FRANZONI, Matteo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 50 (1998)

FRANZONI, Matteo

Giovanni Assereto

Nacque a Genova il 2 ott. 1682 da Stefano e Maddalena Pozzo e il 24 marzo dell'anno seguente fu battezzato nella chiesa di S. Matteo con i nomi Giovanni Matteo Francesco Maria. Ascritto al Liber nobilitatis il 5 dic. 1701, aveva nel frattempo ricevuto gli ordini minori e compiuto una scelta a favore del celibato cui sarebbe rimasto fedele per tutta la vita. Ma la sua passione precoce, più che la religione, fu la poesia, alla quale si dedicò in un'epoca in cui il patriziato genovese - al contrario di quanto era accaduto nel pieno Seicento - contava tra le proprie file pochi letterati e delegava l'attività poetica a intellettuali "professionisti" appartenenti al ceto non ascritto. Proprio uno di questi, G.B. Casaregi, il 19 febbr. 1705 fondò a Genova la colonia ligustica d'Arcadia, nella quale il F. fu inizialmente l'unico aristocratico fra accademici che provenivano da "una classe intellettuale media legata all'ambiente clericale e rispondenti pienamente, per collocazione sociologica, al ruolo dell'arcade-tipo che il Crescimbeni veniva prospettando in quegli anni" (Beniscelli, p. 364).

I "compastori" genovesi, tra i quali il F. assunse il nome di Clorano Alesiceate e la dignità di vicecustode, si riunirono la prima volta "nel boschereccio soggiorno di Carignano di Maria Aurelia Spinola, alla quale i Nobili Spiriti consacrarono i loro primi saggi" (Mannucci, p. 23), pubblicati nella raccolta Prima ragunanza degli Arcadi della colonia ligustica (Genova 1705), dove sono compresi due sonetti del F., mentre altre sue poesie sarebbero apparse in analoghe raccolte del 1706, 1708, 1712, 1716, 1718, 1719: le ultime quattro in onore dei dogi di quegli anni.

L'Arcadia genovese fu un'esperienza poco innovatrice, appiattita sulla celebrazione dello status quo e della classe dirigente: prova ne sia che poco dopo la fondazione, nel 1708, assunse come compito istituzionale e pressoché esclusivo la compilazione di serti poetici per le nozze dei patrizi e per l'elezione dei dogi. La presenza del F. al suo interno può dirsi comunque anticipatrice, visto che fra il 1705 e il 1718 molti nuovi poeti aristocratici si avvicinarono al gruppo del Casaregi: l'edizione 1718 del Catalogo generale degli Arcadi attesta che su 87 membri della colonia ligustica 41 appartenevano alle famiglie del patriziato. Ma se si considerano i poeti genovesi antologizzati in un circuito più ampio - nelle Rime degli Arcadi o nelle raccolte nazionali di B. Lippi (Rime scelte di poeti illustri dei nostri tempi, Lucca 1709), di A. Gobbi (Scelta di sonetti e canzoni dei più eccellenti rimatori di ogni secolo, Bologna 1709-14) e di T. Ceva (Scelta di canzoni…, Venezia 1756) - sono gli intellettuali borghesi a dominare, ed è perciò tanto più significativa la presenza di liriche del F. in tutte le suddette antologie.

La funzione conservatrice della colonia genovese risultò evidente anche sul piano poetico, quando essa rintuzzò le critiche che L.A. Muratori aveva mosso al Petrarca nella Perfetta poesia del 1703 e nelle Riflessioni sul buon gusto del 1708. Fu proprio il F., in una lettera al compastore A. Tommasi (Mannucci, pp. 24 s.), a esortare i "virtuosi amici" d'Arcadia a difendere il poeta aretino. L'invito venne accolto dal Tommasi stesso, dal Casaregi e da G.T. Canevari, i quali scrissero una Difesa delle tre canzoni degli occhi, e di alcuni sonetti e vari passi delle Rime di F. Petrarca (Lucca 1709) di cui la lettera del F. era parte integrante e che egli fece stampare a proprie spese. Un volume che testimonia - come tentativo di "opporre una difesa statica del modello-Petrarca a chi tentava un allargamento del gusto" (Beniscelli, p. 369) - il conservatorismo e i limiti culturali degli arcadi genovesi. Limiti evidenti anche nei parti poetici del F., che se ottennero spesso l'onore della pubblicazione, lo dovettero al rango e ai contributi finanziari dell'autore più che alla loro qualità letteraria.

Il F. andava intanto percorrendo il cursus honorum tipico d'un patrizio di gran nome e di buon patrimonio (la capitazione del 1762 gli assegna un posto intermedio ma pur sempre cospicuo fra le grandi ricchezze dei Durazzo o dei Brignole e le modeste sostanze dei nobili meno abbienti). Fu nei magistrati del Vino e del Sale, protettore di S. Giorgio e supremo sindacatore, incaricato dell'armamento contro i Barbareschi, presidente della deputazione per il marchesato di Finale, commissario del forte di Savona e commissario generale ad arma nella riviera di Levante. Nei Serenissimi Collegi entrò come procuratore nel 1724 e nel 1748, come governatore nel 1737.

Una carriera tanto prestigiosa quanto infausta, stando a un anonimo accusatore che scriveva nel 1748: "Nei magistrati ne' quali ha girato nel corso di sua vita, la Repubblica ha sofferto delle disgrazie, così converrà che i suoi eccellentissimi colleghi stiino attenti, acciò che dalla sua poca fortuna nuovamente non resti pregiudicata" (Levati, p. 42). In effetti la sua permanenza nelle varie cariche fu spesso accompagnata da inconvenienti e scelte discutibili. E la poca fortuna o lungimiranza del F. nel maneggio degli affari pubblici è d'altronde testimoniata dalla sua posizione in Minor Consiglio nel 1743, quando si trovò alla testa del gruppo che voleva l'alleanza con i Gallo-Ispani nella guerra di successione austriaca: quell'alleanza che, stipulata nel 1745, sarebbe costata alla Repubblica la sconfitta e l'occupazione.

Il 6 sett. 1746 Genova si arrese agli Imperiali del generale A. Botta Adorno, che le impose forti contribuzioni di guerra. Il F. fu allora designato per un'ambasceria a Vienna, che tuttavia non ebbe luogo. Nei giorni che precedettero la rivolta del Balilla si segnalò in Minor Consiglio come fautore di una linea intransigente nei confronti del Botta Adorno e di fedeltà verso gli alleati borbonici. Giunse a meditare, il 22 ottobre, un colpo di mano contro gli occupanti; e intanto fustigava i nobili che abbandonavano la città. Scoppiata poi il 6 dicembre l'insurrezione popolare, propose che il governo appoggiasse gli insorti, ma lo fece con l'ambiguità di molti del suo ceto, e già il 7 dicembre si adoperava per spegnere la rivolta affermando preoccupato: "Siamo tra due flagelli del popolo e de' Tedeschi" (Pandiani, p. 451). Non è un caso che il 12 dicembre i popolani di Recco, sospettando che avesse aiutato gli Austriaci, volevano dar fuoco a un suo palazzo in quella città.

Negli anni seguenti si segnalò per qualche presa di posizione conservatrice in Minor Consiglio: come quando nel 1754 si oppose a una lieve innovazione in tema di amministrazione periferica, affermando che "il corpo del governo non ha la constituzione di un principe asoluto" (Bitossi, p. 338), e quindi non poteva modificare le istituzioni. Fu forse questo tradizionalismo a favorire, in un regime sempre più chiuso in se stesso, la sua elezione a doge il 22 sett. 1758.

Si trattò d'un dogato impopolare e dispotico, perché il F., appoggiandosi a funzionari "non ascritti" e a persone "d'una vile estrazione", non radunava quasi mai il Senato ma "faceva lui tutto e da sé, comandando anche al di là della sua autorità" (Levati, p. 43), con decisioni bizzose come quella ricordata da F.M. Accinelli: "Il duce Matteo invaso dallo spirito di sua alterigia, per rendersi memorabile con qualche rispettevole azione fece ordinanza che i sacerdoti tutti, tanto secolari che regolari, si levassero la secreta, ossia cupolina, mentre passava per la città", e diede istruzioni in tal senso agli alabardieri del suo seguito; durante le processioni cui interveniva "sentivasi schiamazzare da essi alabardieri: leva berretta, leva berretta; onde fu da tutti denominato il doge leva berretta" (III, p. 28).

In realtà certi puntigli contro il clero avevano le loro ragioni, al pari della cattiva stampa che il F. trovò poi presso storici (Accinelli e Levati, appunto) che vestivano l'abito talare. Il suo dogato coincise infatti con una grave controversia fra Genova e la S. Sede, legata alla ribellione della Corsica e alla pretesa da parte della Repubblica di controllare la vita ecclesiastica dell'isola tramite vescovi e provinciali a essa fedeli, mentre la Curia e i generali degli ordini religiosi erano di diverso avviso. Nel 1759 si giunse all'espulsione da Genova e dai suoi domini di tutti i cappuccini. L'anno seguente, l'invio in Corsica d'un visitatore apostolico da parte di Clemente XIII fu interpretato dal governo della Repubblica come un appoggio implicito ai ribelli. Il F. tenne in quell'occasione un contegno duro verso il pontefice e fece emanare il 14 apr. 1760 un editto che prometteva 6.000 scudi a chi avesse catturato e consegnato alla Repubblica il visitatore apostolico.

Certo è che, quando il 22 ag. 1760 lasciò palazzo ducale, negli anonimi "biglietti dei calici" si trovò ogni genere di improperi all'indirizzo del F., accusato di avere forte volontà ma "aspro naturale", d'esser stato tanto tirannico quanto poco sollecito nel proprio ufficio. Si arrivò ad auspicare che i supremi sindacatori si pronunciassero contro di lui, e che venisse escluso dalla carica di procuratore perpetuo che spettava agli ex dogi. Invece passò il sindacato, anzi ebbe ancora uffici a dispetto dell'età avanzata: nel 1761 fu presidente del magistrato di Guerra, nel 1762 fece parte della deputazione alla Guardia dei confini, e dal 1766 di quella del Culto divino e dei monasteri.

Il F. morì a Genova l'11 genn. 1767, lasciando nel testamento un fedecommesso a favore di Matteo Andrea Franzoni secondogenito di suo nipote Stefano, e venne sepolto nella chiesa di S. Carlo in strada Balbi.

Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. universitaria, ms. B.1.50, c. 33r; Prima ragunanza degli Arcadi della colonia ligustica, Genova 1705, pp. 39 s., 51; G.M. Crescimbeni, Commentarj… intorno alla Istoria della volgar poesia, III, Venezia 1730, p. 291; F. Giano, Nella solenne coronazione del ser.mo M. Franzone doge…, Genova 1759; F.M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova…, III, Genova 1851, p. 28; G.O. Corazzini, Mem. stor. della famiglia Franzoni, Firenze 1873, pp. 85-91, 295-300; F.L. Mannucci, Il Petrarca in Arcadia, Genova 1905, pp. 22-24; L. Levati, I dogi di Genova dal 1746 al 1771…, Genova 1914, pp. 40-45, 284 s., 405 s.; E. Pandiani, La cacciata degli Austriaci da Genova nell'anno 1746, in Miscell. di storia italiana, s. 3, XX (1923), pp. 333, 340 s., 356, 367, 435, 442-444, 451 s.; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, pp. 340, 418 s.; S. Rotta, Documenti per la storia dell'illuminismo a Genova. Lettere di A. Lomellini a P. Frisi, in Miscell. di storia ligure, I (1958), p. 220; G. Guelfi Camaiani, Il "Liber nobilitatis Genuensis" e il governo della Repubblica di Genova fino all'anno 1797, Genova 1965, p. 211; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 219, 223, 229; S. Rotta, L'illuminismo a Genova: lettere di P.P. Celesia a F. Galiani, I, Firenze 1974, pp. 205, 215; F. Fonzi, Genova e Roma nel sec. XVIII. Note e documenti (1746-1768), Roma 1972, pp. 57 s.; A. Beniscelli, G.B. Casaregi e la prima Arcadia genovese, in La Berio, XIX (1979), 1-2, pp. 9-12, 17 s.; C. Bitossi, "La Repubblica è vecchia". Patriziato e governo a Genova nel secondo Settecento, Roma 1995, pp. 69, 100, 338, 340.

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