MARTINO I d’Aragona, re di Sicilia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MARTINO I d’Aragona (Martino il Giovane), re di Sicilia

Salvatore Tramontana

Figlio di Martino, detto il Vecchio, allora conte di Montblanc, e di Maria de Luna, figlia del conte Lope, nacque nel 1376. Non è noto il luogo di nascita, che probabilmente è Bellesguart, nei pressi di Barcellona, dove i genitori erano soliti trascorrere lunghi periodi. La più antica notizia su M. risale al 1382, quando, di fronte al netto rifiuto del fratello maggiore di Martino il Vecchio, Giovanni, di sposare Maria, figlia di Federico IV ed erede al trono di Sicilia, si conveniva di darla in moglie a M., che aveva 6 anni.

La situazione di Sicilia, gestita da quattro vicari, era molto complicata. A distanza di cinque anni dalla morte di Federico IV (1377) che nel testamento aveva indicato come erede universale l’unica figlia, di 14 anni, la successione non riusciva a imporsi. Suscitava anzi reazioni, ostilità, speranze e intrighi in Francia, a Napoli, a Roma, in Aragona e nella stessa isola, dove ciascun componente il vicariato tentava di prevalere sugli altri e di legittimare la propria supremazia con l’autorità nominale che derivava dalla giovane regina, della cui persona, del cui sangue reale, della cui fecondità tutti si contendevano il controllo e la subordinazione.

La sottrazione di Maria all’influenza del gran giustiziere Artale Alagona, la figura prevalente fra i vicari del Regno cui era stata affidata la tutela della giovane, e il successivo travagliato trasferimento di Maria – rapita da Guglielmo Raimondo (III) Moncada il 23 genn. 1379 per volere di Pietro IV – prima a Licata e Augusta, poi a Cagliari, infine a Barcellona, rafforzava le pretese della Corona d’Aragona. M. e Maria si sposarono a Barcellona nel 1391. Tutto il baronaggio percepiva il pericolo di quella nuova situazione e, su sollecitazione di Bonifacio IX, si riunì nella chiesetta rurale di S. Pietro, sulle rive del Platani, nei pressi di Castronuovo, dove, il 10 luglio 1391, fu ridefinita un’alleanza, si confermò la fedeltà alla regina Maria, si revocò qualsiasi patto concluso con il sovrano d’Aragona e con Martino il Vecchio.

Zurita (c. 51) parla di convergenza unanime delle forze baronali, ma subito dopo l’incontro emersero invece comportamenti ambigui che impedirono il coagularsi di un fronte unico contro le pretese aragonesi. Non sono poche infatti le testimonianze su una fitta trama di rapporti fra ambienti vari di Sicilia e Martino il Vecchio. Il quale, con accorta e concreta politica, nel dichiararsi disponibile a garantire ai baroni i privilegi e i diritti conseguiti nel tempo, mirava a sfaldare l’unione sancita a Castronuovo e a conquistare la fiducia delle città. Così il 22 marzo 1392 M. I, il padre e Maria, con una flotta di circa 100 navi, sbarcarono a Favignana e il giorno successivo a Trapani da dove Martino il Vecchio, insieme con un’armata di circa 2000 uomini, marciò verso Palermo.

La situazione in Sicilia presentava però aspetti oscuri, meno facilmente interpretabili di quanto i primi e talvolta affrettati accordi avessero potuto far pensare. A opporre aspra resistenza erano specialmente gli Alagona, i Chiaramonte e la città di Palermo, in un contesto in cui anche il clero, condizionato dall’adesione del Regno d’Aragona al Papato avignonese, andava intensificando la propaganda contro i nuovi sovrani. Dopo alcuni scontri, nel 1392 l’armata aragonese riuscì a catturare Andrea Chiaramonte, conte di Modica, che, processato e riconosciuto colpevole di lesa maestà, fu decapitato. La tragica sorte di Chiaramonte e la dispersione della sua famiglia apparivano però troppo minacciose perché non si corresse ai ripari. Se ne incaricò Artale Alagona che, approfittando delle ripercussioni nell’isola dello scisma e della dura presa di posizione antiaragonese del vescovo di Catania Simone Del Pozzo, costrinse l’armata a difendersi in pochi centri fortificati. In questa drammatica situazione scricchiolavano i rapporti fra quanti si erano dati da fare per concretizzare il matrimonio di Maria con M. e per far apparire lo sbarco aragonese nell’isola non come l’invasione di uno straniero, ma come l’arrivo di chi riportava ai Siciliani i loro sovrani. Le vicende dello scisma e della successione a Clemente VII di Benedetto XIII (Pietro de Luna, zio di M.) giocavano a favore del fronte aragonese. In Sicilia del resto mancava, a quanti erano impegnati in una difesa a oltranza delle posizioni di privilegio guadagnate durante il vicariato, la capacità di una elaborazione efficacemente coordinata e di tradurla in pratica nel contesto di una visione politica generale.

Il successo della spedizione fu raggiunto alla fine del 1396 grazie all’abile politica intessuta dal padre di M., il quale appoggiandosi alle città contro i baroni e sostenendo feudatari contro altri feudatari, garantì il controllo aragonese di gran parte dell’isola. In seguito Martino il Vecchio, succeduto nel frattempo al trono d’Aragona per la morte di suo fratello Giovanni I (19 maggio 1396), affidò a M. la Sicilia, istituì un Consiglio di 3 membri presieduto da Jaime de Prades e composto da Guglielmo Raimondo (III) Moncada, da Ughetto Santapau e da Pietro Serra, arcivescovo di Monreale assai vicino a Benedetto XIII, e rientrò a Barcellona, dove, il 27 maggio 1397, dopo il giuramento alle Cortes, cinse la corona. La partenza di Martino il Vecchio, che di fatto governava la Sicilia, non modificò formalmente la struttura politico-istituzionale del Regno, ma indebolì notevolmente la funzione mediatrice della Corona. Tanto più che con lui avevano lasciato l’isola i più esperti e fedeli funzionari di corte. M. I, che era anche diventato l’infante d’Aragona, aveva 21 anni e mancava non solo degli espedienti e delle astuzie della politica empirica e degli accorgimenti diplomatici che l’invadenza del padre gli aveva impedito di acquisire, ma dell’energia, della lucidità critica e costruttiva, della sintesi di ampio raggio che avevano caratterizzato l’accorta flessibilità politica paterna.

La tradizione, confermata dalle fonti scritte, consegna del resto l’immagine di un «re adolescente che, vivace, leggiero, tutto lieto della regia consorte e del novello reame, pavoneggiantesi in armi e capace di affrontare con disprezzo i pericoli […], era scarso però di esperienze e di senno suo proprio» (La Lumia). Un’immagine che si arricchisce di spessore più intenso e più incisivo, comunque più immediato e più convincente, nella rappresentazione offerta da due miniature: senza nome e vestito da guerriero nel Rotlle genealogie dels reys catalans, conservato nel monastero di Poblet, con abiti da monarca nei Privilegia urbis Panormi (Palermo, Biblioteca comunale, Mss., Qq.H.125, c. 146), dove è appunto raffigurato nei panni reali le cui tonalità cromatiche, marcate dal verde, ricevono significazione simbolica e forza comunicativa dal luccichio di una spada sguainata e di un pugnale ingemmato che accrescevano la maestà e lo splendore del sovrano guerriero, ne fissavano l’indole, l’esuberanza, la vivacità.

Dopo la partenza del padre, M. I si venne a trovare in un territorio in cui, cessata l’emergenza militare, bisognava consolidare la conquista e rafforzare la monarchia non solo sul piano politico e istituzionale, ma anche su quello amministrativo, simbolico, comunicativo. E in tal senso, nel contesto di una continuità con la politica di pacificazione del padre, nel febbraio 1398 convocò un Parlamento a Catania col fine precipuo di avviare la riorganizzazione del Regno. Nel Parlamento infatti – costituito da baroni, ecclesiastici e città, cioè dai cosiddetti tre bracci i cui membri, in fondo, più che partecipare alla gestione del potere si limitavano a sorreggerlo – il sovrano emanò 12 constitutiones tese ad affermare l’autorità regia su alcuni principî fondamentali relativi all’amministrazione della giustizia, all’andamento della vita cittadina, ai doveri degli ufficiali, alla circolazione monetaria.

Norme strettamente connesse al buon funzionamento della monarchia e ispirate tutte da Martino il Vecchio, come sembrerebbe confermato anche dalla intitolazione delle singole constitutiones, in ognuna delle quali si legge «Dei gratia rex Aragonum, et Martinus et Maria eadem, gratia rex et regina Siciliae […] et in solio omnes tres consedentes, conregentes et conregnantes» (Capitula Regni Siciliae, p. 151). Confermato cioè da una intitulatio che, nel porre in risalto, nei documenti regi, la presenza del sovrano d’Aragona sempre affiancato a M. I e a Maria, evidenzia, in nuce, la riunione delle due corone secondo il progetto di Pietro IV: infatti arbitro indiscusso della politica interna ed estera di Sicilia rimaneva Martino il Vecchio. La coreggenza – registrata dagli atti di Cancelleria, documentata fin nei dettagli dalla corrispondenza tra padre e figlio, riferita dalle cronache – continuava a essere vitale e operativa. Al padre, infatti, si rivolgevano i sudditi, ed era appunto il sovrano d’Aragona a dialogare con la classe dirigente dell’isola, a impartire ordini, sia pure a nome di M. I, a prendere decisioni sui beni demaniali, a intervenire sulle questioni ecclesiastiche, a ribadire la persistente validità della legazia apostolica, a imporre le sue scelte di politica estera, a mediare le contrapposizioni fra nobili siciliani e nobili catalani soprattutto per quel che si riferiva alle concessioni dei beni feudali confiscati ai baroni ribelli. Come, per esempio, durante la rivolta di Guglielmo Raimondo Moncada e di altri baroni che, pur del seguito di M. I, non ne approvavano le scelte di fondo. Rivolta domata, o comunque circoscritta, dal tempestivo intervento di Martino il Vecchio che, ancora una volta, rivelava un atteggiamento sensibile alla considerazione realistica e spregiudicata dei fatti.

Sul problema dei rapporti con i baroni da una parte, con le città dall’altra, il quadro politico rimaneva comunque assai nebuloso e incerto. Al di là delle dichiarazioni di principio e delle tendenze accentratrici di restaurazione monarchica, la disinvolta distribuzione di benefici patrimoniali, che aveva fatto salire a 420 il numero dei feudatari, evidenzia la difficoltà in cui si muoveva M. I, costretto, per portare a compimento la sua opera, a servirsi del sostegno baronale.

Del resto l’individuazione – anche attraverso una collazione attenta e minuta fra la Descriptio feudorum, datata forse impropriamente 1296, e la Recensio del 1408 – dei nomi dei singoli baroni, la ricostruzione delle unità familiari, il radicamento delle rispettive sedi territoriali, la puntualizzazione del farsi e del disfarsi delle varie consorterie, offrono uno spaccato della consistenza patrimoniale e della funzione militare e politica della feudalità di quegli anni (cfr. Costa). Cioè di una situazione in cui M. I era costretto a legalizzare usurpazioni e abusi e a riconoscere, sia pure attraverso una politica attenta al mutare dei rapporti di forza anche in connessione a quanto accadeva nei centri urbani, che protagonista delle vicende interne dell’isola continuava a rimanere l’aristocrazia. Con le città comunque M. I stabilì un colloquio teso sia a rendere impraticabili eventuali convergenze tra feudalità e centri urbani, sia a ricostruire il Fisco e il Demanio regio usurpato. Anche se va precisato che la corte, genericamente disponibile ad approvare i capitoli con le richieste cittadine, era di fatto assai guardinga nell’evitare, dove possibile, che quelle concessioni, e soprattutto le pratiche di ricostituzione del Demanio regio, sacrificassero gli interessi dei baroni. E da ciò la necessità di M. I, sollecitato dal padre a non cadere nel cono d’ombra delle città, a ricorrere al sostegno dei baroni che, piacesse o meno, continuavano a rimanere componente fondamentale, prioritaria, ineliminabile di ogni assestamento politico.

Per intendere comunque nelle sue molteplici sfumature il carattere e la funzione dell’esperienza politica di M. I non si può non tener conto del suo impegno culturale. Il quale, oltre che talune scelte di gusto e di stile, suggerisce la volontà del giovane sovrano di introdurre, anche nel tessuto edilizio delle città, un ordinato sistema di impianto urbano.

Basti ricordare sia la prammatica dell’11 sett. 1406 con la quale da Catania M. I, nel volere regolamentare la speculazione che caratterizzava la disordinata crescita edilizia nei centri urbani, fissò precise norme sui criteri di edificabilità e sugli espropri per costruire «edifici ad abbellimento della città» (La Mantia, 1993), sia le disposizioni del 7 genn. 1407 con le quali si stabilivano taluni criteri sulle misure dei carri e sulla loro velocità all’interno delle vie cittadine «per evitare danni alle case e alle strade» (Giuffrida, p. 1).

La sensibilità culturale di M. I e il forte e generoso sentire per ogni forma di conoscenza sono d’altronde testimoniati oltre che dalla lettura dei classici e della Bibbia (Beccaria, 1993, pp. 17-19), dal piacere di circondarsi di letterati, artisti, musicisti.

Da un documento della Cancelleria si ricava, per esempio, che un tal maestro Perriconio «dominum regem docebat sonare arpam» (ibid., p. 122) e dal poemetto in terzine di Andrìa di Anfusu sull’eruzione dell’Etna dedicato alla regina Bianca di Navarra (dal 1402 moglie di M. I) si attesterebbe una produzione letteraria legata alla corte (cfr. Cusimano). Come testimonia, per esempio, la presenza, tra i funzionari regi, di Andreu Febrer, traduttore in lingua catalana della Commedia (cfr. Bruni). Funzionari scelti, d’altronde, con particolare cura come si ricava dall’incremento degli studi di «grammatica» (cfr. Tramontana, 1964-65, pp. 10 s.) e soprattutto di quelli giuridici (cfr. Romano) e dalla concessione di sussidi per consentire ai giovani di frequentare talune qualificate università dell’Italia Centrosettentrionale.

Varie volte e da più parti, accanto a un indefinito proposito di rinnovamento di M. I, è stato sottolineato il suo carattere ambiguo, frivolo e dissipatore soprattutto per quel che si riferiva all’insostenibile pressione sull’indebitamento del Tesoro regio. Sul quale gravavano, vistosi e distraenti, le partecipazioni del sovrano alle feste che spesso tendevano a confondersi con quelle religiose, l’affezione al costoso ed elegante abbigliamento foderato d’ermellino e ricamato d’oro, l’attaccamento al lusso e allo sfarzo della corte, per le tavole imbandite, per i cerimoniali, per gli intrattenimenti musicali.

Quel che però emerge è la passione di M. I per le spade ingemmate e per le armature elaborate e dispendiose fabbricate in Oriente, per il gioco detto della zara, per i tornei cavallereschi fra i quali, preferito, quello della balestra e soprattutto l’inclinazione per i tanti amori che percorrevano il nucleo più vivo del suo temperamento. Le fonti registrano l’indeterminato fermento della sua vita affettiva e, accanto a un’abituale indifferenza per la regina Maria, si coglie la passione per le catanesi Tarsia Rizzari e Agatuccia de’ Pesci delle quali, insieme con i figli con loro avuti, il sovrano si ricordò nel testamento. Se si deve poi credere al fascino delle leggende circolate dopo la sua morte, una particolare angolazione di lettura di talune fonti permetterebbe di condividere quanto riferito da Zurita (c. 88) sulla «folle passione» per la «bella di Sanluri» (cfr. Boscolo, 1958).

Il 25 maggio 1401 la regina Maria morì a Lentini senza figli – l’unico avuto dopo 9 anni di matrimonio, Pietro, era morto ancora bambino – e senza l’assistenza del marito che, da Catania, si limitò a programmare i funerali e a darsi da fare per salvaguardare la legittimità istituzionale della Corona. Su Maria poggiava infatti il fondamento giuridico della legittimità successoria nel Regno di Sicilia. L’abilità diplomatica di Martino il Vecchio e la sua spregiudicatezza politica riuscirono comunque ad appianare le controversie, anche perché, in base alle rivendicazioni dinastiche della Corona d’Aragona, ormai di fatto riconosciute da tutti, M. I non era considerato un principe consorte ma un sovrano che, per giunta, la fragilità degli equilibri politici facevano apparire intoccabile. Quel che però andava subito affrontato era un nuovo matrimonio, nella speranza che fosse fecondo. Dopo lunghe e complicate trattative, Martino il Vecchio, malgrado le non poche resistenze del figlio e di taluni ambienti siciliani particolarmente vicini alla corte, impose il matrimonio con Bianca, figlia del re di Navarra Carlo III. Scelta suggerita, spiegava il re d’Aragona in una lettera al figlio, da «moltes notables raons que serien de longa scriptura», ma soprattutto dal fatto «que la dita Infanta es molt bella e molt savia e andreçata e dotata de totes virtuts», da non aver uguali fra le nobili fanciulle in età da marito (cfr. Girona i Llagostera, 1909). Il matrimonio, celebrato per procura il 21 maggio 1402 a Catania mentre Bianca era ancora a Valencia, venne sacralizzato il successivo 26 novembre, dalla solenne incoronazione nella cattedrale di Palermo e da un atto di fedeltà dei sudditi.

Neanche da questo matrimonio vennero eredi. Un bimbo nato il 19 dic. 1406 morì nell’agosto dell’anno successivo gettando nel panico sia il re di Navarra sia quello d’Aragona. Sulla Sicilia d’altronde gravava una quiete incerta.

La precarietà grigia e opaca della vita coniugale di M. I sembrava coincidere con quella generale del Regno, dove monarchia, baronaggio e città si erano accostati e giustapposti senza conciliarsi e tanto meno integrarsi. Le convergenze – tenute insieme da interessi contingenti e mutevoli e segnate da reciproche diffidenze – erano fluide, frastagliate, caratterizzate da contraddizioni difficili da comporre con le tradizionali categorie politiche della Corona d’Aragona. Martino il Vecchio era preoccupato per la continua alienazione di beni demaniali, per il ruolo sempre più invasivo delle componenti militari, per l’eccessivo dilatarsi del potere feudale, per le disfunzioni fiscali e l’insufficienza delle disponibilità finanziarie, per lo scarso impegno politico del figlio e per il suo sostanziale disinteresse per la gestione dello Stato (cfr. Zurita, c. 76).

La situazione fu resa ancora più precaria dalla scelta intempestiva, a parere del sovrano aragonese, dell’intervento militare in Sardegna che M. I non aveva più voluto rinviare. Un intervento sostenuto da quanti, fra gli aristocratici, lo ritenevano utile «per allontanare dalla Sicilia, con la speranza di nuove terre, la feudalità scontenta, fomentatrice di contrasti e di disordini» (Boscolo, 1962, p. 73), ma il cui peso sarebbe gravato tutto sul Tesoro regio e sulle risorse isolane. Come è testimoniato non tanto da Zurita (c. 13), che si sofferma su un generico stato d’animo delle popolazioni contrarie a un’impresa ritenuta senza vie d’uscita, ma dalla concretezza di un prestito di 2000 onze contratto da M. I con mercanti italiani ed ebrei, di nuove imposte, del blocco dei pagamenti di Tesoreria, della forzata vendita delle tratte, dell’utilizzo dei gioielli lasciati dalla madre morta il 20 dic. 1406. Il 3 ott. 1408, affidata la reggenza a Bianca, M. I salpò da Trapani con 10 galee e un’armata nella quale erano presenti meno siciliani e più catalani residenti in Sicilia. Sbarcato il 6 ottobre a Cagliari, nell’aprile 1409 il sovrano di Sicilia era pronto allo scontro. Che avvenne il 1° luglio nei pressi del castello di Sanluri, dove M. I sbaragliò l’esercito dei ribelli e si impossessò del loro stendardo, inviato subito al padre perché lo esponesse, in segno di ringraziamento, nella cattedrale di Barcellona. Nella cattedrale di Barcellona, appunto, non in quella di Palermo, non solo per affermare simbolicamente il suo disimpegno dalla Sicilia e l’appartenenza all’Aragona, della cui Corona era del resto l’infante, ma per indicare o addirittura confermare qualcosa di assai più profondo: la fine dell’indipendenza di Sicilia e l’unione dinastica con la Corona d’Aragona. Sancita d’altronde dalla clausola del testamento con la quale, il giorno prima di morire, M. I designò il padre suo erede universale anche per il Regno di Sicilia, le isole adiacenti e il Ducato di Atene e Neopatria «cum omnibus regalibus, jurisdictionibus et pertinentiis universis» (Starrabba, Testamento, p. 425).

M. I morì di malaria a Cagliari il 25 luglio 1409; con lui tramontava per la Sicilia «la speranza di essere governata da una propria dinastia» (Pispisa, p. 334).

Le fonti non sembrano registrare nell’isola particolari e concrete forme di protesta ma evidenziano piuttosto un senso di impotenza, di diffusa rassegnazione. Solo Messina fece inserire, in un privilegio a essa accordato nel 1410, la speranza che il dominio di Martino il Vecchio sulla Sicilia fosse almeno considerato unione personale e non sottomissione dell’isola al Regno d’Aragona (Giardina, pp. 181 s.).

Fonti e Bibl.: I documenti inediti sull’età dei due Martino sono ancora numerosi, gran parte dei quali conservati nell’Arch. di Stato di Palermo, nel fondo della Real Cancelleria e Protonotaro del Regno; altra documentazione è conservata a Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón.

Palermo, Biblioteca comunale, Mss., Qq.D.47, cc. 94-96v: Una deposizione di testimoni per quello che occorse tra Bernardo Cabrera e la regina Bianca, vicaria del Regno; Qq.H.125, c. 146: Privilegia urbis Panormi; Capitula Regni Siciliae, a cura di F. Testa, I, Panormi 1741, pp. 151-188; R. Starrabba, Documenti riguardanti la Sicilia sotto re M. I, esistenti nell’Arch. della Corona d’Aragona, in Arch. stor. siciliano, III (1876), pp. 137-176; Id., Testamento di M., re di Sicilia, ibid., pp. 423-451; P. Tomic, Historias e conquestas dels excellentissims e catholics reys de Aragó, Barcelona 1886, pp. 251-259; R. Starrabba, Lettere e documenti relativi al vicariato della regina Bianca di Navarra: 1411-12, in Documenti per servire alla storia di Sicilia, s. 1, X, Palermo 1888; G. La Mantia, Documenti inediti in lingua spagnola in Sicilia: 1381-1409, Palermo 1899; F. 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