria che cercò invano di ottenere dal pontefice Celestino III il riconoscimento dell’ereditarietà del titolo imperiale. Nel maggio 1197, insieme con Enrico di Kalden, represse duramente una rivolta esplosa in Sicilia contro l’imperatore sconfiggendo i ribelli a Paternò, nei pressi di Catania.

La prematura morte di Enrico VI (28 sett. 1197) determinò un radicale mutamento del quadro politico: M. raccolse le ultime volontà dell’imperatore, presentate come testamento e tramandate in maniera frammentaria nei Gesta Innocentii, dalle quali emerge la preoccupazione di conservare l’unione tra la Corona di Germania e quella siciliana e di assicurare la successione al piccolo Federico.

Per il conseguimento di tali obiettivi l’imperatore si era mostrato disposto a concessioni importanti: il riconoscimento dei diritti pontifici sul Regno di Sicilia, la cessione al pontefice dei beni appartenuti a Matilde di Canossa e il riconoscimento della sovranità della Chiesa sulle circoscrizioni concesse in feudo a M.: il Ducato di Ravenna, la terra di Bertinoro e la Marca di Ancona.

Nel frattempo l’imperatrice Costanza d’Altavilla, che aveva assunto la reggenza per conto del figlio Federico, ordinò a tutti i cavalieri tedeschi di lasciare il Regno e di non farvi ritorno senza un suo esplicito consenso. M., date le disposizioni per il governo della contea di Molise, cercò di consolidare la sua posizione in Italia centrale, proprio nel momento in cui Innocenzo III avviava la politica di recupero delle regioni sottratte al governo della Chiesa. Il pontefice vedeva fondatamente in M. – «vir ingeniosus et subdolus» (Gesta Innocentii, col. XXIII) che controllava ampie regioni pontificie, era legato al partito imperiale degli Hohenstaufen e pretendeva di assumere la reggenza e la tutela di Federico – il principale ostacolo per la realizzazione del suo disegno politico. Innocenzo III riprese la politica antitedesca di Celestino III, che in più occasioni, nel biennio 1196-97, aveva incitato nelle Marche l’opposizione al dominio di M., e nel marzo 1198 inviò lì due legati, i cardinali Cinzio e Giovanni, per sostenere le città romagnole e marchigiane che il 2 febbraio, a Ravenna, avevano costituito una societas, vera e propria alleanza militare in funzione antitedesca.

Nonostante la scomunica, pronunciata dai due legati e confermata dal pontefice nel marzo 1198, M. inflisse una pesante sconfitta agli avversari presso la pieve di S. Cristina (25 marzo 1198), ma in breve si trovò completamente isolato e fu assediato in Cesena, unica città romagnola chiaramente schierata dalla sua parte, che per questo motivo era stata colpita dall’interdetto pontificio. La strenua difesa della città (maggio-agosto) rese evidente l’impossibilità di proteggere il distretto cesenate: M., per non alienarsi il favore dei suoi sostenitori, pesantemente colpiti nei loro interessi economici, decise di abbandonare Cesena e di tentare un attacco contro Rimini. La tenace resistenza della città adriatica segnò la fine del dominio di M. in Romagna: egli preferì abbandonare l’Italia centrale e, dopo una breve sosta nelle Marche, sul finire del 1198 si diresse verso il Regno.

La possibilità di un suo ritorno in Italia meridionale, nell’autunno del 1198, spinse l’imperatrice Costanza a dichiararlo nemico del Regno e a proibire qualsiasi rapporto con lui. Dopo la morte di Costanza (tra il 27 e il 30 nov. 1198), Innocenzo III assunse la reggenza (balium) e la tutela di Federico, che aveva appena quattro anni, e individuò immediatamente in M. – indicato in più occasioni come «Dei et ecclesiae inimicus» e «persecutor regni» (cfr. Die Register, I, pp. 805, 812, 829) – il pericolo maggiore per la salvaguardia dei diritti della Chiesa romana sul Regno di Sicilia. Appresa la notizia della morte di Costanza, M. rientrò nel Regno attraverso il Molise, cercò di coordinarsi con altri capitani tedeschi rimasti in Campania, in particolare con Dipoldo di Schweinspeunt, e rivendicò la reggenza e la tutela di Federico in base a una presunta disposizione testamentaria di Enrico VI. Nei primi mesi del 1199 invase la Terra di Lavoro, conquistò e devastò San Germano, assediò il monastero di Montecassino; il pontefice inviò in soccorso dell’abbazia il rettore della Campagna, Lando di Montelongo, e promise l’indulgenza della crociata a quanti avessero combattuto contro M. (20 febbr. 1199), ma l’assedio dell’abbazia ebbe termine solo grazie a una consistente somma di denaro versata a M. dall’abate Roffredo.

Il 28 maggio 1199 i principi tedeschi che l’anno prima avevano eletto re di Germania Filippo di Svevia invitarono il pontefice a sostenere l’azione di M., indicato ancora come siniscalco imperiale, marchese di Ancona e duca di Ravenna, ma anche come procurator del Regno di Sicilia: grazie a questo riconoscimento M., che già nell’agosto dell’anno precedente, prima della morte di Costanza, aveva riconosciuto come suo signore il sovrano svevo, poteva presentarsi come il difensore degli interessi degli Hohenstaufen nell’Italia meridionale. Nell’agosto del 1199 M. cercò di raggiungere un accordo con il pontefice: incontrò a Veroli tre legati pontifici – Ottaviano de’ Conti, cardinale vescovo di Ostia, Guido Papareschi cardinale prete di S. Maria in Trastevere e Ugolino dei conti di Segni, cardinale diacono di S. Eustachio, futuro papa con il nome di Gregorio IX – e, dopo turbolente trattative, rinunciò alla reggenza, promise di non attaccare le terre della Chiesa e di non invadere il Regno e fu assolto dalla scomunica. Nonostante le promesse, M. riprese subito le ostilità in Campania e, dopo appena una settimana, fu nuovamente scomunicato dal pontefice.

Nell’ottobre 1199 si imbarcò a Salerno, sulle navi messe a disposizione dal genovese Guglielmo Grasso, sbarcò in Sicilia, nei pressi di Trapani, conquistò il sostegno della popolazione e rivendicò la reggenza e la tutela degli interessi del giovane sovrano svevo. Il pontefice, che aveva intuito la pericolosità della nuova iniziativa di M., il 24 novembre indirizzò una lettera rovente ai Siciliani nella quale lo accusava di aver cospirato contro la sicurezza del Regno, di aspirare alla corona, di essersi alleato con gli infedeli saraceni per opprimere i cristiani e promise nuovamente, a quanti avessero combattuto contro il nuovo Saladino, gli stessi privilegi accordati ai crociati che combattevano per la liberazione del S. Sepolcro. Nel marzo 1200 un esercito di 200 cavalieri mercenari assoldati da Innocenzo III e guidati dal marescalcus Giacomo, cugino del pontefice, sbarcò in Sicilia con l’intenzione di cacciare dall’isola M., che da circa venti giorni era impegnato nell’assedio di Palermo, difesa da Gentile di Palearia conte di Manoppello. Il piccolo esercito papale giunse nei pressi della capitale del Regno il 17 luglio e si unì con l’esercito regio assediato in Palermo; il 21 luglio si scontrò con le truppe nemiche vicino a Monreale e, dopo una lunga e incerta battaglia, riportò una inaspettata vittoria, costringendo M. a togliere l’assedio e ad abbandonare tutte le sue salmerie, compreso uno scrigno che custodiva il presunto testamento di Enrico VI.

Poco tempo dopo M. subì una seconda sconfitta a Randazzo, nei pressi di Taormina, ma i rappresentanti del pontefice non seppero approfittare delle due vittorie: M. riuscì a mantenere il controllo di buona parte dell’isola e nell’autunno del 1200 concluse un’alleanza con il cancelliere Gualtieri di Pagliara, timoroso del favore accordato dal pontefice al genero di Tancredi d’Altavilla, Gualtieri di Brienne, giunto nel Regno per rivendicare la contea di Lecce e il Principato di Taranto; il cancelliere lasciò a M. il controllo dell’isola, salvo la capitale Palermo e la persona di Federico, che furono affidate alla custodia del conte Gentile di Pagliara, che era fratello del cancelliere.

Nell’autunno del 1201, mentre l’esercito di Gualtieri e di Dipoldo di Schweinspeunt veniva pesantemente sconfitto a Canne dalle forze di Gualtieri di Brienne (22 ottobre), M., fermamente intenzionato ad assumere il controllo dell’intera Sicilia, assediò e conquistò Palermo; quindi, con un abile colpo di mano, si impadronì della fortezza di Castellammare (1° novembre) dove Gentile di Pagliara, che nel frattempo era riparato a Messina, aveva fatto ritirare il piccolo Federico. Verso la metà di settembre del 1202, mentre si apprestava a occupare Messina, l’unica città dell’isola non ancora sottomessa al suo potere, M. si ammalò e morì a Patti.

Sulla famiglia di M. si hanno poche notizie: una figlia, di cui non è noto il nome, sposò un figlio del conte toscano Guido Guidi (Guido Guerra [III]); il figlio Dietrich, morto prima del 1216, ereditò i beni feudali acquisiti da M. in area tedesca, situati soprattutto nel Palatinato.

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