MEDICINA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1979)

MEDICINA (XXII, p. 703)

Massimo Aloisi
Mario Coppo

Per economia di trattazione, in questa sede sono presi in considerazione solo alcuni argomenti d'interesse generale, oltre che particolarmente significativi: i rapporti della m. scientifica con la ricerca biologica e quei temi di m. clinica che negli ultimi tempi hanno assunto particolare importanza. Per argomenti più specializzati (genetica umana, immunologia, malattie infettive, medicina nucleare, radiologia medica, virosi, ecc.) si rinvia alle singole voci.

Medicina e biologia. - Gli sviluppi attuali della m. e sul piano teorico e su quello pratico, a parte il prodigioso arricchimento tecnico e i grandi risultati concreti raggiunti, per es., nel campo delle malattie infettive, dell'endocrinologia, dell'ematologia, ecc., risentono ancora di alcune limitazioni di fondo, le quali poggiano da una parte sul fatto che in molti settorì i dati della ricerca sperimentale richiedono lunghi anni per potersi applicare, e dall'altra, e quasi paradossalmente, la stessa ricerca biologica, come si vedrà, tende ad allontanarsi dai problemi concreti della medicina. E in fondo un vecchio problema che si rivive ora sotto aspetti nuovi e più distinti.

Già F. Bacone, che notoriamente era molto critico della m. e dei medici del suo tempo, affermava tuttavia che "la medicina è tra le arti più nobili e non ce n'è alcuna che abbia più illustre prosapia"; ma anche che "l'oggetto della medicina, cioè il corpo umano, è, fra tutti quelli che la natura ha creato, il più suscettibile di rimedi; ma d'altro lato, l'arte di somministrare questi rimedi è la più soggetta all'errore"; "la medicina"), affermava ancora, "se è privata dell'appoggio della filosofia naturale, è poco più che una pratica empirica".

Arte e scienza dunque erano già nel tardo Cinquecento gli elementi costitutivi riconosciuti nell'azione medica, vecchia quanto il mondo. L'epoca della sperimentazione iniziata contemporaneamente da Galileo passò solo tardivamente nel settore biologico ed ebbe un suo primo culmine solo 150 anni dopo con l'opera di L. Spallanzani. Ma la m., per ragioni storiche e per la sua larga diffusione come pratica e per la difficoltà di una sperimentazione imitativa della patologia umana, rimase alquanto indietro, se ancora all'epoca di L. Pasteur vi erano medici che resistevano all'accettazione dell'evidenza sperimentale. Tuttavia, contemporaneo di Pasteur era C. Bernard che dette l'avvio, tanto con l'azione pratica sperimentale quanto concettualmente, a una "medicina sperimentale" perché tale volle egli chiamare la sua ricerca di fisiologia che si giovava naturalmente della sperimentazione su animali. Questa scienza biologica e fisiologica veniva man mano a orientare l'azione pratica dei medici nella ricerca dei segni (sintomi) e ne forniva una razionale interpretazione. È stato un lavoro di mosaico per cui tutta l'attività medica dal rilievo dei segni (semeiotica), alla conclusione diagnostica e prognostica, fino alla scelta terapeutica (nel contempo si staccava dalla fisiologia la farmacologia) veniva infra-tessuta da una serie di conoscenze precise che il medico prendeva dal fisiologo, ma cui il medico stesso (non infrequentemente l'attività clinica era associata a una di pura ricerca, non applicativa) forniva apporti tanto più originali in quanto provenienti da un campo non avvicinabile da altri ricercatori.

Così man mano l'arte medica, quale veramente era legata alle ineffabili capacità di rilievo e di memoria inerenti alla continua esperienza professionale, veniva affiancata da una consapevole applicazione di nozioni sperimentalmente provate, diveniva cioè la parte applicata di una scienza o serie di scienze. Vanno però subito notati due punti: a) che anche l'esperienza clinica è fonte inesauribile di scienza poiché la ripetizione delle osservazioni mediche offerte al lavoro clinico permette molte generalizzazioni o le leggi"; b) che d'altronde nella sua parte veramente clinica (ma non la patologia) la m. rimane per questo aspetto una scienza fondamentalmente idiografica, cioè una scienza dell'individuale, necessariamente molto curiosa di tutto l'aggregarsi degli eventi che fanno di un determinato soggetto ammalato quel soggetto e non un altro. Ora su questa basilare differenza e per un vertiginoso e dismetrico crescere delle tecnologie biologiche e mediche, la primitiva compattezza degl'interessi del fisiologo con quelli del fisiopatologo e infine con quelli del clinico si è andata disgregando; alcune scienze, come la biochimica, hanno avuto una crescita prima impensabile e assunto una tale estensione di interessi che quelli puramente medico-fisiologici sono rimasti in seconda o terza linea. Difatti lo sviluppo attuale ed esponenzialmente crescente col tempo delle conoscenze biologiche sta ormai accumulando dati capaci di saturare la memoria di qualunque calcolatore. Anche restringendosi al campo della biologia animale e umana la massa dei dati e, soprattutto, le conoscenze sui fenomeni sperimentalmente evocabili, sono numericamente di gran lunga al di là delle capacità recettive e discriminatrici della mente umana, per cui gli specialisti finiscono, com'è noto, per parlare linguaggi non facilmente tra loro traducibili.

Se ci si domanda quanta parte di queste conoscenze (non parliamo qui di (" cultura") è passata nel campo dell'applicazione medica, dobbiamo riconoscere - ed è una fortuna per l'esistenza e l'operatività della m. - che la filtrazione delle conoscenze biologiche è un processo relativamente molto lento. Ciò dipende da molte ragioni, la prima delle quali è che in realtà molte delle acquisizioni sperimentali hanno scarsa rilevanza nella fenomenologia biologica spontanea, poiché non si conchiudono in una sequenza obbligatoria, in ciò che chiamiamo una "legge" fenomenologica. Un'altra ragione, assai meno ovvia e banale, è che l'insieme dei dati sperimentali, anche di fisiopatologia, trova inevitabilmente un filtro molto stretto per essere utilizzato concretamente nell'interpretazione patogenetica delle malattie dell'uomo perché proprio quel lavoro sperimentale è stato compiuto annullando al massimo, volutamente, tutta la parte dell'intricatezza omeostatica che non ha direttamente a che fare con l'obiettivo dell'esperimento, che è teso al fine di enucleare, appunto, una sequenza pura; invece, nel concreto, la macchina omeostatica di un organismo complesso qual è l'uomo fisiologico, e ancor più quello ammalato, ivi comprese le sue matrici psicogene e sociogenetiche, è tutta presente e operante nella fenomenologia presentata.

Ma vi è oggi una situazione che tende ad aggravare questo divario tra ricerca sperimentale (o, almeno, una buona ed efficiente parte di essa) e ricerca clinica (veramente tale e non puramente biologico-fisiopatologico-sperimentale, sia pur fatta nelle cliniche); ancor maggiore può essere il divario con l'operatività clinica concreta (se quella scienza non dev'essere un paludamento indebito e decorativo). Buona parte della stessa ricerca biologica si dirige, con ottimi risultati d'altronde, verso regioni da cui il filtro per un'utilizzazione pratica è - con le dovute brillanti eccezioni - ancora più spesso e talora invalicabile.

Infatti con la biologia molecolare si è privilegiata la tendenza unificante ed elementarizzante della ricerca moderna, scoprendosi, quasi inaspettatamente, che, in natura, alla base di funzioni molto diverse nello stesso organismo, o le stesse in organismi evolutivamente molto diversi fra loro, esistono strutture e attività molto simili se non identiche, via via che scendiamo verso gli eventi elementari. Così le piastrine si contraggono come fanno i muscoli e con le stesse proteine e i mitocondri si comportano allo stesso modo in tutte le cellule, comprese quelle vegetali; il biologo finisce allora per non essere quasi più interessato alla differenza fra la coagulazione del sangue e la fisiologia del movimento o fra i fenomeni elettrochimici nelle cellule e la respirazione.

Ma l'esperienza immediata dell'osservazione non sofisticata della natura (e ancor più quella sottile e preziosa esperienza che il medico accumula osservando quei complessi dati naturali che sono gli uomini ammalati) è tutt'altro: anziché essere una continua riduzione delle distinzioni, è una ragionata collezione di distinzioni, un impegno intellettuale e morale a rilevarle tutte per selezionare le fondamentali dalle secondarie e dipendenti, una scuola devota del molteplice, il quale è, già in quanto tale, remunerante.

Anche nella sua fase sperimentale la patologia - se vuol esser tale e cioè di base all'attività clinica - non può prescindere dalle diversità delle cause e degli effetti a seconda del grado d'integrazione organismica su cui si lavora; le risposte di un tessuto, di un organo, di un organismo intero sono nell'esperimento, per definizione, diverse e non facilmente integrabili fra loro; sono invece tendenzialmente monotone e proporzionalmente integrabili (salvo, appunto, le malattie dette ("molecolari") quando si operi a livelli molto elementari dell'accadere biologico.

All'opposto l'attività clinica, che è, come si è detto, essenzialmente idiografica, cioè rivolta all'enucleazione del singolo caso per comprenderlo integralmente sulla base dei dati di patologia memorizzati e su quelli ecologici e sociologici che vi si connettono, è tutta orientata a valorizzare la molteplicità della produzione fenomenica.

Non è chi non veda come questo stato di cose finisca per allontanare anziché avvicinare gl'interessi del settore biologico da quelli del settore medico. Anche la m., è ben noto, subisce le sue mode e talora infelici mode; ma la sfrenata libertà di corsa e di volo e il piacevole rischio dello sbaglio sistematico che possono tentare e fecondare ogni biologo non possono essere evidentemente il costume del medico (questa peraltro non è una limitazione, poiché anzi si basa sul necessario richiamo alla constatazione primordiale e filosoficamente cogente che il mondo è veramente molteplice nel suo continuo prodursi).

Ora, tale profonda dicotomia, che tenderebbe ad allargarsi, ovviamente non si risalda con la sua semplice constatazione; appare evidente che o nell'analisi molecolare dei fenomeni si rischia di trascurare (anzi talora lo si fa volutamente e metodologicamente) piccole differenze che però a livello dell'organismo integrato assumono valori macroscopici, che sono tutt'altro che trascurabili nella m., e ciò è il peggiore dei casi, oppure si tratta del fatto che la molteplicità macroscopica dipende dalla "forma" delle connessioni che gli eventi elementari assumono nell'organizzazione gerarchica del sistema organismico. Preminente diviene allora non lo studio dei micro- (e anche macro-) eventi staccati, bensì quello dei circuiti, della loro struttura complessiva, del piano generale della macchina umana. Questo secondo aspetto, che si comprende come quello più corrispondente alla verità entro l'ambito di una scienza condotta seriamente, porta a trovare la soluzione più moderna di quella dicotomia, soluzione che già sta trovando i mezzi per una sua attuazione. Occorre da una parte privilegiare, cioè dare spazio a tutti i livelli possibili dello studio, ai problemi inerenti l'interdipendenza dei sistemi organismici, che sono quasi sempre sistemi autoregolati con larghi, talora larghissimi àmbiti di compenso (ma con qualche circuito a funzione estremamente critica, cioè che diviene facilmente metastabile); dall'altra offrire all'attività più propriamente medica (diagnosi, prognosi, scelta della terapia) una base di controllo metaindividuale, e ciò può farsi mediante l'uso dei calcolatori. Certo, ancor oggi ogni medico esperto dirà o penserà che si fida molto più del proprio occhio discriminante, della propria memoria e della funzione integratrice del proprio cervello che del funzionamento di un calcolatore. Vi sono in effetti capacità discriminative umane che non sono ancora state esaurientemente imitate dalle macchine calcolatrici: per es. la "lettura" di qualsiasi parola, di qualsiasi numero, comunque scritti. Ma è evidente che la questione di principio non sta qui, e forse altre preoccupazioni possono sorgere. Sono intanto già proposti metodi per l'uso di calcolatori per l'elaborazione probabilistica dei dati raccolti sui malati (segni o sintomi), una volta per tutte fatta la scelta dei segni che portano reale e sufficiente informazione ai fini del giudizio medico (ripetiamo: diagnosi, prognosi e scelta terapeutica), la valutazione del loro peso nell'aggregazione semeiologica (sindrome), lo stabilire il valore soglia per cui determinati segni o aggregazioni di segni debbano venire ammessi nelle successive operazioni discriminative (sempre su base probabilistica) o invece scartati. Alcuni di questi metodi, per es. quelli basati sull'analisi statistica sequenziale, risultano abbastanza semplificati da poter essere collegati con piccoli calcolatori da tavolo. Ma questo appare più un invito praticistico che un reale richiamo a una svolta metodologica. La quale, tra l'altro, per essere totalmente integrale, richiederebbe una "computerizzazione" dell'operazione "rilievo dei segni", cioè l'adozione di una sistematica semeiotecnica, quasi (ma è mai possibile?) in assenza di un "racconto" del malato, cioè della sua "storia".

A parte queste giustificate preoccupazioni è però certo che almeno il progresso della parte scientifica della m. (al limite, di tutta la m.) è affidato a un lavoro da fare, sì, insieme con il biologo, proponendosi però che questo biologo sia consapevole della molteplicità del reale che è oggetto di studio della m., molteplicità che non può essere discriminata a priori, bensì solo dopo un'analisi che l'introduzione della teoria dei sistemi autoregolati rende possibile. Gli stessi modelli teorici e le macchine elettroniche imitative degli apparati fisiologici con i relativi computers si rendono sempre più indispensabili per questo tipo d'indagine; ed è con queste, cioè per mezzo di questa metodologia in potenza comune, che la m. pratica può utilmente offrire al fisiopatologo, al fisiologo, infine anche al biologo puro campi di studio veramente nuovi e importanti di cui molti studiosi, anche espertissimi in un limitato settore, non immaginano nemmeno l'esistenza o hanno rimosso psicoanaliticamente l'interesse.

L'"arte" medica, allora, andrà scomparendo? Essa va certamente riducendosi via via che venga sostituita da controllate e valide per tutti acquisizioni scientifiche; è questo un processo iniziato, come si è visto, da C. Bernard. Ma se per "arte medica" s'intende quella capacità umana, necessaria e importante nell'esercizio della m., di saper trattare i sofferenti tenendo conto della loro situazione nel contesto, anch'esso fortemente omeostatico, della società, allora essa non potrà scomparire, così come non potrà scomparire l'arte dell'insegnare.

Medicina clinica. - Che cosa significhi "medicina clinica" come corpus differente da quello della "medicina scientifica", pur essendo le due aggettivazioni aspetti prammatici di una stessa sostanza, è facile indicare. Per m. clinica s'intende la prassi medica, l'impatto del malato col medico.

La m. clinica ha per oggetto del suo operare la prevenzione e la risoluzione della patologia spontanea individuale. Guida verso la "normalità" ideale dell'uomo intesa come integrità psicofisica dell'individuo, componente unitario della società umana.

Tre punti esemplari definiscono il piano d'azione della m. clinica attuale: 1) l'identificazione delle cause di malattia; 2) lo scopo e i metodi della diagnosi; 3) il metodo terapeutico.

Identificazione delle cause di malattia. - Alle ricerche per l'identificazione dei fattori patogeni "esterni" che aggrediscono l'uomo, si è associato e ha assunto una rilevanza prima insospettata, lo studio della risposta dell'ospite all'agente patogeno. In molte circostanze il processo morboso e le sue conseguenze sono determinati dalle modalità e dall'intensità della reazione dell'ospite.

La posizione storica può essere indicata come segue: l'uomo sano si ammala perché incontra un agente patogeno. L'azione dell'agente è sempre o quasi sempre sufficiente per produrre il processo morboso. La ricerca delle cause si rivolge perciò ai serbatoi di virus o di tossici, allo studio dei vettori, delle vie d'ingresso nell'uomo, alla disinfezione, alla sterilizzazione, alla disintossicazione, alle vaccinazioni specifiche.

Attualizzazione dell'argomento: sostanze (strutture) vitali e non vitali, esterne o formate dall'individuo stesso, possono avviare reazioni di risposta ed elaborazioni da parte di organi e tessuti che si esprimono con un processo morboso, che può produrre lesioni. La natura della struttura patogena perde rilevanza rispetto all'idoneità dell'ospite a rispondervi con reazioni non già protettive ma patogene. È patogeno il processo morboso, che riflette la situazione immunitaria dell'ospite; l'attore del suo avvio può non essere patogeno per molti altri individui. In altri termini l'immunopatologia ha tinteggiato di sé l'interpretazione di quasi tutta la patologia umana. A parità d'intervento dall'esterno, molti processi morbosi possono essere modificati, fino a perdere i loro tratti tradizionali, da procedimenti idonei a modificare verso altri schemi la risposta immunitaria dell'ospite (vaccinazioni, immunizzazione passiva con gammaglobuline, antibiotici, corticosteroidi). Il tipo e l'entità del processo morboso sono costruiti dall'organismo-ospite secondo le sue disposizioni. Non solo come espressione di un fatto genetico ("prestabilito" ma anche come effetto di "memorizzazione" i di processi morbosi e di eventi precedenti, compresi quelli terapeutici.

Un altro aspetto della ricerca etiologica ha assunto rilievo nella patologia umana: lo studio dei danni prodotti sull'uomo dal prodotto del lavoro umano. Contaminazione dell'aria dei grandi centri urbani e suoi effetti lesivi a lungo e lunghissimo termine sull'apparato respiratorio, in particolare sui bronchi, fino al rischio di malattia maligna del loro epitelio. Contaminazione dell'acqua. Animali da carne, pesci, verdure modificati dall'artificializzazione del loro ambiente di crescita e della loro nutrizione. L'esigenza alimentare di popolazioni che purtroppo si accrescono d'anno in anno dev'essere comunque soddisfatta con costi accettabili. Tutte le iniziative e le proposte idonee a realizzare lo scopo debbono perciò essere considerate positivamente. Ma la m. clinica non può evitare di porsi il problema degli effetti sull'uomo non a breve ma a lungo termine, di un'alimentazione artificializzata diversa da quella naturale e storica di provata efficacia. È chiaro che valutare gli effetti di una novità alimentare a distanza anche di un solo biennio, prima di proporne l'uso, può essere antieconomico. Può essere inevitabile accettare un rischio, dopo una breve ma rigorosa sperimentazione. Ma il medico è sempre più sensibile all'ipotesi di effetti lesivi.

Con analogo impegno la m. clinica considera il rischio del lavoro nocivo. Bisogna evitare che l'indispensabile sviluppo industriale divenga strumento di malattia. Non bastano per la prevenzione medici anche qualificati.

È necessario responsabilizzare tutta la popolazione. Questo impegno sostituisce la difesa dal freddo, dalla sete, dalla fame, dalle belve, dalle grandi epidemie storiche. Costituiscono quindi oggetto di studio: l'educazione psicologica nella fase determinante dello sviluppo, l'alimentazione artificializzata, le bevande sofisticate, l'ambiente di lavoro, l'uso di farmaci non necessari, i prodotti di scarico dei motori, dei processi industriali, delle centrali nucleari, ecc. È il grande problema degli effetti sull'uomo dei prodotti del lavoro dell'uomo: una specie di autolesionismo involontario.

Scopo e metodi della diagnosi. - Nella comune accezione, scopo della diagnosi clinica è l'identificazione possibilmente verificata della condizione morbosa in atto nell'individuo in esame. Tale diagnosi è individuale: poiché non sono immaginabili due individui eguali, ove non siano gemelli unicori, due casi clinici uguali non sono immaginabili. La deformazione individuale del processo morboso "ideale" (tipico) lo rende talvolta irriconoscibile e la sua esatta interpretazione conclude una sintesi postanalitica compiuta dal medico come da un elaboratore di molti dati d'informazione, dotato di una memoria sufficiente di elementi di esperienza e di cultura quotidianamente ravvivata dall'osservazione e dallo studio. La realizzazione della diagnosi esatta assume in certi casi aspetti di virtuosismo, ma lo scopo primario della diagnosi clinica nella fase attuale di sviluppo della m. ha assunto scopi differenti. In breve, la diagnosi per la prevenzione ha sostituito nell'impegno quotidiano del medico la diagnosi per la terapia.

Alla base della programmazione diagnostica potremmo porre il concetto che l'individuo ammalato rappresenta il prodotto del fallimento della diagnosi preventiva e delle sue deduzioni correttive. L'ospedale persiste come luogo per la diagnosi per pochi casi molto atipici o guaribili solo con procedimenti d'eccezione. Vale come luogo di cura per la fase acuta dei processi morbosi. La riabilitazione, che dev'essere precoce, può svolgersi in ospedali diurni anche perché i suoi tempi sono lunghi.

La diagnosi per la prevenzione costituisce il tema base per lo sviluppo della m. clinica attuale che dev'essere efficacemente e non formalmente preventiva e deve investire il maggior numero possibile di persone, idealmente tutti. Per conseguire anche parzialmente tale scopo, la m. clinica ha bisogno di conoscere e utilizzare la metodologia diagnostica più recente e sofisticata. La scelta dei metodi validi per la diagnostica prevenzionale si concreta tra i risultati ottenuti al più avanzato livello della ricerca. Una scelta che valuta sensibilità, fedeltà, rapidità, facilità, costo del metodo. Ma se il metodo scelto non è al passo con il progresso scientifico i risultati possono essere vani. Un esempio: il diabete. Una malattia diffusa, causa potenziale di gravi lesioni ma neutralizzabile stabilmente con adatti provvedimenti dietetici, igienici, terapeutici. Serve un metodo sicuro per l'accertamento diagnostico del prediabete in un gran numero di persone. Se il problema sarà affrontato e risolto al livello della diagnosi prevenzionale, il ricovero ospedaliero per diabete sarà eccezionale. È certo che la diagnosi e la cura del caso di diabete atipico complicato spetta al reparto clinico più avanzato della specializzazione competente, ma in quanto problema generale questo evento ha perduto di rilevanza rispetto alla diagnosi di prediabete e alla prevenzione del suo divenire diabete clinicamente manifesto, alla fine complicato da lesioni irreversibili.

I metodi per la diagnosi sono divenuti nel decennio trascorso sempre più strumentali e sofisticati. I loro risultati sono preziosi, purché l'esecuzione del metodo sia ineccepibile e l'interpretazione dei risultati sia critica e inquadrata in un esame globale del problema clinico. Nella realtà attuale, l'offerta gratuita a tutti di moltissimi esami di laboratorio ha condotto alla loro moltiplicazione. Il malato si avvia spesso all'esame del medico con pacchi di referti di analisi cliniche. Si sommano algebricamente reperti e reperti, ripetendo l'esame finché il suo risultato soddisfi l'attesa del medico e/o del malato. L'ammalato si nevrotizza nell'attesa del valore normale medio; il medico dubita delle sue conclusioni diagnostiche perché un risultato è aberrante; i costi sono divenuti insostenibili.

Purtuttavia è certo che la m. clinica si è arricchita nell'ultimo decennio di mezzi diagnostici strumentali nuovi ed efficienti, che avvicinano sempre più il giudizio medico conclusivo e documentato a un'operazione scientifica. L'endoscopia, la biopsia, il cateterismo, la medicina nucleare, l'ecografia si affondano con rischio minimo in quasi tutti gli organi e i sistemi, traendone dati e misure che s'integrano reciprocamente. La diagnosi clinica ne ottiene approfondimenti finora inimmaginabili e la terapia farmacologica, chirurgica, radiante risultati finora inattesi. Ma strumenti e risultati sono utili solo se applicati da medici colti.

La m. clinica è attualmente travagliata dall'acuirsi di un divario preoccupante fra le sue punte più avanzate e spettacolari e una m. di base appiattita dall'impossibilità di adeguare le strutture generali alla rapidità del progresso scientifico. Mentre solo la m. di base può discriminare tempestivamente i candidati alla malattia nella popolazione che ad essa affluisce.

Il metodo terapeutico. - La cura dell'ammalato, inteso come problema generale, ha subito nel decennio 1960-70 molte influenze modificatrici; la revisione di assunti tradizionali è tuttora in corso. Quale linea generale di sviluppo, si delinea sempre più incisiva la critica della farmacomania. Fra le cause d'inutile uso di farmaci è evidente l'intervento dei mezzi d'informazione. La libertà d'informazione consente nella realtà a chiunque di reclamizzare farmaci per chiunque. Non si profila a tutt'oggi un responsabile autocontrollo. La conquista del mercato sembra costituire, in molti casi, il principale oggetto dell'impresa. Questo comporta l'esaltazione dell'effetto utile e la minimizzazione del rischio di danno. Poiché il rapido progresso della farmacoterapia non concede tempo per la stampa di trattati di consultazione sui risultati di esperienze controllate sull'uomo, l'informazione verbale costituisce spesso la sola base per l'adozione dei nuovi prodotti da parte del medico. Lo slogan "più farmaci = più salute" convince un notevole numero di cittadini che cercano in un nuovo prodotto ciò che hanno invano atteso dall'uso del precedente. La cura resta incompiuta. Il preparato viene gettato. Le conseguenze economiche di questa moda sono disastrose. Naturalmente non si tratta dei grandi farmaci che il costante progresso scientifico identifica per i grandi processi morbosi. La terapia delle malattie più impegnative (comprese le cosiddette malattie maligne) ha compiuto recentemente nuovi importanti progressi e realizza remissioni e sopravvivenze finora inattese. Lo sviluppo della farmacogenetica annuncia come possibili modificazioni terapeutiche del genoma operatore e la correzione di guasti genetici ereditari finora irrevocabili. Tali terapie restano però nelle mani del medico specialista.

Affinché i grandi successi non siano sciupati da spinte poliprammatiche d'ispirazione consumistica, due aspetti negativi della farmacoterapia offrono materia per il continuo aggiornamento del medico: la patogenicità dei farmaci e la possibilità d'interazione fra di essi. L'elenco delle malattie iatrogeniche (o prodotte dal medico) si allunga d'anno in anno. Organo metabolizzatore di farmaci è in primo luogo il fegato; epatiti, itteri da farmaci sono eventi comuni. Un organo molto esposto agli effetti locali dei farmaci è anche lo stomaco: le gastriti da farmaci, talvolta erosivo-emorragiche con gravi emorragie digestive, sono frequenti. Un elenco sarebbe molto lungo: febbre da antibiotici, dermatosi da cosmetici, ecc.

Un secondo aspetto negativo dell'uso contemporaneo di più farmaci è più tecnico: se nello stesso soggetto intervengono due farmaci, ciascuno con azione indicata e differente, le due azioni possono interferire fra di loro con effetto globale nullo o dannoso. Esempi: un antinevralgico in un soggetto in terapia con anticoagulante può produrre emorragia. Un antireumatico in un soggetto in terapia con ipotensivi può produrre brusca e pericolosa risalita dei livelli tensivi. La miscela di più farmaci in uno stesso veicolo estemporaneo (per es. più farmaci in una stessa fleboclisi) può renderli inerti o dannosi. S'impone la scelta consapevole del farmaco migliore per ogni singolo evento morboso, in dosi programmate con rigore scientifico, anziché di molti farmaci associati con l'intenzione di somma o potenziamento del loro effetto terapeutico.

Resta fuori da questi limiti il campo tuttora molto vasto delle terapie "magiche " e cioè il complesso degli effetti psicologici dell'intervento del medico sul malato. Fra questi aspetti del problema terapeutico, al motivo tradizionale del medico ("guaritore" si associa quello più recente di "medico creatore di malattia". Un medico guaritore si propone autenticamente solo in quanto esperto psicoanalista e psicoterapeuta. Il danno prodotto dal dolore comunque provocato (per es. da una lesione) non è solo il risultato della sua percezione ma anche dell'interpretazione che il sofferente vi sovrappone a livello di coscienza e di subconscio. Nella realtà sussiste tuttora un effetto "magico" irrazionale del medico autoritario, molto atteso, molto costoso, che prescrive medicine nuove. Tale effetto può cronicizzarsi e rendere il malato dipendente dal medico. Lo spazio per questa figura tradizionale di medico-terapista si riduce con il progresso tecnologico. Si dilaterebbe nuovamente se una burocratizzazione molto rapida del rapporto, benché tecnicamente perfetto, fra medico e ammalato precedesse di troppo l'evoluzione culturale media degli assistibili deludendone "l'attesa".

Ma un altro aspetto del problema terapeutico generale è rilevante: un medico colto e assiduo, un'assistenza perfetta e gratuita possono cronicizzare la malattia nella realtà di un uomo sofferente e invalido. Se questi si attende tutto dall'assistenza medica, non partecipa più alla lotta contro il processo morboso e non lo rifiuta, con ripercussioni psicosomatiche inabilitanti. È valido ritenere che uno psicologo terapeuta costituirebbe un elemento portante di tutte le équipes terapeutiche: è peculiare della natura umana che componenti psicodinamiche partecipino alla patogenesi e alla fenomenologia del quadro morboso. La critica costruttiva del programma terapeutico per il caso concreto produrrebbe risultati positivi prevenzionali ed economici.

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