SCOCCIMARRO, Mauro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 91 (2018)

SCOCCIMARRO, Mauro

Aldo Agosti

– Nacque a Udine il 30 ottobre 1895 da Antonio, impiegato delle ferrovie, e da Teresa Caputo.

Trascorse la prima adolescenza nella terra d’origine del padre, la Puglia, in un ambiente solo sfiorato dagli echi delle dure lotte bracciantili di quegli anni. Ritornato a Udine, si diplomò ragioniere e si iscrisse alla scuola superiore di commercio a Venezia. Interventista convinto, si arruolò volontario come sottotenente degli alpini; ferito e decorato al valor militare, fu congedato con il grado di capitano. L’esperienza del fronte e il contatto quotidiano con i soldati fecero maturare in lui un atteggiamento critico verso la guerra: dal fronte, nell’ottobre del 1917, chiese l’iscrizione alla sezione socialista di Udine della quale divenne segretario dopo essere stato smobilitato nel 1919. Segretario della federazione provinciale e direttore del periodico Il Lavoratore friulano, nel 1920 fu delegato al Congresso di Livorno come rappresentante dei comunisti unitari (serratiani), ma poco dopo aderì al Partito comunista d’Italia (PCd’I) e contribuì a organizzarne la federazione. Laureatosi nel frattempo a Venezia in scienze economiche, subito dopo il Congresso di Roma del PCd’I (marzo del 1922) si trasferì a Torino alla redazione del quotidiano Ordine nuovo, dove rimase per alcuni mesi. Membro della delegazione del PCd’I al IV Congresso dell’Internazionale comunista (IC), fece parte della commissione interpartitica incaricata di stabilire le modalità della fusione fra PCd’I e Partito socialista italiano (PSI), che era stata decisa dal Congresso. Al ritorno in Italia, sfuggito alla ‘battuta anticomunista’ che fra il febbraio e l’aprile del 1923 portò all’arresto di centinaia di quadri, il 5 marzo 1923 fu cooptato nel comitato centrale e nell’esecutivo del partito. Partecipò in giugno al III plenum dell’Internazionale comunista (Comintern), che nominò d’autorità l’esecutivo del PCd’I e lo chiamò a farne parte: dopo un’iniziale riluttanza accettò la carica.

Rientrando da Mosca, si fermò alcuni mesi a Berlino come rappresentante del PCd’I presso il Kommunistische Partei Deutschlands (KPD) e, mentre iniziava a collaborare alla stampa dell’IC, cominciò a partecipare come protagonista al dibattito che vide formarsi intorno ad Antonio Gramsci il nuovo gruppo dirigente ‘di centro’. Rientrato in Italia in ottobre e dapprima propenso a ricomporre la vecchia maggioranza con Amadeo Bordiga, solo all’inizio del 1924 fu conquistato interamente alle posizioni di Gramsci.

Dopo il Convegno di Como e la vittoria del ‘centro’ (del cui documento fu tra i firmatari), non partecipò al V Congresso dell’IC, ma venne da questo eletto membro supplente dell’esecutivo. Subito dopo entrò a far parte dell’ufficio di segreteria del PCd’I e durante la crisi Matteotti – usando prevalentemente gli pseudonimi di Marco e Morelli – fu, insieme a Gramsci, il portavoce più autorevole del PCd’I, redigendo i rapporti del partito all’esecutivo dell’IC. Dal novembre del 1924 fu chiamato a rappresentare il partito a Mosca, proprio in coincidenza con la discussione sulla bolscevizzazione dei partiti comunisti. Dei due elementi che di questa costituivano il contenuto essenziale – il rafforzamento organizzativo dei partiti e la loro coesione ideologica – fu portato a sottolineare, a differenza di Gramsci e in parte di Palmiro Togliatti, soprattutto il secondo: fu lui l’autore al V plenum di una dura requisitoria contro il bordighismo, che condannò come «metodo troppo astratto, estraneo alla dialettica viva del leninismo» (Exécutif élargi de l’Internationale communiste, compte rendu analytique de la sessione, 22 mars - 6 avril 1925, Paris 1925, p. 76). Rientrato in Italia nell’aprile del 1925, si dedicò all’organizzazione dell’apparato clandestino e in particolare alla preparazione del III Congresso del partito a Lione (gennaio 1926), ove fu pienamente solidale con le posizioni di Gramsci e di Togliatti. Rieletto nel comitato centrale, nell’esecutivo e nella segreteria, con la partenza di Togliatti per Mosca divenne per autorità nel partito secondo solo a Gramsci.

Fu arrestato a Milano il 5 novembre 1926 e assegnato al confino di polizia per cinque anni all’isola di Favignana; qui il 22 gennaio 1927 fu arrestato in esecuzione del mandato di cattura del giudice istruttore di Milano e associato alle carceri di San Vittore. Comparve come uno dei principali imputati al «processone» contro i maggiori dirigenti comunisti di fronte al Tribunale speciale per la difesa dello Stato (28 maggio - 4 giugno 1928). Ritrovandosi con Gramsci e Umberto Terracini nella stessa cella a Regina Coeli, concordò con loro una linea di difesa basata sulla rivendicazione dell’attività di partito espletata pubblicamente e sulla negazione degli «intenti criminosi» addebitati agli imputati. Durante il processo tenne un contegno fermissimo, riducendo al minimo le risposte agli interrogatori. Indicato dal pubblico ministero Michele Isgrò come «uno dei capi più influenti del PCd’I», fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni, di cui 4 anni e 6 mesi di isolamento.

Scontò quest’ultimo nei penitenziari di S. Stefano e Lucca, perdendo quasi del tutto i contatti con il partito. Stando alle lettere che Terracini riuscì a far pervenire clandestinamente al centro estero del partito nel 1930, Scoccimarro aveva condiviso nel 1928 con lui e con Gramsci la convinzione che alla caduta del fascismo sarebbe succeduta una «fase democratica», ma non risulta che la sua reazione alla «svolta» del 1930 sia stata critica come quella dei suoi ex compagni di cella. Terminato il periodo di segregazione, nel 1932 fu trasferito prima al carcere di Padova, poi al penitenziario di Civitavecchia, dove fu attivissimo nell’organizzazione del collettivo carcerario.

Il 19 febbraio 1937, avendo beneficiato del nuovo decreto di amnistia, fu scarcerato, ma subito assegnato al confino quale «elemento pericolosissimo per gli ordinamenti politici dello Stato» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 4707, f. 019650). Trascorse i primi due anni del confino a Ponza, dove ritrovò molti dei maggiori dirigenti del PCd’I, e dal 1° luglio 1939 fu trasferito a Ventotene. In entrambe le isole fu riconosciuto come uno degli esponenti più autorevoli del «collettivo», e si segnalò per una posizione di intransigente difesa di una linea politica che non aveva pienamente rielaborato la svolta del VII Congresso del Comintern. Al confino conobbe la militante comunista imolese Maria Baroncini, che sarebbe diventata sua moglie dopo la fine della guerra. A Ventotene nel settembre del 1939 esplose in forma acuta il dissenso fra il direttivo comunista e Terracini, affiancato da Camilla Ravera: a differenza di questi, Scoccimarro era concorde con la maggioranza nell’attribuire alla guerra un carattere imperialistico e nel valutare in modo egualmente negativo i due blocchi belligeranti. Tale dissenso non fu sopito dopo l’aggressione nazista all’URSS, anzi si ripresentò in termini ancora più gravi riguardo all’ampiezza che doveva assumere l’alleanza antifascista. Il comitato direttivo dei confinati di Ventotene, nel quale la posizione di punta fu assunta proprio da Scoccimarro, si pronunciò per una versione restrittiva della politica di unità nazionale e deliberò, nel febbraio del 1943, l’espulsione di Terracini e di Ravera dal PCd’I.

Caduto il fascismo, il 17 agosto 1943 Scoccimarro fu liberato dal confino. Dopo un breve soggiorno a Udine, ripartì per Roma, dove il 29 agosto ebbe luogo una riunione dei dirigenti del PCd’I che si trovavano in Italia: vi fu deciso di formare una direzione provvisoria del partito e di dividerla in due gruppi, uno operante a Roma, l’altro a Milano. Scoccimarro restò nella capitale e fu riconosciuto da entrambi i nuclei, pur senza una nomina formale, come l’esponente più autorevole della direzione provvisoria. In questa veste di «reggente» in attesa del ritorno di Togliatti, la cui autorità di massimo dirigente non fu mai contestata, rappresentò il partito nel Comitato centrale di liberazione nazionale (CCLN). La sua posizione, condivisa dagli altri dirigenti romani, escludeva ogni collaborazione con il governo Badoglio, considerato espressione dei «ceti plutocratici reazionari» del Paese. Essenziale era per lui l’unione dei partiti della classe operaia, di cui il patto di unità d’azione (che sottoscrisse per il Partito comunista italiano, PCI, insieme a Giorgio Amendola nell’agosto del 1943) era una prima tappa importante. Al ritorno di Togliatti in Italia si mostrò dapprima contrario alla «svolta partecipazionista» di Salerno, ma finì per convincersi della sua necessità, e si adoperò in seno al CCLN per scongiurare una rottura con socialisti e azionisti.

Dopo la liberazione di Roma fu nominato vicesegretario nella direzione provvisoria operativa per l’Italia liberata. Nel luglio del 1944 divenne alto commissario aggiunto – al fianco di Carlo Sforza – per l’epurazione dell’amministrazione, e cercò di far passare misure particolarmente radicali, bloccate però dai moderati e dagli Alleati. In dicembre entrò nel secondo governo Bonomi come ministro dell’Italia occupata. A partire da questa data, e fino alla vigilia della definitiva rottura dell’unità antifascista nel 1947, l’attività di governo e poi quella parlamentare lo impegnarono non meno intensamente delle funzioni di direzione del partito. Prima ancora di essere confermato nella direzione unificata provvisoria del PCI l’8 agosto 1945, fu infatti nominato ministro delle Finanze nel governo Parri. In tale veste varò un piano per il cambio della moneta come strumento antinflazionistico e un progetto di imposta straordinaria sul patrimonio, fortemente progressiva e collegata con un’imposta sugli incrementi patrimoniali realizzati tra il 1935 e il 1945. Questi progetti, come pure il nuovo piano finanziario sottoposto al Consiglio dei ministri alla fine del 1946, e imperniato su misure di finanza straordinaria, incontrarono l’ostruzionismo degli ambienti conservatori del governo e del Paese, e anche l’incomprensione della maggioranza del suo stesso partito. Quando, nel febbraio del 1947, si costituì il terzo governo De Gasperi, rifiutò di assumere un dicastero diverso da quello delle Finanze e uscì dalla compagine ministeriale.

Membro della Consulta nazionale e poi deputato all’Assemblea costituente, divenne senatore di diritto nel 1948 (dal 1958 alla morte fu vicepresidente del Senato), per essere poi rieletto ininterrottamente dalla II alla V legislatura, e svolse intensa attività parlamentare. Come responsabile della sezione economica continuò a essere uno dei principali ispiratori della politica economica del partito, imperniata su un’analisi del «blocco del 18 aprile» uscito vincente dalle elezioni del 1948, che distingueva tra i grandi gruppi monopolistici interessati a una politica di riarmo e quindi «asserviti all’imperialismo» da una parte, e tutti quei settori di piccola e media borghesia industriale potenzialmente avversi a tale predominio dall’altra (VII Congresso del Partito comunista italiano, 3-8 aprile 1951. Resoconto, Roma 1954, pp. 198 s.).

Nel gennaio del 1946 era stato intanto chiamato, con compiti di coordinatore dell’attività di governo, a far parte della segreteria del PCI, in cui fu riconfermato al VII Congresso nel 1951 e di nuovo dalla conferenza organizzativa del 1955. Dopo la fine dei governi di unità nazionale, nell’ottobre del 1947 salutò «con entusiasmo» la costituzione del Cominform, dichiarando: «L’Internazionale non è mai stata sciolta nel cuore di ogni comunista» (La politica del Partito comunista italiano nel periodo della Costituente. I verbali della direzione tra il V e il VI Congresso 1946-1948, a cura di R. Martinelli - M.L. Righi, Roma 1992, p. 504), ma di non ritenere necessaria una radicale correzione della linea del partito. La sua opposizione nei confronti dei governi centristi spiccò però per intransigenza. Il suo atteggiamento rimase sempre meno flessibile di quello di Togliatti (a differenza del quale, dopo il 1953, mantenne nei confronti della Democrazia cristiana, DC, una chiusura rigida e guardò con diffidenza all’avvicinamento dei socialisti all’area di governo), ma la sua lealtà nei confronti del segretario non fu mai in discussione: lo appoggiò fermamente quando scoppiò l’affare Secchia nel 1954, si allineò al suo atteggiamento inizialmente prudente nel 1956 dopo il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, PCUS (cui era stato presente come membro delle delegazione italiana, leggendo anche in anteprima il rapporto segreto di Nikita Chruščëv) e lo sostenne con decisione nel novembre del 1961, quando l’autorità del segretario fu parzialmente messa in discussione per l’atteggiamento giudicato troppo reticente nei confronti dei crimini dello stalinismo. Il suo peso nel partito fu però ridimensionato a partire dall’VIII Congresso del 1956 quando, rieletto nel Comitato centrale, rientrò sì anche nella direzione, ma come membro di diritto in quanto presidente del nuovo organismo creato in quella circostanza, la Commissione centrale di controllo: un ruolo che di fatto lo emarginò dai centri decisionali della politica del PCI. Mantenne tale carica fino al XII Congresso, quando fu ancora rieletto nel Comitato centrale.

Morì improvvisamente a Roma il 2 gennaio 1972.

Opere. Il secondo dopoguerra, Roma 1956; Nuova democrazia, Roma 1958; Ideologia e politica, Roma 1960; Ideologia marxista e programmazione economica, Roma 1965; Il rinnovamento e il rafforzamento del partito, Roma 1966.

Fonti e Bibl.: Le carte (1941-1967) di Mauro Scoccimarro sono conservate in tredici buste nell’Archivio della Fondazione Istituto Gramsci e non sono state ancora ordinate.

Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, s.v.; Il processone, a cura di D. Zucaro, Roma 1961, passim; P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del PCI nel 1923-1924, Roma 1962, passim; P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I-V, Torino 1967-1975, ad ind.; L’Unità, 3 gennaio 1972; G. Amendola, Lettere a Milano, Roma 1973, passim; L. Longo, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma 1973, ad ind.; C. Ravera, Diario di trent’anni (1913-1943), Roma 1973, ad ind.; P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945: ricordi, documenti inediti e testimonianze, in Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, XIII (1971), ad ind.; G. Pellegrini, M. S., in Quaderni friulani, 1974, n. 2, pp. 47-50; A. Agosti, M. S., in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, a cura di F. Andreucci - T. Detti, IV, Roma 1978, pp. 577-587; R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VI, Il “partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile, Torino 1996, ad ind.; G. Gozzini - R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VII, Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Torino 1998, ad indicem. Per la sua attività nelle istituzioni parlamentari si veda http://www.senato.it/ leg/01/BGT/Schede/ Attsen/00009432.htm.

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