FOSSATI, Maurilio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FOSSATI, Maurilio

Maurilio Guasco

Nacque ad Arona, presso Novara, il 24 maggio 1876, da Giacomo e Domenica Destefanis.

Il F. percorse il normale itinerario del candidato al sacerdozio: nel seminario di Novara, dove compì gli studi, si respirava l'aria di apertura al sociale frutto degli atteggiamenti di Leone XIII; ma dominava anche quel cattolicesimo intransigente che sognava una vera e propria restaurazione di una cristianità che vedesse un rapporto organico tra Chiesa e società civile, ponendo come cardini dei programmi sociali e politici il binomio religione e patria.

Ordinato sacerdote il 27 nov. 1898 da monsignor E. Pulciano, vescovo di Novara, il F. proseguì nella sua attività di segretario del vescovo, già iniziata prima dell'ordinazione. Lo stesso vescovo, trasferito a Genova nel 1903, lo confermò nella carica anche nella nuova sede. Dopo l'improvvisa morte del Pulciano, nel dicembre 1911, il F. ritornò alla sua diocesi di origine, retta da mons. G. Gamba.

Non venendo impiegato in incarichi pastorali, decise di entrare nella Congregazione diocesana degli oblati dei Ss. Gaudenzio e Carlo, al Sacro Monte di Varallo, un gruppo di sacerdoti che faceva vita comune e offriva i propri servizi alla diocesi per quei ministeri che si rendessero di volta in volta utili (sostituzione temporanea di preti, predicazione, missioni al popolo).

Nella Congregazione il F. divenne prima economo e poi anche superiore. Tra il 1915 e il 1918 vi fu anche l'esperienza militare, vissuta non come cappellano al fronte, ma come soldato a Torino.

Tornato al Monte di Varallo, di cui ricopriva la carica di rettore, insieme con quella di superiore generale della Congregazione, nel 1924 venne nominato vescovo di Nuoro, ricevendo l'ordinazione episcopale il 24 aprile.

In una diocesi non molto grande e neppure molto organizzata, il F. riscoprì la passione giovanile per il giornalismo e fondò il settimanale L'Ortobene. Nel 1929 venne trasferito nella diocesi di Sassari. Nel marzo 1931 gli fu affidata l'archidiocesi di Torino, ove iniziò un lunghissimo ministero episcopale.

I suoi precedenti erano significativi. Il suo primo ambiente formativo era stata la famiglia ad Arona, la terra di s. Carlo Borromeo, il grande protagonista della riforma tridentina. Tale linea privilegiava l'azione pastorale diretta, e il vescovo era prima di tutto il pastore del suo popolo. I modelli gli erano in qualche modo forniti dalla tradizione piemontese, con i suoi santi sociali che avevano segnato il secolo XIX: non è certo casuale che i più noti siano giunti agli onori degli altari, con la conclusione del loro processo di canonizzazione, nel corso dell'episcopato del F.: Giuseppe Cottolengo e Giovanni Bosco nel 1934, Giuseppe Cafasso nel 1947, suor Maria Mazzarello nel 1951, Domenico Savio nel 1954. Mancava solo L. Murialdo, che sarebbe diventato beato nel 1963. A ognuno di loro egli dedicava particolare attenzione, nei suoi scritti e nelle sue lettere pastorali.

L'arrivo a Torino coincideva con un momento di conflitto tra la Chiesa e il regime fascista, per l'attacco mosso da questo alla relativa autonomia dell'Azione cattolica. Nella linea che era propria della Chiesa italiana anche il F. assunse le difese delle associazioni, protestando contro i soprusi, ma anche poi rallegrandosi per la ritrovata pace e per l'accettazione da tutt'e due le parti del nuovo modus vivendi.

In tale ottica, si possono anche capire quelle che furono le successive prese di posizione dell'arcivescovo: formatosi negli anni del ritorno di forme esplicite di neoguelfismo, pensava che la Chiesa fosse la sola garante di ogni forma di verità e che la civiltà avesse il suo fondamento nella religione. Il cristiano quindi non poteva non essere anche un buon cittadino, e l'autorità civile doveva collaborare con l'autorità religiosa per creare una società dove tutti i valori fossero rispettati, quei valori logicamente che erano definiti tali dalla religione.

Il concordato appariva quindi come un momento fondamentale, e i conflitti dovevano essere superati di comune accordo, senza violare i grandi principî religiosi definiti dalla sola autorità suprema, il sommo pontefice. Non appare certo singolare il fatto che fin dalla sua prima lettera indirizzata ai cattolici torinesi egli scrivesse: "Il Governo, è dovere di giustizia riconoscerlo, non solo ha riparato tanti passati errori, ma ha dimostrato pure di favorire la religione; e la prova più bella l'abbiamo nel patto di conciliazione stabilito tra la Chiesa e lo Stato" (Prima lettera pastorale ai diocesani, in Riv. diocesana torinese, VIII [1931], p. 54).

Gli avvenimenti più significativi degli anni Trenta sarebbero stati letti quasi sempre in tale quadro interpretativo: guardò positivamente al regime cattolico-reazionario in Ungheria, al regime di Salazar in Portogallo, al nazionalismo franchista in Spagna. Ancora prima, e nella scia del diffuso consenso manifestato da altre note personalità ecclesiastiche, appoggiò la politica coloniale del fascismo, con la solenne funzione propiziatrice per la vittoria delle armi italiane in Africa, celebrata nel santuario torinese, la chiesa della Consolata: in tale occasione notava quanto fosse "confortante vedere l'unione compatta di tutti i cittadini attorno al Governo per la difesa dell'onore nazionale", un atteggiamento che non poteva "fare a meno di confortare i nostri soldati ed essere di monito alle nazioni che ci contrastano il diritto alla vita" (Lettera di sua em.za il cardinal arcivescovo al rev.mo clero, ibid., XII [1935], p. 129).

In coerenza con tali atteggiamenti erano anche le analisi della politica interna: inviti espliciti a dare il consenso al governo di Mussolini in occasione dei momenti elettorali, gratitudine verso quelle scelte che avevano permesso il riavvicinamento alla religione di persone che si erano allontanate dalla Chiesa.

Il rapporto con il fascismo si incrinò con le leggi razziali: il F. avrebbe manifestato spesso un atteggiamento di aperto appoggio agli ebrei, fino a far pensare che, negli anni della persecuzione verso questi ultimi, si fosse salvato dall'arresto solo perché protetto dalla porpora cardinalizia (era stato creato cardinale da Pio XI nel concistoro del 13 marzo 1933). Tale atteggiamento fu anche alla base della sua profonda avversione verso il nazionalsocialismo hitleriano.

Negli anni della guerra le sue preoccupazioni maggiori furono di carattere pastorale: non abbandonò mai la città e si adoperò spesso come mediatore nei conflitti tra le parti in armi. Se l'analisi politica rimaneva ambigua (nel 1944 fu firmatario, con gli altri vescovi piemontesi, di una lettera di condanna di ogni forma di violenza e rappresaglia, con un richiamo ai partigiani perché cessassero di provocare con le loro azioni gravissime conseguenze alle popolazioni civili), nei fatti, oltre a proteggere gli ebrei e gli aderenti alla Resistenza, approvò la scelta di qualche sacerdote di salire in montagna per offrire assistenza spirituale ai partigiani. Rimaneva d'altra parte fortemente radicata in lui la pregiudiziale anticomunista.

La figura del F. non può essere caratterizzata ricordando solo la sua profonda pietà eucaristica, l'attaccamento al culto mariano o la sua predilezione per l'Azione cattolica, tipici di tutti i vescovi degli anni di Pio XI: anche se nel F. appare il riconoscimento di una qualche autonomia per l'azione del laicato. È certamente più significativo il richiamo alla sua pastorale tridentina. Il concilio della Riforma cattolica aveva molto insistito sul ruolo del prete, formato nei seminari e totalmente dedito alla cura delle anime, nel contatto con la comunità. Il vescovo era invitato a vegliare all'attuazione di quelle norme, soprattutto in occasione delle periodiche visite pastorali. Furono le caratteristiche salienti dell'episcopato del F.: la costruzione di un nuovo grande seminario, iniziata nel 1935 e conclusa nel 1949; l'attenzione particolare alla vita parrocchiale, con la creazione di nuove parrocchie per una città che vedeva in pochi decenni quasi raddoppiata la popolazione residente; periodiche e sistematiche visite pastorali; infine, sviluppo della stampa cattolica, mezzo indispensabile in una società fondata sulla comunicazione.

Nel dopoguerra l'aumento della popolazione era in parte dovuto anche al forte sviluppo della industrializzazione, che stava trasformando Torino nella città della FIAT. La risposta religiosa a tali trasformazioni non si rivelava molto semplice: negli anni della guerra e nell'immediato dopoguerra si erano sviluppate due diverse linee pastorali, una in Italia e una in Francia. I vescovi francesi, o almeno parte di essi, avevano accettato la presenza dei preti operai; gli italiani avevano preferito quella dei cappellani di fabbrica, di preti cioè che, con l'accordo della direzione, si recavano negli stabilimenti per incontrare gli operai, con una forma di presenza di carattere assistenziale e religioso, o più specificamente liturgico-sacramentale: si trattava cioè di creare le condizioni adatte per la partecipazione degli operai alle cerimonie liturgiche, soprattutto alla comunione pasquale, da organizzarsi, se possibile, anche all'interno degli stabilimenti.

Il F. mostrava anche in queste vicende le sue caratteristiche linee pastorali: scarsa capacità di analisi socio-politica, ma attenzione alle trasformazioni economiche. I problemi del lavoro erano per lui ben chiari: la fabbrica era un mondo scristianizzato, luogo di conflitti e terreno adatto per la propaganda comunista. Ma il suo anticomunismo era privo di quelle forme ossessive presenti in altre diocesi. Bisognava predicare una religione che aiutasse ad accettare le gerarchie sociali, pur nel rispetto dei diritti degli operai, e far riscoprire a chi ne era lontano la pratica religiosa.

Per creare i cappellani del lavoro il F. puntò su preti diocesani, ma che conducevano vita comune nella Congregazione degli oblati di S. Massimo, qualcosa di analogo a quella Congregazione di cui aveva fatto parte da giovane. I cappellani del lavoro sarebbero gradualmente aumentati, fino a rappresentare un fenomeno significativo per la diocesi e a raggiungere un numero relativamente alto di stabilimenti e luoghi di lavoro. La sola eccezione fu la FIAT, affidata alla cura dei salesiani, con una decisione che non ebbe mai la piena approvazione del F., il quale temeva i rischi connessi con un'azione che sfuggiva al controllo diretto e al coordinamento diocesano.

La linea italiana prevalse nei confronti di quella francese anche quando si trattò di introdurre nei modelli propri dell'Azione cattolica la forma proveniente dalla Francia, dove si era sviluppata la Jeunesse ouvrière chrétienne: gli sforzi fatti da alcuni militanti torinesi vennero resi vani dal prevalere di una linea fortemente centralizzata, che faceva capo all'attivismo di L. Gedda, il presidente nazionale dell'Azione cattolica negli anni del dopoguerra, che tra l'altro aveva mosso i primi passi di dirigente, dopo un'esperienza novarese, a Torino.

Con gli anni Cinquanta iniziò il declino del F., ma egli fu invitato a rimanere al suo posto, nonostante già nel 1941, e poi nel 1950, avesse presentato le dimissioni al papa. Partecipò ai lavori del concilio vaticano II, ai quali non poté dare alcun contributo, causa lo stato di salute molto precario. Negli ultimi anni venne affiancato da un coadiutore, F. Tinivella. Le interpretazioni delle conseguenze sulla diocesi di questa relativa mancanza di guida sono oggi divergenti; ma anche i biografi più affezionati al F. concordano nel riconoscere che quella presenza ormai scarsamente attiva provocò non pochi problemi pastorali.

Il F. morì a Torino il 30 marzo 1965.

Fonti e Bibl.: La documentazione più significativa è conservata nell'Archivio arcivescovile di Torino: il fondo è costituito da circa 100 cartelle. Le lettere pastorali e gli altri scritti del F. sono in massima parte pubblicati nella Riv. diocesana torinese tra il 1931 e il 1965. Se ne può vedere l'elenco in Lettere pastorali dei vescovi torinesi, a cura di W. Crivellin - G. Tuninetti, Torino 1992, pp. 57-60. Per la biografia e l'attività: Trent'anni di vita pastoraledi s. e. il card. M. F., Torino 1962; V. Barale, Porpore fulgenti. Il card. M. F., arcivescovo di Torino e la guerra di liberazione, Torino 1970; G. Donna D'Oldenico, Un novarese sulla cattedra di s. Massimo: il card. M. F., Ciriè 1971; J. Cottino, Il card. M. F. nel centenario della nascita, Torino 1976; F. Traniello, L'episcopato piemontese in epoca fascista, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell'Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI, a cura di P. Pecorari, Milano 1979, pp. 111-139; B. Gariglio, Mondo cattolico e fascismo in una grande città industriale: il caso di Torino, ibid., pp. 193-220; B. Bertini - S. Casadio, Clero e industria a Torino. Ricerca sui rapporti tra clero e masse operaie nella capitale dell'auto dal 1943 al 1948, Milano 1979, passim; G. Tuninetti, F. M., in Diz. stor. del movimento cattolico in Italia, III, 1, Casale 1984, pp. 377 s.; B. Gariglio, Chiesa e società industriale: il caso di Torino, in Le chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma 1986, pp. 161-190; R. Marchis, Guerra e Resistenza nelle posizioni della curia torinese, in L'insurrezione in Piemonte, Milano 1987, pp. 285-308; G. Boano, Un umile prete vestito di porpora(card. M. F. arcivescovo di Torino), Vigone 1991.

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