Medicina e sanita pubblica

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)

Medicina e sanità pubblica

Gilberto Corbellini
Paolo Mazzarello

Agli albori dell’Unità d’Italia la forza dei processi di trasformazione politica della penisola investì in pieno anche la cultura e la scienza, segnando in profondità la medicina che stava attraversando un momento di rinnovamento sia conoscitivo sia pratico. Nella seconda metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento la formulazione della teoria cellulare e l’applicazione della sua versione matura ai processi morbosi, secondo il codice interpretativo del patologo tedesco Rudolf Virchow (1821-1902), aprì alla comprensione patogenetica dei fenomeni corporei che trovava nell’alterazione funzionale della cellula il primum movens morfologico del loro sviluppo. Il microscopio, lo strumento che permetteva di osservare l’unità elementare della vita, diventava un compagno inseparabile della professione medica al banco del laboratorio.

Parallelamente, il linguaggio degli apparati e degli organi del corpo, espresso da suoni, colori, alterazioni volumetriche, modificazioni della consistenza dei tessuti, comparsa di masse aliene, trovava negli straordinari virtuosismi di una sempre più raffinata semeiotica medica, alimentata da nuovi strumenti diagnostici e dalla diretta verifica post mortem, la possibilità di originali e razionali inquadramenti nosografici. Gli sviluppi della chirurgia furono resi possibili, a partire dagli anni Quaranta, dalla diffusione dell’anestesia e, un ventennio dopo, dall’estendersi delle procedure di antisepsi, oltre che dallo sviluppo della strumentazione operatoria.

Medicina e politica

In Italia, a cavallo dell’unificazione del Paese, le scienze della vita e della salute stavano cercando di uscire da situazioni di subalternità rispetto alle nazioni europee più avanzate, sia con l’intensificazione degli scambi scientifico-culturali nella penisola, spesso esplicitamente o più velatamente osteggiati dalle autorità, sia con soggiorni di studio all’estero, talvolta favoriti dall’emigrazione politica, in particolare dopo i moti del 1848.

Un destino politico che influenzò in profondità le prospettive accademico-professionali, emblematico di un percorso possibile negli anni difficili dell’unificazione nazionale, fu quello di Salvatore Tommasi (1813-1888), una delle figure fra le più significative della medicina nel nuovo Regno d’Italia. Nominato professore all’Università di Napoli, Tommasi partecipò ai moti del 1848, ma con la ricostituzione del pieno potere dei Borbone fu destituito e dovette andare in esilio, dapprima in Francia, poi in Inghilterra e infine in Piemonte, fino a quando nel 1859, con la caduta del potere austriaco in Lombardia, ottenne la cattedra di patologia speciale medica e clinica medica a Pavia. Le sue Istituzioni di fisiologia, la cui terza edizione apparve l’anno dopo, diventarono un testo classico della formazione medica postunitaria, basata sull’idea che la medicina doveva caratterizzarsi più come scienza che come arte. Tommasi tornò all’Università di Napoli nel 1865 e vi tenne la celebre prolusione Il naturalismo moderno, che diventò un manifesto del materialismo medico.

Alla penetrazione del materialismo nelle facoltà di Medicina italiane contribuì in modo significativo l’olandese Jacob Moleschott, la cui opera Der Kreislauf des Lebens (1852; tradotta in italiano da Cesare Lombroso nel 1869 con il titolo La circolazione della vita. Lettere fisiologiche) conteneva una concezione antispiritualistica, per cui la vita non sarebbe altro che uno stadio particolare di strutturazione del movimento cosmico della materia. La chiamata per chiara fama di Moleschott sulla cattedra di fisiologia dell’Università di Torino, nonostante l’opposizione della facoltà medica, rispondeva al tentativo del nuovo ministro della Pubblica istruzione, Francesco De Sanctis, di legare l’accademia italiana alle grandi correnti culturali europee.

L’apertura a studiosi provenienti dall’estero testimoniava il desiderio dei primi ministri dell’Istruzione, per usare le parole di Karl Vogt (1817-1895) riprese da una lettera a Felix Anton Dohrn, di «alzare il livello qualitativo degli studi in Italia stessa, ma anche di formare giovani italiani per la carriera di insegnanti» (cit. in A. Dröscher, Gli italiani e l’estero: flussi di migrazione intellettuale, in Storia d’Italia. Annali 26, Scienze e cultura dell’Italia unita, a cura di F. Cassata, C. Pogliano, 2011, p. 815). Dopo De Sanctis, il fisico Carlo Matteucci, ministro della Pubblica istruzione, fece chiamare sulla cattedra di fisiologia dell’Istituto di studi superiori di Firenze il fisiologo francofortese Moritz Schiff (1823-1896), biologo sperimentale e darwiniano. Assistente di Schiff fu Aleksandr A. Herzen (1839-1906, figlio del noto rivoluzionario russo), destinato a succedergli nel 1876. A Roma fece una rapida carriera il fisiologo tedesco Franz Christian Boll (1849-1879), professore di anatomia e fisiologia comparata, che scoprirà la porpora retinica (in seguito denominata eritropsina o rodopsina) e sarà eletto all’Accademia dei Lincei.

Il desiderio di internazionalizzare il corpo docente universitario italiano si tradusse in un’operazione politica lungimirante promossa dal ministero della Pubblica istruzione: l’istituzione di borse di studio per il perfezionamento all’estero dei neolaureati di ogni facoltà. Programma educativo che continuò fino al 1895 (poi ripristinato in forma ridotta nel 1899) e che incise in profondità sulla preparazione, particolarmente in campo medico, settore che raccolse il maggior numero di fruitori. Ne beneficiarono molti studiosi che al ritorno in patria vinsero concorsi a cattedra e crearono centri di ricerca legati ai principali laboratori europei concorrendo a sprovincializzare l’accademia italiana. Fu un’iniziativa cruciale nella storia del Paese che incise in profondità sulla sua fisionomia scientifica.

Il prestigio della medicina nell’Italia del positivismo si tradusse in un accresciuto peso politico dei medici. Nell’VIII legislatura, la prima italiana, i membri della classe medica eletti deputati erano il 5% del totale e salirono al 7% nella XXIV eletta nel 1913 ma prolungata fino al 1919 a causa della Prima guerra mondiale – nel 1905 (XXII legislatura) si costituiva addirittura un Fascio medico parlamentare. In realtà molti dei medici più autorevoli non diventarono membri della Camera ma vennero nominati al Senato. Fra loro troviamo il chirurgo Luigi Porta (1871), i fisiologi Moleschott (1876), Angelo Mosso (1904) e Luigi Luciani (1904), l’alienista Andrea Verga (1876), i patologi generali Giulio Bizzozero (1890) e Camillo Golgi (1900), il clinico Carlo Forlanini (1913), lo zoopatologo Giovanni Battista Grassi (1908). Nel complesso, tuttavia, i medici raramente esercitarono un’azione incisiva al di fuori delle provvidenze legate alla sanità. Fra le eccezioni troviamo il clinico Guido Baccelli (1830-1916), più volte ministro (della Pubblica istruzione e dell’Agricoltura, Industria e Commercio) e lo psichiatra Leonardo Bianchi (1848-1927), ministro della Pubblica istruzione fra il marzo e il dicembre 1905, che istituì le prime cattedre di psicologia in Italia. Laureato in medicina fu anche Giovanni Lanza (1810-1882), che ricoprì più volte la carica di presidente della Camera e, dal 1869 al 1873, quella di presidente del Consiglio.

Una realtà disomogenea

Con l’estensione della legge Casati del 1859 il Regno d’Italia cercò di unificare una situazione accademica variegata a livello nazionale. L’insegnamento della medicina era organizzato tradizionalmente nelle facoltà mediche che si trovavano in rapporto con importanti realtà ospedaliere. Le università ereditate dal nuovo Regno avevano lo scopo di assicurare l’insegnamento e di promuovere la formazione professionale; il docente aveva soprattutto la funzione di trasmettere conoscenze prodotte da altri. I gabinetti scientifici erano poveri di attrezzature, carenti nel personale, e la ricerca scientifica era raramente contemplata fra i doveri del professore universitario. Non mancarono tuttavia eccezioni: alcune università, agli albori dell’Unità d’Italia, furono centri di ricerca scientifica e di diffusione del nuovo sapere, e luoghi di reclutamento del corpo docente e di successiva colonizzazione delle cattedre universitarie più prestigiose.

Una posizione chiave per le discipline biomediche fu assunta dall’Università di Pavia, al punto che Grassi la definì «il sole della biologia italiana del XIX secolo» (I progressi della biologia e delle sue applicazioni pratiche conseguiti in Italia nell’ultimo cinquantennio, in Cinquanta anni di storia italiana, 1860-1910, a cura della R. Accademia dei Lincei, 3° vol., t. 1, 1911, p. 397). Durante la Restaurazione, quello che all’epoca era l’unico ateneo lombardo aveva mantenuto un discreto livello scientifico nel campo delle scienze della vita e delle discipline naturalistiche – anche se non paragonabile al periodo d’oro della seconda metà del Settecento – grazie all’influenza dell’anatomista Antonio Scarpa (fino al 1832, anno della morte) e soprattutto a seguito della presenza del suo erede scientifico Bartolomeo Panizza (1785-1867) – professore di anatomia – e di alcuni allievi di quest’ultimo, come il fisiologo e istologo Eusebio Oehl (1827-1903) e il docente di chirurgia Luigi Porta (1800-1875).

A cavallo dell’Unità raggiunsero la cattedra dell’ateneo pavese, oltre a Tommasi e ad Arnaldo Cantani (1837-1893), anche Paolo Mantegazza, docente di patologia generale, e Cesare Lombroso (1835-1909), professore straordinario di psichiatria. Nei decenni successivi insegnarono e operarono a Pavia molti medici destinati a lasciare il loro nome associato a scoperte e studi fondamentali. Il primo fra questi fu Camillo Golgi, premio Nobel nel 1906, celebre per le ricerche di neuroanatomia, citologia e microbiologia; poi Achille De Giovanni (1838-1916), studioso di costituzionalismo e professore di patologia generale, Edoardo Porro (1842-1902), che ideò l’intervento di amputazione utero-ovarico cesarea applicata a gestanti dal bacino patologicamente ristretto, Arrigo Tamassia (1849-1917), docente di medicina legale, e Carlo Forlanini (1847-1918), ideatore di un metodo originale per il trattamento delle cavitazioni tubercolari polmonari mediante pneumotorace artificiale.

A Pavia iniziò la carriera scientifica Giulio Bizzozero (1846-1901), che avrà l’insegnamento di patologia generale e diventerà presto noto per la descrizione della funzione ematopoietica del midollo osseo, la scoperta della fagocitosi e l’identificazione dei nodi di Bizzozero della cute. Sempre di ambiente pavese furono: Enrico Sertoli (1842-1910), poi noto per le indagini sulla struttura del testicolo e l’individuazione delle cellule che portano il suo nome; Edoardo Bassini (1844-1924), che introdusse un metodo originale per il trattamento chirurgico dell’ernia inguinale; Ferruccio Tartuferi (1852-1925), esploratore dell’anatomia retinica con i metodi di Golgi; e Pietro Grocco (1856-1916), virtuoso della semeiotica medica. Molti di questi studiosi trovarono in Pavia il trampolino di lancio per successive carriere scientifiche negli atenei più prestigiosi della penisola: Tommasi e Cantani a Napoli, Mantegazza a Firenze, Lombroso, Bizzozero e Forlanini a Torino, Sertoli e Porro a Milano, Bassini, Tamassia e De Giovanni a Padova, Tartuferi a Bologna, Grocco a Pisa e Firenze.

Un ruolo di capofila nella ricerca biomedica svolse anche l’Università di Torino, grazie a Moleschott e a Mosso, suo successore sulla cattedra di fisiologia, Lombroso, sull’insegnamento di medicina legale, ancora Bizzozero, che ottenne giovanissimo la cattedra di patologia generale e continuò il suo cursus honorum con la scoperta delle piastrine e la classificazione dei tessuti in labili, stabili e perenni (fornendo un’importantissima base concettuale alla biologia cellulare), gli internisti Forlanini e Camillo Bozzolo (1845-1920), l’anatomo-patologo Pio Foà (1848-1923). Poi l’Università di Bologna, con l’internista Augusto Murri (1841-1932), l’oftalmologo Tartuferi e la scuola di ortopedia di Alessandro Codivilla (1861-1912), proseguita dal suo successore Vittorio Putti (1880-1940); quindi l’Università di Napoli per la presenza dei clinici medici Tommasi, Cantani e Antonio Cardarelli (1831-1927) e del neuropsichiatria e uomo politico Leonardo Bianchi (1848-1927), e l’Università di Padova con il clinico medico De Giovanni, il medico legale Tamassia e il chirurgo Bassini.

Un posto a parte occupò l’Università di Roma che, dopo il 1870, diventata Regia Università di Roma, si trasformò in un centro accademico dove giunsero a compimento molte carriere scientifiche iniziate negli atenei della penisola. Fra gli studiosi che diedero prestigio all’Università capitolina ricordiamo il medico naturalista G.B. Grassi, Darwin medal (1896) della Royal society di Londra, che, con la collaborazione di Amico Bignami e Giuseppe Bastianelli, dimostrò la trasmissione anofelica della malaria nell’uomo; l’anatomopatologo e clinico Ettore Marchiafava e l’igienista Angelo Celli (1857-1914), che diedero contributi fondamentali alla patologia clinica della malaria; i fisiologi Moleschott, trasferito da Torino nel 1878, che diventò membro del Consiglio superiore della Pubblica istruzione, e Luigi Luciani (1840-1919), suo successore nel 1893, autore di studi fondamentali sulla fisiologia cerebellare; il neurologo Giovanni Mingazzini (1859-1929), noto per i suoi lavori di semeiotica medica e anatomia clinica dei centri nervosi; e il clinico medico e uomo politico Guido Baccelli, pioniere della terapia farmacologia intravenosa. All’Università di Roma, dove si laureò nel 1882, percorse un tratto significativo della sua carriera accademica Giuseppe Guarnieri, poi titolare della cattedra di patologia generale nell’ateneo pisano (1888).

Temi di studio

Fra i temi di ricerca che emersero dopo l’unificazione nazionale uno dei principali fu certamente lo studio della morfologia, delle funzioni e della patologia del sistema nervoso. Golgi realizzò il singolo progresso più importante nella neuroanatomia microscopica (che in un certo senso si può considerare fondata proprio dal suo metodo istologico), la reazione nera, per mezzo della quale fu possibile studiare con precisione, per la prima volta, l’architettura microscopica del sistema nervoso. I suoi allievi forniranno apporti decisivi a molti settori delle discipline biomediche, fra i quali Adelchi Negri (1876-1912), che identificò le alterazioni anatomopatologiche patognomoniche dell’infezione rabbica, Emilio Veratti (1872-1967), noto per l’identificazione del sistema T legato alle funzioni del reticolo sarcoplasmatico, Vittorio Marchi (1851-1908), ideatore di una tecnica istologica fondamentale per la messa in evidenza delle vie nervose, Carlo Martinotti (1859-1918), il cui nome è rimasto legato alle cellule ad assone ascendente nella corteccia cerebrale, Aldo Perroncito (1882-1929), che definì la morfologia e la cinetica di rigenerazione del nervo periferico dopo taglio sperimentale, Edoardo (poi padre Agostino) Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, Casimiro Mondino (1859-1924), promotore dell’Istituto neurologico di Pavia che porta il suo nome.

Rilevanti furono gli indirizzi di ricerca neuropsichiatrica realizzati nelle cliniche delle malattie nervose e mentali, nei manicomi, talvolta nelle cliniche mediche. Crocevia di questo genere di studi fu l’ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia, nelle cui corsie e laboratori operarono alcuni dei principali neurologi e psichiatri dell’epoca, tra i quali Augusto Tamburini (1848-1919), Eugenio Tanzi (1856-1934), Enrico Morselli (1852-1929) e Arturo Donaggio (1868-1942). Trascorse un periodo di specializzazione a Reggio Emilia anche il fisiologo Luciani, noto per le ricerche neuropsicologiche sviluppate in collaborazione con Tamburini, per gli studi fisiologici del sistema nervoso, in particolare sulla funzione cerebellare e per gli studi di elettrofisiologia cardiaca ai quali aveva iniziato a dedicarsi a Lipsia nel laboratorio diretto da Carl F.W. Ludwig (1816-1895). I successi di Panizza, che nel 1855 aveva identificato l’area occipitale visiva, stimolarono le ricerche di neuropsicologia. Nel 1867 l’oculista Antonio Quaglino (1817-1894), professore a Pavia, descrisse la prosopagnosia (incapacità a riconoscere i volti) associata alla cecità ai colori.

Di rilievo internazionale furono gli studi di semeiotica del sistema nervoso nei quali primeggiò l’anconetano Mingazzini, fondatore della scuola neurologica romana, noto per il segno clinico di lesione piramidale che porta il suo nome. Di correlazioni anatomocliniche si occupò con successo lo psichiatra Bianchi, professore a Napoli, autore di una ‘dottrina’ dei lobi frontali come sede delle attività superiori affettive, psichiche e intellettive integrate con le afferenze sensoriali. Contributi rilevanti alla nosografia neurologica furono forniti dai clinici romani Marchiafava e Bignami, che descrissero la necrosi del corpo calloso nell’alcolismo. Sul piano teorico il neuropsichiatra Tanzi e il suo allievo Ernesto Lugaro (1870-1940) accettarono tra i primi la teoria del neurone proposta dallo spagnolo Santiago Ramón y Cajal (1852-1934). Insieme pubblicarono un Trattato delle malattie mentali (1904) usato per anni nei corsi universitari della penisola. Tanzi propose una teoria della memoria che postulava una modificazione della comunicazione interneuronale dopo stimolazione ripetuta. Non meno originale fu Lugaro, che intuì la natura chimica della trasmissione sinaptica e per primo propose l’uso dei termini conduzione nervosa, trasmissione nervosa e plasticità in relazione alle funzioni del sistema nervoso.

Fra le imprese scientifiche e sanitarie che si trovò ad affrontare lo Stato unitario una delle più significative riguardò gli studi sull’eziopatogenesi e il meccanismo di trasmissione della malaria, malattia endemica, almeno dal 2° sec. a.C., nella penisola. Nel 1887, anno in cui furono pubblicate le prime statistiche sanitarie ufficiali del Regno, la malaria colpiva due milioni di individui su circa trenta milioni di abitanti, provocando la morte di ventimila persone l’anno. A partire dagli anni Ottanta, furono realizzate osservazioni ed esperimenti fondamentali per stabilire la natura dell’infezione malarica e il suo meccanismo di trasmissione. Celli e Marchiafava perfezionarono la descrizione del parassita malarico (scoperto dal medico francese Alphonse Laveran nel 1880) e diedero il nome di Plasmodium al genere di protozoi che causano le malarie umane. Golgi, nel 1885-86, dimostrò che le diverse forme cliniche della malaria, in particolare la terzana benigna e la quartana, erano causate da parassiti distinti e che la periodicità delle febbri derivava dal ciclo biologico delle diverse specie di parassiti.

Negli anni Novanta le ricerche delle scuole romane di patologia generale e di malariologia clinica diedero un contributo definitivo per chiarire il ciclo della malaria: Grassi, Bignami e Bastianelli contribuirono a perfezionare e ad applicare all’uomo le osservazioni del medico inglese Ronald Ross (1857-1932), ovvero a dimostrare che i parassiti malarici sono trasmessi da zanzare del genere Anopheles.

Mentre la malaria colpiva soprattutto nelle campagne, un’altra malattia infettiva, la tubercolosi, colpiva nelle città e poneva in evidenza i problemi di un’urbanizzazione senza controllo in una società industriale al suo nascere, che aveva come conseguenza una scarsa igiene abitativa. Per questa malattia, prima dell’introduzione degli antibiotici, il principale intervento terapeutico fu la collassoterapia polmonare, attraverso l’immissione di gas fra pleura parietale e viscerale, al fine di eliminare le cavità fomite d’infezione. Proposta da Forlanini, si diffuse nei centri antitubercolari e nei sanatori che vennero fondati nelle principali località salubri della penisola. Forlanini, che applicò in maniera rigorosa le leggi della fisica al corpo umano, studiò gli scambi gassosi tra aria e sangue ad alta e bassa pressione per mezzo di una camera iperbarica di sua concezione. La sua visione ‘iatrofisica’ della medicina fu sfruttata dall’allievo Scipione Riva Rocci (1863-1937) con l’invenzione dello sfigmomanometro a mercurio: strumento diventato quasi simbolo della medicina esercitata al letto del malato.

La ricorrente presenza di malattie infettive sociali come malaria, tubercolosi e colera (che continuò a infierire con periodiche epidemie dopo l’Unità d’Italia) stimolò i progressi dell’igiene, anche con provvedimenti legislativi volti a organizzare capillarmente sul territorio nazionale un servizio di sanità pubblica. Una tappa fondamentale fu la legge varata nel 1888 dal primo ministro Francesco Crispi sotto la spinta tecnica del professore d’igiene dell’Università di Torino Luigi Pagliani (1847-1932). L’organizzazione sanitaria comprendeva l’ufficiale sanitario comunale, i medici provinciali che facevano capo a un Consiglio superiore di sanità e alla Direzione generale di sanità pubblica presso il ministero dell’Interno. La legge Crispi-Pagliani costituì un importante strumento di controllo delle epidemie (fra queste sempre temibili le periodiche epidemie di colera: le ultime si verificarono nel 1893 e nel 1910-11) e rese obbligatoria la vaccinazione antivaiolosa.

Di rilievo internazionale furono anche gli studi condotti sull’anchilostomiasi, una malattia parassitaria anemizzante che colpiva soprattutto i minatori. Nel 1838 Angelo Dubini (1813-1902) descrisse l’Ancylostoma duodenalis, le cui caratteristiche manifestazioni cliniche furono definite nel 1878 da Grassi e da Corrado ed Ernesto Parona. L’anno dopo Edoardo Perroncito (1847-1936) iniziava le indagini sull’anemia dei minatori che colpiva gli operai impiegati nel traforo del San Gottardo e identificava il parassita nell’intestino dei pazienti. Grazie a queste ricerche fu possibile introdurre adeguate norme igieniche per l’interruzione della catena di trasmissione della malattia e per il trattamento dei pazienti con estratto etereo di felce maschio.

Contributi importanti vennero anche dallo sviluppo della virologia. Nel 1896 Giuseppe Sannarelli (1864-1940), mentre era direttore dell’Istituto d’igiene dell’Università di Montevideo, descrisse una malattia infettiva dei conigli che definì mixomatosi e che riconobbe generata da un agente eziologico invisibile, diverso dai batteri e da altri parassiti allora conosciuti: si trattava di un virus. Le prime descrizioni di lesioni anatomopatologiche specifiche determinate da malattie virali, caratterizzate dalla manifestazione di inclusioni protoplasmatiche, sono dovute a Giuseppe Guarnieri (1857-1918) nel 1893 per il vaiolo e a Negri, nel 1903, per la rabbia (corpi del Negri). Quest’ultimo mise a punto un test che rese possibile una diagnosi microscopica rapida degli animali rabbiosi.

Il concetto di antagonismo tra microbi, scoperto da Louis Pasteur (1822-1895) e definito antibiosi nel 1889 da Jean Paul Vuillemin, fu studiato in Italia da Vincenzo Tiberio (1869-1915) che, nel 1895, pubblicò osservazioni che dimostravano il potere battericida di sostanze derivate da alcune muffe, tra cui Penicillium glaucum. Nel 1896, nel corso di alcuni studi sull’eziologia della pellagra, Bartolomeo Gosio (1865-1944, allievo di Pagliani) cristallizzò, a partire da una coltura di Penicillium glaucum o forse di Penicillium brevicompactum, una sostanza con proprietà fenoliche di cui dimostrava l’azione antibiotica ottenendo l’inibizione della crescita in coltura del bacillo dell’antrace.

Le origini dell’immunologia trovarono in qualche modo radici anche in Italia dopo che Bizzozero, nel 1871-72, identificò con precisione il processo di fagocitosi, ridescritto dieci anni dopo da Il´ja Mečnikov. Il patologo Guido Tizzoni (1853-1932) sviluppò gli studi sulla sostanza antitossica scoperta nel 1890 da Emil Behring e Shibasaburo Kitasato: l’11 gennaio 1891 comunicò all’Accademia delle scienze di Bologna (insieme con Giuseppina Cattani, 1859-1914) che doveva trattarsi di una globulina, da lui indicata come antitossina, termine che si impose in ambito internazionale. Nel 1898 l’immunologo Serafino Belfanti (1860-1939) descriveva, assieme a Tito Carbone (1863-1904), i fenomeni di emolisi nei cavalli iniettati ripetutamente con sangue di coniglio: la reattività immunitaria si sviluppava dunque non solo verso batteri, ma anche contro gli innocui globuli rossi, poiché le cellule interagiscono con i fattori dell’immunità tramite molecole fissate sulla parete cellulare (che nel 1893 Eugenio Centanni chiamò stomiti e che corrispondevano a quelli che Paul Ehrlich chiamerà recettori).

Nell’ambito dell’applicazione sierodiagnostica delle reazioni immunitarie, Carlo Moreschi (1876-1921), lavorando soprattutto in Germania, comprese nel 1907 sia la possibilità di agglutinare i globuli rossi nei sieri emolitici, anticipando il test per l’antiglobina di Coombs (come riconoscerà lo stesso Robin Coombs nel 1945), sia il meccanismo alla base della deviazione del complemento (fenomeno di Moreschi), su cui si basava la reazione di Wassermann per la sierodiagnosi della sifilide. Moreschi fondò nel 1920, mentre ricopriva la cattedra di clinica medica a Messina e un anno prima di morire per un vaiolo emorragico contratto da un malato, la rivista «Haematologica», insieme all’ematologo Adolfo Ferrata (1880-1946).

Questi, lavorando a Berlino, dimostrò per primo che il complemento è una sostanza dissociabile in due componenti singolarmente inattive; studi che prelusero a successive ricerche che lo scomposero ulteriormente in frazioni sempre più piccole. In seguito, tornato in Italia, Ferrata si dedicò alla caratterizzazione delle cellule ematiche periferiche e midollari, identificando negli anni 1912-13 il capostipite originario (emoistioblasto o cellula di Ferrata), cioè una cellula staminale pluripotente da cui derivano le serie eritroidi, mieloidi, linfocitarie e monocitarie: la tabella a colori da lui preparata delle varie forme cellulari in corso di differenziamento fu inserita nei testi di medicina di tutto il mondo. Il concetto di totipotenza cellulare, esplicitamente presente nella sua opera, è diventato una delle idee-forza e una speranza della medicina rigenerativa contemporanea. Anche i suoi allievi, primo fra tutti Giovanni Di Guglielmo (1886-1961, che definì l’eritremia acuta, poi nota come malattia di Di Guglielmo), hanno continuato a fornire contributi rilevanti all’ematologia.

Una posizione di rilievo negli anni postunitari fu assunta dalla clinica con l’emergere di figure che acquisirono rilievo internazionale. Fra queste, Pietro Grocco (1856-1916), che insegnò a Pavia, Perugia, Pisa e Firenze, notevole per i contributi alla semeiotica neurologica e per la definizione di nuovi quadri morbosi, Baccelli e Murri, professore a Bologna, il cui nome è rimasto associato all’emoglobinuria intermittente.

A cavallo del primo conflitto mondiale

La generale mobilitazione a favore degli sforzi bellici coinvolse anche la medicina italiana. La Croce rossa italiana, attiva fin dal 1864 a Milano come comitato dell’Associazione italiana per il soccorso ai feriti e ai malati in guerra, riuscì a costituire una rete di assistenza che incluse migliaia di infermiere volontarie operanti nelle retrovie, negli ospedali militari da campo, nei treni speciali per il trasporto dei traumatizzati, fino ai nosocomi militari di riferimento. Anche la produzione scientifica rimasta attiva risentì del conflitto, riservando ampi spazi dedicati a studi sui traumi da guerra, l’epidemiologia delle malattie contagiose nelle trincee, la neurochirurgia centrale e periferica.

Verso la fine della Prima guerra mondiale esplose in maniera devastante l’epidemia di influenza spagnola, che si propagò con tre ondate subentranti nella primavera e nell’autunno del 1918 e nei primi mesi del 1919. La via di diffusione aerea del contagio e i contatti fra popolazioni e soldati al fronte nei periodi cruciali dell’offensiva sul Piave e della battaglia di Vittorio Veneto, che portò alla vittoria sull’impero asburgico, concorsero a rendere devastante l’impatto della malattia con centinaia di migliaia di decessi (secondo alcune statistiche, fra 325.000 e 600.000). L’influenza, così come misteriosamente si era originata, altrettanto misteriosamente scomparve, lasciando una lunga scia di lutti che si sommarono a quelli della guerra. Oggi sappiamo che il virus H1N1 che la causò, e che sarebbe ricomparso in forme meno letali decenni dopo, aveva fatto un salto di specie, e per questo era stato così mortale.

Meno devastante, ma subdola e insidiosa, fu l’esplosione quasi contemporanea di un’altra malattia infettiva, l’encefalite letargica. Descritta dal medico romeno naturalizzato austriaco Constantin von Economo (1876-1931) nel 1916, attraversò ben presto le linee belliche. La maggior parte dei malati che sopravvivevano alla fase acuta, caratterizzata da una mortalità attorno al 25-30% dei casi, dopo alcuni anni di apparente benessere sviluppavano una sindrome parkinsoniana gravemente invalidante. La malattia fu trattata con discreto successo, negli anni Trenta, con estratti di belladonna, secondo un protocollo introdotto dall’erborista bulgaro Ivan Raev e diffuso in Italia grazie all’impegno organizzativo promosso dalla regina Elena di Savoia e sulla base degli studi favoriti dal neurologo romano Giuseppe Panegrossi.

Negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale il percorso di formazione dei medici avviati alla carriera universitaria prevedeva, quasi obbligatoriamente, un periodo di formazione all’estero, specialmente in Germania. Alcuni centri tedeschi di ricerca clinico-scientifica esercitarono un particolare potere di attrazione sui medici italiani; tra questi la clinica diretta dallo psichiatra Emil Kraepelin a Monaco, frequentata, tra gli altri, da Gaetano Perusini (1879-1915), Ottorino Rossi (1877-1936) e Ugo Cerletti (1877-1963). Particolarmente sviluppati erano gli studi di nosografia neuropsichiatrica, nel tentativo di trovare una base neuropatologica per le malattie del sistema nervoso. In questo filone si inseriscono i lavori di Alois Alzheimer, con il quale collaborò Perusini in studi fondamentali sulla demenza senile. Rossi, dopo il periodo passato a Monaco, diventò clinico, neurologo e neuropatologo famoso, nonché rettore dell’Università di Pavia. Cerletti insegnò a Roma dal 1935 e raggiunse fama internazionale per la messa a punto, con Lucio Bini (1908-1964), della terapia elettroconvulsivante (elettroshockterapia).

Medico cosmopolita fu il clinico e microbiologo Aldo Castellani (1874-1971), che aveva studiato a Firenze laureandosi nel 1899, avendo avuto come insegnanti l’anatomopatologo Guido Banti (1852-1925, che definì il morbo di Banti un quadro anatomoclinico caratterizzato dalla triade: splenomegalia, anemia, cirrosi) e Alessandro Lustig (1857-1937, conosciuto per i lavori batteriologici). Castellani diventò celebre per i suoi studi di medicina tropicale che lo portarono a identificare il tripanosoma responsabile della malattia del sonno, l’agente della framboesia, e che gli permisero di definire nosograficamente la broncospirochetosi emorragica.

Agli anni a cavallo del primo conflitto mondiale risalgono anche le prime ricerche ematologiche applicate alla medicina legale di Leone Lattes (1887-1954), allievo a Torino di Lombroso e in seguito professore di medicina legale a Catania, Messina e Modena prima di approdare, nel 1933, alla sede definitiva di Pavia. Nel 1915 Lattes sviluppò un metodo per l’identificazione del gruppo sanguigno nelle tracce ematiche, e descrisse poi dettagliatamente l’isoagglutinazione identificando il processo di pseudoagglutinazione. Studi che continuarono nei decenni seguenti e che contribuiranno in maniera essenziale alle indagini sulla paternità e alla compatibilità del sangue in caso di trasfusione.

Fascismo e medicina

Benito Mussolini teneva il 26 maggio 1927 il ‘discorso dell’Ascensione’, in cui esaminava lo stato del popolo italiano «dal punto di vista della salute fisica e della razza». Il capo del fascismo, snocciolando dati comparativi fra diverse popolazioni europee, metteva in guardia contro il declino demografico dell’Italia, lanciando l’idea che la potenza di una nazione fosse determinata dalla sua demografia. Un concetto che si saldò con le prospettive a favore della natalità della Chiesa cattolica, traducendosi in una politica di sostegno alle nascite, di aiuto alla maternità, di contributi economici per le famiglie prolifiche, di sanzioni per il celibato. Quella scatenata da Mussolini fu una sorta di ‘frustata demografica’ che mobilitò la nazione.

L’ideologia che si pose alla base di queste istanze trovò alimento nelle elaborazioni statistiche di Corrado Gini (1884-1965) e finì per giustificare la politica coloniale intesa come necessità vitale di un popolo giovane in fase di crescita ma limitato dalla povertà del territorio e di risorse naturali. Si realizzò così un legame fra politica e biologia, dove la seconda forniva strumentalmente una giustificazione alla prima, per es. sostenendo l’idea di una gerarchia delle razze, e che affondava le sue radici in una parte del positivismo ottocentesco. Da cui le restrizioni agli incroci razziali, intesi come minaccia alla stabilità della popolazione e temuti in quanto promotori della diffusione di elementi ‘degenerativi’.

Tuttavia, il movimento eugenico in Italia, ma anche in altre aree cattoliche come la Francia e l’America Meridionale, guardò con diffidenza al ‘mito della razza’ e assunse connotati particolari, secondo una variante ‘latina’ che, in ossequio alle direttive ecclesiastiche, tese a ostacolare l’introduzione di elementi normativi nella sfera riproduttiva, contrastando gli interventi di sterilizzazione degli individui portatori di tare ereditarie o i programmi di controllo delle nascite. Si trattava di varianti eugeniche più ‘morbide’ rispetto a quelle dell’Europa settentrionale, degli Stati Uniti e della Germania, e si saldarono, dopo i Patti lateranensi, con l’azione sociale della Chiesa cattolica.

Il mondo medico fornì forti legittimazioni all’eugenica sulla base delle classificazioni biotipologiche di Nicola Pende (1880-1970), lungo una linea di studio ereditata dal costituzionalismo di Achille De Giovanni (1838-1916) e Giacinto Viola (1870-1943). Gli individui erano ripartiti sulla base del loro assetto ormonale-vegetativo, considerato essenziale nella loro determinazione psicobiologica. Nel 1938 il nuovo clima politico caratterizzato dall’avvicinamento fra Italia e Germania produsse l’infame Manifesto degli scienziati razzisti, redatto, sotto il controllo di Mussolini, da alcuni assistenti universitari e incaricati d’insegnamento cui si aggiunsero i nomi di alcuni autorevoli clinici e biologi, quali il neuropsichiatria Donaggio, lo zoologo Edoardo Zavattari, il fisiologo Sabato Visco e il patologo medico Pende, presto seguiti da altre personalità della scienza e della cultura italiane. L’abominio delle leggi razziali non si fece attendere e furono cacciati decine di ebrei professori universitari e funzionari dello Stato, molti dei quali presero la via dell’esilio.

Tra fascismo e dopoguerra

La cappa stesa dall’egemonia autarchica e dalla censura fascista non spense del tutto la ricerca e la creatività scientifica. Lo attestano alcuni esempi di eccellenza che incisero sullo sviluppo delle scienze biomediche. Legati ai grandi contributi malariologici italiani di fine Ottocento furono gli studi di un collaboratore di Gosio, Alberto Missiroli (1883-1951), che diresse la Stazione sperimentale per la lotta antimalarica finanziata dalla Rockefeller foundation nel 1925, contribuendo a produrre (insieme a Erich Martini e Lewis Hackett) una mappa accurata della distribuzione nell’Europa meridionale delle zanzare vettrici in rapporto alla diffusione della malattia. La realizzazione della mappa fu possibile grazie alla scoperta da parte di Domenico Falleroni, nel 1926, che le zanzare anopheles implicate nella trasmissione della malaria appartengono a un complesso di specie criptiche allo stadio adulto (complesso maculipennis), ma distinguibili dalla morfologia delle uova. Sempre in ambito malariologico, Giulio Raffaele scoprì nel 1936 la fase di sviluppo esoeritrocitaria del parassita malarico.

Un altro esempio di eccellenza biomedica fu quello dell’anatomista Giuseppe Levi, istologo di fama internazionale e maestro di tre premi Nobel (Salvador E. Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini), e di Oliviero Mario Olivo, Rodolfo Amprino, Cornelio Fazio e, per un breve periodo, di Luigi Luca Cavalli-Sforza. Un esempio notevole di creatività associata a eccellente capacità organizzativa e a una visione politico-culturale non provinciale della funzione sociale della scienza, che ha influenzato in profondità la biologia italiana, è quello del genetista Adriano Buzzati-Traverso che, nel 1958, creò in Italia il primo dottorato di ricerca in genetica, nel 1962 fondò il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica a Napoli, ed è stato protagonista di vari tentativi di introdurre in Italia sistemi efficaci di organizzazione e promozione della ricerca e della formazione in ambito scientifico e tecnologico. Fra i numerosi allievi diretti e indiretti di Buzzati-Traverso, il più importante è stato Cavalli-Sforza (n. 1922), professore a Parma, Pavia e Stanford, che scoprì i batteri Hfr (High frequency recombination), grazie ai quali si svilupparono gli studi sulla sessualità nei batteri.

Un altro esempio di creatività scientifica che emerse negli anni del fascismo e si sviluppò appieno nel secondo dopoguerra fu Vittorio Erspamer (1909-1999). All’inizio degli anni Trenta, l’Università di Pavia sentiva ancora, ma solo come ricordo, la presenza dell’eredità golgiana, personificata da alcuni allievi del grande maestro scomparso nel 1926. A Pavia era, tuttavia, attivo Maffo Vialli (1897-1983), un anatomocomparato appassionato allo studio dell’istochimica, la scienza emergente in grado di ‘far parlare i tessuti’ saggiandone la reattività biochimica. Con lui iniziò a collaborare Erspamer, studente di medicina e allievo del collegio Ghislieri di Pavia: dopo una lunga e laboriosa serie di ricerche, i due studiosi furono in grado di comunicare la scoperta di una sostanza secreta dalle cellule cromaffini dell’intestino che denominarono enteramina, poi divenuta nota come 5 idrossitriptamina o serotonina.

Nel 1951 toccherà ancora a Erspamer, con la collaborazione di Biagio Asero, caratterizzare con precisione questa sostanza: solo più tardi, in altri laboratori, si chiariranno i molteplici ruoli svolti dalla serotonina in fondamentali funzioni fisiologiche, particolarmente del sistema nervoso centrale (regolazione del sonno, del comportamento alimentare, percezione del dolore). Erspamer occuperà nel dopoguerra la cattedra di farmacologia dell’Università di Bari (1947), poi di Parma (1955) e infine di Roma, dove fondò una scuola scientifica che diventò protagonista internazionale nella ricerca delle sostanze attive sui tessuti biologici – e sul sistema nervoso in particolare – come le tachichinine, la bombesina, la sauvagina e gli oppiacei dermorfine e deltorfine.

Sempre in ambito farmacologico è di rilievo il lavoro di Giuseppe Brotzu (1895-1976), professore di igiene dapprima a Modena poi a Cagliari, che nel 1945 scoprì la cefalosporina insieme al suo collaboratore Antonio Spanedda. Nel corso di studi epidemiologici sul tifo a Cagliari i due ricercatori constatarono che in una fogna aperta sul mare il numero di salmonelle era notevolmente basso e i bagnanti non contraevano il tifo neanche quando mangiavano pesce crudo. Essendo a conoscenza della scoperta degli effetti della penicillina, Brotzu ipotizzò che nel mare fosse presente un organismo che inibiva la crescita di Salmonella typhi. Riuscì allora a isolare dall’acqua di scarico una muffa (Cephalosporium acremonium) che, in coltura su agar, inibiva la crescita dei batteri gram positivi, tra cui patogeni importanti come stafilococchi, streptococchi, l’agente del colera e, ovviamente, quello del tifo; ma anche il batterio della peste e quello della brucellosi. La mancanza di mezzi consentì ai due ricercatori di estrarre soltanto il principio antibiotico, che chiamarono micetina, e di sperimentarlo in vitro e sull’uomo. Attraverso un ufficiale medico inglese, Brotzu inviò un campione di ceppi e copie delle sue pubblicazioni alla Oxford school of pathology, dove lavoravano Howard Florey ed Edward Abraham. Quest’ultimo estrasse tre principi antibiotici, di cui uno (cephalosporin C) fu il capostipite di un’importante generazione di farmaci antibatterici.

Un’originale esperienza italiana nel primo dopoguerra è quella legata all’opera del neurofisiologo Giuseppe Moruzzi (1910-1986), allievo a Parma di Mario Camis, che aveva trasferito in Italia i metodi elettrofisiologici appresi dall’inglese Charles Scott Sherrington. Nel 1938 Moruzzi collaborò a Cambridge con Edgar Douglas Adrian, premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1932, con il quale sviluppò importanti studi fisiologici. Dopo la guerra Moruzzi si trasferì alla Northwestern University di Chicago e, insieme a Horace W. Magoun, scoprì il rapporto fra la funzione della formazione reticolare del tronco dell’encefalo e gli stati di veglia e di sonno. In seguito, tornato in Italia, sviluppò un prestigioso centro internazionale di ricerca neurofisiologica, legata, tra gli altri, ai nomi di Giovanni Berlucchi, Lamberto Maffei, Giacomo Rizzolatti, Emilio Bizzi, Piergiorgio Strata, Alberto Zanchetti.

Emblematico della difficile condizione della ricerca scientifica in Italia, vittima di freni burocratici, prepotenza della politica e assenza di programmazione organica, rivalità accademiche baronali, mancanza di moralità e scarsa percezione del valore della scienza, è il ‘caso Marotta’ – una delle vicende che maggiormente hanno segnato la storia delle scienze biomediche italiane nel dopoguerra. Nel 1947 il direttore dell’Istituto superiore di sanità a Roma, Domenico Marotta, proponendosi di trasformare l’ente in un grande centro della ricerca scientifica internazionale, chiamò alla guida dei nuovi laboratori di chimica terapeutica Daniel Bovet, ricercatore svizzero ben noto per i suoi studi farmacologici sviluppati all’Institut Pasteur di Parigi, che avevano contribuito alla ricerca sui sulfamidici e sugli antistaminici. L’anno dopo l’Istituto si arricchì con l’arrivo di Ernst Boris Chain, premio Nobel nel 1945 per il suo contributo all’isolamento e alla purificazione della penicillina, sostanza che venne posta in produzione dall’ente per rifornire l’esercito, gli ospedali e gli istituti zooprofilattici.

Con il conferimento del premio Nobel a Bovet, nel 1957, il centro scientifico era avviato a diventare un’istituzione veramente internazionale, quando iniziò un attacco politico e giudiziario, che si dimostrerà infondato quando ormai sarà troppo tardi. Marotta dovette difendersi da accuse di falso ideologico, peculato e falso materiale nella gestione dell’Istituto e all’età di ottant’anni fu condannato a quasi sette anni di carcere. In appello le accuse furono ridimensionate e l’imputato assolto. Purtroppo però il danno era già stato fatto: mentre l’Istituto cadeva in uno stato di semiparalisi, Chain interrompeva ogni rapporto di collaborazione e Bovet si trasferiva sulla cattedra di farmacologia all’Università di Sassari, lavorando contemporaneamente nel Brain research institute della University of California.

Un esempio notevole di collaborazione scientifica che ha prodotto risultati nella ricerca clinica e nell’organizzazione della lotta contro specifiche malattie è quello legato ai nomi degli ematologi Ezio Silvestroni (1905-1990) e Ida Bianco (1917-2006) a partire dal 1939, quando iniziò il loro sodalizio scientifico alla Clinica medica dell’Università di Roma diretta da Cesare Frugoni. Nel 1943 i due ricercatori scoprirono e descrissero la microcitemia (denominata successivamente talassemia minor), e poi dimostrarono che il morbo di Cooley (talassemia major o anemia mediterranea) si trasmette con modalità mendeliane ed è espressione della condizione omozigote della malattia. Nel 1944 Silvestroni e Bianco osservarono il primo caso al mondo di una malattia causata dall’associazione nel malato di due anomalie ematologiche ereditarie, la microcitemia e la falcemia (o drepanocitosi), che si rivelò non rara nelle regioni meridionali d’Italia. Fra il 1945 e il 1960 stabilirono la distribuzione geografica delle microcitemie, che è rimasta invariata da allora. Nel 1954, anno in cui si unirono in matrimonio, fondarono il Centro di studi della microcitemia di Roma, alla cui opera si devono risultati fondamentali per il controllo e la riduzione della malattia nel Lazio e, più in generale, in tutta la penisola.

I due ricercatori avrebbero dovuto continuare una carriera universitaria iniziata nelle sale della Clinica medica di Roma, ma Silvestroni, il cui prestigio era riconosciuto internazionalmente, dopo aver conseguito l’idoneità da ordinario in alcuni concorsi universitari, si vide rifiutare la cattedra di patologia medica dell’Università di Modena. Anche la moglie, assistente di ruolo alla Clinica medica di Roma, vide frustrate le sue legittime aspirazioni a una carriera universitaria più che dovuta e fu trascinata in una lunga vertenza – per il semplice mantenimento del suo posto di ruolo di assistente universitario – che terminò soltanto nel 1966 con il suo pensionamento.

Le vicende della coppia Silvestroni-Bianco, come quelle di Buzzati-Traverso e di Marotta, risultano espressione emblematica della difficile situazione della ricerca scientifica in Italia.

Gli ultimi cinquant’anni

Nonostante le difficoltà, grazie allo spirito di iniziativa e alla passione per la scienza di alcuni ricercatori, nella seconda metà del 20° sec. non sono mancati importanti contributi italiani alla biomedicina, spesso in relazioni di continuità tematica e talvolta ‘di scuola’ con quelli già ricordati. Un caso riguarda certamente l’ematologia, che ha mantenuto un’indubbia posizione di prestigio internazionale grazie agli studi di Antonio Cao (1929-2012) e Ruggero Ceppellini (1917-1988).

Cao fu professore di pediatria a Cagliari dal 1974, direttore del Centro per il controllo delle emoglobinopatie ereditarie dell’Organizzazione mondiale della sanità dal 1982 e direttore dell’Istituto CNR per le ricerche sulle talassemie e anemie mediterranee dal 1992. A Cagliari creò una struttura di ricerca e una scuola di rilevanza internazionale nello studio della biologia molecolare delle malattie genetiche e fu tra i primi a utilizzare metodi molecolari sviluppati dall’ingegneria genetica e biochimica allo studio della talassemia. In collaborazione con Yuet Wai Kan, dell’Università della California a San Francisco, fu il primo, nel 1975, a effettuare l’identificazione molecolare prenatale della talassemia. Tale possibilità diagnostica e una migliore comprensione delle basi genetico-molecolari della talassemia consentirono di lanciare una campagna educativa e un programma di screening degli eterozigoti a livello dell’intera popolazione sarda. Lo screening, associato alla consulenza genetica e alla diagnosi prenatale, ha portato a una riduzione della nascita di bambini talassemici in Sardegna: da 1 su 250 nascite in assenza di prevenzione, a 1 su 4000. L’identificazione delle basi genetico-molecolari della talassemia che colpisce la popolazione sarda ha dimostrato che oltre il 90% delle forme dipendono da una singola mutazione: ciò significa che la popolazione sarda discende da un piccolo numero di fondatori.

Tra le scoperte di Cao sulle basi genetico-molecolari dei fenotipi clinici talassemici va segnalata quella di due mutazioni sullo stesso cromosoma che elidono reciprocamente gli effetti negativi e possono dar luogo a portatori che sfuggono all’esame clinico.

Ceppellini, dal 1958 professore di genetica umana all’Università di Torino, si formò come ematologo agli inizi degli anni Cinquanta, studiò la genetica del fattore Rh del sangue con ricerche sviluppate in Sardegna sui rapporti geografici tra la frequenza della talassemia e la presenza della malaria. Nel corso di questi studi scoprì che nelle zone costiere dove l’incidenza della malaria era stata elevata vi era una più alta prevalenza di talassemia, mentre nelle zone montane, con meno malaria, la prevalenza della talassemia era più bassa. Queste ricerche confermavano l’ipotesi avanzata da John B.S. Haldane nel 1948 che la malaria fosse un fattore selettivo causalmente responsabile dell’elevata frequenza delle mutazioni talassemiche in alcune zone della Sardegna.

Negli anni Sessanta Ceppellini modificò i suoi interessi scientifici partecipando alla scoperta delle basi genetiche del controllo delle risposte immunitarie, cioè all’identificazione del complesso principale di istocompatibilità nell’uomo e alla comprensione del ruolo che svolge nel rigetto dei trapianti. Per la rilevanza dei suoi contributi fu incluso, a metà degli anni Sessanta, nel gruppo di immunologi che l’Organizzazione mondiale della sanità insediò per standardizzare la nomenclatura delle immunoglobuline.

Il contributo scientifico di Ceppellini fu anche teorico, ma sempre con importanti ricadute mediche. Le sue idee più importanti riguardarono la concettualizzazione dei dati sperimentali derivanti dalle reazioni sierologiche di istocompatibilità. Nel 1967 introdusse il concetto di aplotipo per definire l’insieme dei determinanti genetici che vengono ereditati da uno dei genitori. Grazie a questo contributo e all’interpretazione dei test condotti sull’istocompatibilità, è stato possibile dimostrare che le reazioni sierologiche associate al rigetto dei trapianti sono controllate da un singolo sistema genetico altamente polimorfo, che è stato chiamato sistema HLA (Human Leucocyte Antigen). Dallo studio sperimentale delle basi genetiche dell’istocompatibilità è derivata la possibilità di ridurre i rischi di rigetto dei trapianti d’organo.

Sempre in ambito ematologico-immunologico, ricordiamo i contributi di Lorenzo Moretta (n. 1948), che nel 1977 identificò alcune sottopopolazioni di linfociti T con diverse funzioni nel controllo della risposta anticorpale. Le sue ricerche si svilupparono nello studio dell’immunologia dei tumori umani, analizzando il ruolo di alcune classi di linfociti che aprono nuove prospettive per il trattamento delle leucemie mieloidi refrattarie alla chemioterapia. Sulla linea delle ricerche immunologiche si collocano anche i notevoli contributi di Alberto Mantovani (n. 1948), professore di patologia generale prima a Brescia e poi a Milano. Mantovani, ma anche Angela Santoni (n. 1950), sulla cattedra di immunologia a Roma, hanno contribuito al riemergere dell’attenzione scientifica sui meccanismi dell’immunità innata, cioè sui sistemi di difesa più primitivi.

Un settore in forte continuità tematica con la storia scientifica italiana è certamente quello delle neuroscienze. Uno dei risultati più significativi in quest’ambito è la scoperta dei neuroni specchio, identificati a Parma negli anni Novanta da un allievo di Giuseppe Moruzzi, Giacomo Rizzolatti (n. 1937), in collaborazione con Vittorio Gallese, Leonardo Fogassi, Luciano Fadiga e Giuseppe di Pellegrino. Si tratta di particolari neuroni motori in grado di rispondere a stimoli sensitivi, il cui studio promette di rivoluzionare interi settori della neuropsicologia con applicazioni alla patologia (studio dell’autismo e dell’ictus) e alla neuroriabilitazione. Contributi rilevanti alle indagini sulle funzioni superiori si sono sviluppati in Italia anche a partire dalla clinica neurologica, soprattutto per merito di Ennio De Renzi (n. 1924) e della sua scuola di neuropsicologia, conosciuta poi come Milan group of neuropsychology, attivo a partire dagli anni Sessanta e raccolto attorno all’autorevole rivista «Cortex».

I contributi di alcuni ricercatori esprimono bene il notevole livello che l’industria farmaceutica italiana ha raggiunto (e poi, purtroppo, in gran parte perduto) nella seconda metà del Novecento. Formatisi nelle università italiane, questi ricercatori hanno potuto esprimere la loro creatività scientifica nei laboratori di ricerca delle industrie farmaceutiche, dove hanno ottenuto risultati di grande prestigio scientifico. Piero Sensi (n. 1920), per es., lavorando presso l’azienda chimica Montecatini, poi nei Laboratori di ricerca Lepetit di Milano, dove agli inizi degli anni Cinquanta diresse il reparto Fermentazione e prodotti naturali, studiò i microrganismi presenti nei terreni per scoprire nuovi antibiotici. Analizzando un campione di terreno raccolto nei pressi di Saint-Raphael in Provenza, isolò un ceppo di funghi produttori di sostanze denominate rifamicine. Nel 1959 ottenne un analogo semisintetico più stabile che chiamò rifampicina. Attraverso la collaborazione di Vladimir Prelog del Politecnico di Zurigo, che mise a disposizione le analisi di spettrometria di massa, fu stabilita nel 1963 l’identità chimica della rifampicina B, di cui fu modificata la struttura chimica originaria per migliorarne l’efficacia antibatterica. Il nuovo farmaco manifestò un’attività antimicrobica assai efficace contro i micobatteri della tubercolosi e della lebbra, ed entrò in uso nel 1967. Nel 1966 Sensi diventò direttore dei Laboratori di ricerca della Lepetit che nel frattempo investì notevolmente nel settore di ricerca di nuovi antibiotici. Nel 1974 assunse la carica di direttore della Ricerca e sviluppo dell’azienda, insegnando anche microbiologia industriale presso la facoltà di Farmacia dell’Università degli studi di Milano. Tra il 1974 e il 1981 ricoprì la carica di presidente della Società italiana di scienze farmaceutiche.

Nell’industria farmaceutica italiana si è principalmente svolta l’attività di Federico Arcamone (n. 1928) e Aurelio Di Marco (1915-1984). Il primo, laureato in chimica a Pisa nel 1951, ottenne poi il Diplôme d’études supérieures de sciences physiques nel 1952, per entrare come ricercatore nei laboratori Farmitalia. Nel biennio 1959-61 lavorò nel gruppo guidato dal premio Nobel Ernst Boris Chain dell’Istituto superiore di sanità, che studiava il potenziale terapeutico delle sostanze prodotte da microrganismi. Rientrato in Farmitalia, contribuì alle ricerche che portarono alla scoperta delle antracicline, e lavorò per migliorare l’efficacia e la tollerabilità di questi farmaci antitumorali. Il successo medico e commerciale dell’adriamicina promosse la Farmitalia sul mercato e Arcamone raggiunse i vertici dirigenziali dell’azienda, che nel 1979 si fuse con la Carlo Erba; sotto il controllo della Montedison, diventò poi Erbamont-Farmitalia. Nel 1987 Arcamone lasciò la Farmitalia-Carlo Erba e fino al 1995 ricoprì il ruolo di presidente della Menarini Ricerche Sud. Nel 1997 diventò incaricato di ricerca presso il CNR-ICoCEA di Bologna.

Collaboratore di Pietro Rondoni, Di Marco è stato tra i protagonisti nel secondo dopoguerra dell’oncologia di base in Italia. Nel 1945 entrò in Farmitalia dove diventò direttore dei laboratori di ricerca. La collaborazione con questa industria continuò anche dopo che assunse la direzione del Dipartimento di chemioterapia sperimentale dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Di Marco identificò l’etruscomicina e le clorotetracicline (nuovi antibiotici prodotti da colture di microrganismi) e studiò gli effetti antitumorali delle antracicline.

Nel campo della fisiologia cellulare contributi di grande importanza sono legati al nome di Tullio Pozzan (n. 1949), professore ordinario di patologia generale all’Università di Padova dal 1986, che studiò il ruolo fisiologico del calcio nei mitocondri e mise a punto, insieme a Roger Tsien e Timothy J. Rink, una tecnica rivoluzionaria per misurare la concentrazione di questi ioni nel citoplasma della cellula. La metodologia costituì un’innovazione fondamentale nella storia della biologia molecolare e cellulare in quanto consentiva per la prima volta di studiare la biochimica dei segnali intracellulari. Nel 1992 Pozzan e il suo gruppo padovano riuscirono a far esprimere la proteina fluorescente GFP (Green Fluorescent Protein) nei mammiferi, in grado di marcare specifiche funzioni degli organuli cellulari.

Importanti sono stati i contributi italiani alla genetica. Marco Fraccaro (1926-2008) è stato un pioniere della citogenetica, di cui ha sviluppato metodi e modelli di studio, definendo nuove patologie cromosomiche. Nel 1971 è stato uno dei membri del comitato ristretto di Parigi per la standardizzazione della citogenetica umana, che ha fornito le basi per l’identificazione dei singoli cromosomi e per lo studio dei loro riarrangiamenti. Nel campo della genetica fondamentale va ricordata la scoperta di Edoardo Boncinelli (n. 1941) e Antonio Simeone (n. 1958) dei geni omeotici nell’uomo (1986). Così come gli studi di Giuseppe Macino (n. 1947), che nel 1976 scopriva il codice genetico usato dal Dna dei mitocondri, e agli inizi degli anni Novanta i microRna, per cui è stato ricordato (benché non premiato) in occasione dell’assegnazione del premio Nobel 2006.

Nel campo microbiologico un posto significativo occupano le ricerche malariologiche di Mario Coluzzi (1938-2012), che già negli anni Cinquanta aveva messo in evidenza l’effetto del DDT (DicloroDifenil Tricloroetano) sul comportamento delle zanzare vettrici di malaria. Con il suo gruppo di ricerca, in seguito, contribuì in maniera essenziale a chiarire le basi entomologiche di questa malattia infettiva nell’Africa subsahariana, attraverso gli studi di citogenetica ed epidemiologia delle zanzare africane trasmettitrici di malaria.

Nell’ambito virologico una posizione di eccellenza è occupata da Mario Rizzetto (n. 1945), professore di gastroenterologia a Torino, che nel 1978 identificò il virus dell’epatite delta attivo soltanto in correlazione alla presenza del virus dell’epatite B e definendo un nuovo meccanismo patogenetico di malattia.

Una nuova concezione del trattamento dei tumori alla mammella derivò dagli studi del gruppo di Umberto Veronesi (n. 1925) all’Istituto nazionale dei tumori di Milano, che nel 1981 dimostrò come la chirurgia conservativa nel trattamento precoce del cancro del seno (meno di 2 cm) non forniva risultati inferiori alla mastectomia radicale. Si trattò della prima prova relativa alla possibilità di utilizzare un intervento chirurgico meno aggressivo e mutilante per le donne, senza comprometterne le aspettative di sopravvivenza. La procedura utilizzata da Veronesi consiste nella quadrantectomia, un’operazione che determina la rimozione completa del quadrante del seno che ospita il tumore primario, inclusa la pelle e la fascia superficiale del muscolo pettorale principale. L’evoluzione della chirurgia conservativa introdotta da Veronesi è proseguita con la biopsia del linfonodo sentinella per evitare la dissezione ascellare nei casi in cui i linfonodi siano sani. Dieci anni prima, Gianni Bonadonna (n. 1934) aveva guidato una serie di sperimentazioni cliniche fondamentali sull’efficacia delle chemioterapie combinate contro la malattia di Hodgkin, e nel trattamento adiuvante postoperatorio del carcinoma mammario.

Fra i contributi di rilievo della neurologia italiana vanno ricordati quelli di Elio Lugaresi (n. 1926) sulla neurofisiologia del ritmo sonno-veglia che portarono alla scoperta di una nuova malattia da prioni, l’insonnia familiare fatale.

Nell’ambito psichiatrico, pur tra molte controversie, si colloca l’attività di Franco Basaglia (1924-1980), ‘padre’ della legge quadro 180 che abolì i manicomi, stabilì la chiusura di quelli esistenti, regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio e istituì i servizi di igiene mentale. Laureatosi in medicina a Padova, Basaglia ha l’indubbio merito culturale e politico di aver superato una gestione poliziesca ed esclusivamente clinica dei malati di mente, attraverso la reclusione manicomiale, che toglieva loro dignità, diritti e opportunità terapeutiche. Anche se alcune tesi da lui sostenute, come, per es., l’affermazione di un’eziologia esclusivamente sociale dei disturbi mentali e la sottovalutazione dei trattamenti farmacologici, sono infondate e hanno connotato il dibattito sull’assistenza psichiatrica in Italia di accenti ideologici dannosi, è merito di Basaglia se anche in Italia si è affermato l’importante e più civile concetto che il fine dell’operare medico in campo psichiatrico è la salute mentale dei pazienti.

Infine, in ambito biomedico sono molti i ricercatori formatisi in Italia che hanno poi realizzato all’estero il meglio della loro attività scientifica. Basterà qui fare i nomi di Elio Raviola (n. 1932), professore di anatomia e poi di neuroscienze all’Università di Harvard, noto per le sue ricerche sulla miopia, sull’anatomia e sulla fisiologia retinica; di Napoleone Ferrara (n. 1956), scopritore del fattore di crescita vascolare endoteliale e autore di un trattamento mirato contro i tumori; di Giulio Tononi (n. 1960) autore di studi fondamentali sul sonno, sul sogno e sulla coscienza.

Conclusioni

La medicina in Italia, nel secolo e mezzo della sua storia nazionale, ha vissuto le luci e le ombre di un Paese disomogeneo contrassegnato da continue contraddizioni politiche e sociali mai risolte e sempre ripresentatesi sotto nuove forme. Il momento forse più alto di questa storia è da ricercarsi probabilmente nel periodo postrisorgimentale, quando si avvertiva la sensazione di un progetto unitario che stava promuovendo l’Italia al livello degli altri Paesi europei. La medicina di quel periodo è forse quella che ha meglio dato prova di sé con scoperte e nomi che hanno profondamente inciso nella storia della scienza mondiale. L’Europa aveva provato simpatia per il nuovo Stato e ciò che in pochi anni l’Italia andava realizzando era colto come un grande esempio da seguire.

Santiago Ramón y Cajal, il grande neuroanatomista spagnolo che avrebbe vinto il premio Nobel con Golgi nel 1906, scrisse nella prefazione al suo Manual de histología normal y técnica micrográfica (1889) che il suo Paese avrebbe dovuto emanciparsi e crescere «seguendo i sentieri attraverso i quali la giovane Italia era riuscita a scuotersi dalla tutela della scienza tedesca e francese». Poi qualcosa s’inceppò e l’Italia del progresso ha dovuto convivere con l’Italia del malaffare che, con alti e bassi, ha purtroppo condizionato la sua storia civile fino a oggi. E che ha penalizzato anche la scienza e, in generale, la qualità della ricerca intellettuale accademica nel Paese.

Bibliografia

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