Medio Oriente

Il Libro dell'Anno 2000

Lorenzo Cremonesi

Medio Oriente

L'inestricabile nodo della questione palestinese

Israeliani e palestinesi tra accordi di pace e conflitti incontrollati

di Lorenzo Cremonesi

28 settembre

Scoppia in Cisgiordania e a Gaza l''Intifada per Al Aqsa', la grande rivolta palestinese contro l'occupazione israeliana che, pur presentandosi con dinamiche diverse e in circostanze del tutto nuove, ricorda quella che sconvolse l'intera regione dal 1987 al 1991. È di nuovo in profonda crisi il negoziato di pace, già gravemente compromesso in luglio dal fallimento del summit di Camp David tra il premier israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat. Tre i nodi centrali: lo status di Gerusalemme, il permanere delle colonie ebraiche nel cuore dei territori che dovrebbero far parte del futuro Stato palestinese e la questione dei profughi palestinesi all'estero.

La svolta del 28 settembre

Quando il 28 settembre 2000 il leader del fronte nazionalista israeliano Ariel Sharon visita la spianata delle moschee - Al-Haram al Sharif come la chiamano gli arabi, o Har haBait, "Monte del Tempio", per gli ebrei - nella città vecchia di Gerusalemme, sono pochi i dirigenti israeliani che entrano in allarme sulla possibilità dello scoppio di gravi rivolte tra i palestinesi. Ma un mese dopo sarà evidente che quella mossa, seppure non ha generato da sola l''Intifada per Al Aqsa', ha tuttavia innescato una serie di effetti a catena destinati a stravolgere lo status quo di calma relativa venutosi via via consolidando durante l'ultimo periodo del governo Netaniahu e dopo la vittoria laburista alle elezioni israeliane del maggio 1999.

Non serve il summit di Sharm el Sheikh il 16-17 ottobre, dove Bill Clinton, al termine del suo mandato presidenziale, tenta un cessate il fuoco in extremis e non servonoi frequenti colloqui telefonici tra Ehud Barak e Yasser Arafat. Anche l'incontro agli inizi di novembre tra il ministro delle Infrastrutture israeliano Shimon Peres, il grande tessitore del processo di pace fin dal termine della Guerra del Golfo, e Arafat cade nel nulla. A fine dicembre i morti tra i palestinesi superano quota trecentocinquanta, quelli israeliani sono una quarantina, i feriti si avvicinano agli 8000, quasi tutti arabi.

Progressivamente le armi sostituiscono le pietre tra i ranghi palestinesi. Dalla sommossa popolare si passa alla guerriglia. Soprattutto, il processo di pace nato dai negoziati segreti a Oslo nel 1993 è in pezzi, bloccato, sconvolto e c'è chi afferma che il suo deterioramento abbia ormai superato il punto di non ritorno. L'escalation degli scontri si fa molto rapida. Il 30 settembre la morte 'in diretta', davanti alle telecamere, di Mohammad al-Dura, un ragazzo di dodici anni colpito dai proiettili a Gaza durante un'intensa sparatoria tra israeliani e palestinesi, infuoca le piazze arabe. L'11 ottobre i bombardamenti dei carri armati e degli elicotteri israeliani contro le stazioni di polizia palestinese a Ramallah, in risposta al linciaggio di due militari da parte della folla inferocita, segnano una svolta nell'intensità del conflitto. La popolazione ebraica è spaventata. L'intero paese ricade nell'antica sindrome dell'assedio, dello sterminio incipiente, quando gravissime violenze scoppiano anche tra i circa 1.200.000 arabi israeliani. Bruciano Nazareth, decine di villaggi della Galilea, scoppiano scontri persino a Jaffa, a un paio di chilometri da Tel Aviv. Il bilancio è pesante: tredici morti e un centinaio di feriti. "Qui le battaglie assumono le caratteristiche della guerra civile che furono tipiche delle sommosse degli anni Trenta tra arabi ed ebrei sotto il Mandato britannico" sottolinea Tom Segev, un intellettuale israeliano che ha appena pubblicato un libro proprio sul trentennio della presenza inglese in Palestina.

Gerusalemme - Al Quds ("la santa" in arabo) - è il simbolo delle rivolte, la parola d'ordine che serve a mobilitare la popolazione araba in difesa della celebre moschea di Al Aqsa. Ma le motivazioni che guidano la rabbia delle piazze non si limitano ai simboli, sono invece molto reali, nascono dal risentimento concreto, tangibile, che ogni palestinese prova quotidianamente sulla propria pelle.

A fine ottobre riprendono gli attentati suicidi degli shahid, i "martiri" kamikaze per Allah, come già è avvenuto dal 1994 al 1997 e a fine dicembre la paura delle 'bombe umane' è ormai un dato quotidiano. Le squadre scelte israeliane tornano alla strategia degli assassini dei dirigenti palestinesi, così come era in uso negli anni Settanta e Ottanta. A metà novembre prevale la strategia degli attentati e delle rappresaglie, con aspetti che ricordano molto da vicino le lunghe catene di violenze e ritorsioni dei tempi in cui l'OLP si era trincerata a Beirut, prima che l'invasione israeliana del Libano nel 1982 scacciasse Arafat e i suoi uomini a Tunisi. Diventa così evidente che, ancora sette anni dopo l'avvio degli accordi di pace, alle radici della nuova ondata di violenze vi sono le ragioni ataviche, costanti e non risolte del vecchio conflitto tra israeliani e arabi per il controllo della terra.

Inizialmente il dibattito politico in Israele segue il vecchio schema dello scontro tra fronte laburista e blocco conservatore. Così si spiega anche la visita sulla spianata delle moschee di Ariel Sharon: è soprattutto guidato da motivi interni al suo partito, il Likud nazionalista. Il suo predecessore, Benjamin Netaniahu, ha da poco fatto capire che intende tornare al comando del Likud e sfidare apertamente Barak, l'attuale primo ministro laburista. Sharon lo contrasta come può, cerca il consenso delle destre anche più estreme e, visitando a Gerusalemme il luogo che è diventato catalizzatore delle ragioni che solo due mesi prima hanno condotto al fallimento dei negoziati tra Barak e Arafat a Camp David, ritiene di rilanciare il suo ruolo in alternativa al governo. Un mese dopo, l'emergenza militare fa prospettare l'eventualità della creazione di una coalizione di unità nazionale e Sharon individua in questa possibilità la via che gli permette di far cadere per sempre il meccanismo del processo di pace e soprattutto rinviare (se non battere del tutto) il fantasma del ritorno di Netaniahu.

Barak, invece, impersona i dubbi, lo sconcerto e le titubanze che improvvisamente attanagliano la sinistra. "Siamo stati traditi da Arafat" gridano in piazza a Tel Aviv i laburisti il 4 novembre, in occasione delle commemorazioni del quinto anniversario dell'assassinio del premier laburista Ytzhak Rabin. Persino un pacifista convinto come lo scrittore Amos Oz si dice 'deluso' dal 'voltafaccia' del rais palestinese: "A Camp David gli era stato offerto da Barak ciò che nessuno in precedenza aveva mai neppure prospettato: circa il 90% della Cisgiordania e l'avvio di colloqui per determinare una fetta di sovranità palestinese a Gerusalemme. Ma Arafat preferisce giocare a fare il Che Guevara piuttosto che Fidel Castro, sceglie il ruolo del leader guerrigliero avventurista a scapito di quello del capo di Stato maturo". Con l'unità nazionale Barak potrebbe invece sperare di protrarre nel tempo la durata del suo traballante governo di minoranza, con il rischio però di mettersi nelle mani del Likud e veder fallire anche l'ultima, seppur remota, speranza di rimettere in moto i negoziati di pace. Già durante l'estate l'uscita dalla sua coalizione dei diciassette deputati del partito ortodosso-sefardita Shas l'ha ridotto a controllare meno di quaranta seggi (sui centoventi complessivi al Parlamento), facendo presagire le elezioni anticipate entro la primavera 2001. Ora Barak deve rispondere con urgenza a un pressante dilemma: favorire a ogni prezzo la sopravvivenza del suo mandato, oppure privilegiare la via del dialogo con Arafat sulla falsariga degli accordi di Oslo? E il 28 novembre, con un drammatico annuncio alla Knesset (il Parlamento israeliano), sceglie la via delle elezioni anticipate, a soli diciassette mesi dall'inizio del suo mandato. Il leader laburista vorrebbe evitare il confronto con Netaniahu, che non è più parlamentare e dunque, secondo la legge israeliana, non può candidarsi a premier. Le destre vorrebbero modificare questa disposizione, ma Barak le precede, annunciando, il 9 dicembre, le dimissioni immediate. Le nuove elezioni, che secondo le regole del paese dovranno tenersi entro sessanta giorni, sono fissate per il 6 febbraio 2001. Netaniahu cerca allora il sostegno dei partiti religiosi per chiedere le elezioni generali anche per il Parlamento (in Israele dal 1996 il premier è eletto per suffragio diretto separato da quello per la Knesset). Ma il 14 dicembre si rende conto che non può ottenerlo. In particolare lo Shas teme i sondaggi che prevedono, in caso di voto anticipato, una sua perdita di seggi a favore del Likud. Netaniahu rinuncia dunque alla candidatura e lascia il posto a Sharon. "Non posso diventare premier di un paese ingovernabile, aspetterò il prossimo suffragio"

dichiara, con la consapevolezza che tutte le proiezioni lo danno comunque vincente.

Risoluzioni parziali o finali?

Ma non mancano neanche critiche contro il premier israeliano, espresse dopo una seria riflessione dai settori particolarmente attenti tra l'intellighenzia del suo paese. "Barak ha scarsa cultura ed esperienza politiche. Sbaglia perché adotta schemi mentali semplicistici, stereotipati, cui era abituato nell'esercito" scrive acido tra gli altri Shlomo Avineri. Ex direttore generale del Ministero degli Esteri ai tempi del primo governo Rabin (1974-77), Avineri imputa a Barak di essere troppo rigido e di non avere mai davvero smesso di essere un militare nel suo modo di pensare, tanto da non avere compreso che il vero fattore critico di successo del processo di pace a Oslo furono gradualità e flessibilità: un negoziato per fasi, costruito con l'intento di rinviare al futuro i nodi irrisolvibili e di rafforzare invece la fiducia tra le due parti sui punti dove era possibile il compromesso. Nel 1993 Arafat raggiunse un'intesa con Rabin proprio poiché entrambi accettarono di 'diluire' le difficoltà: si decise di non affrontare subito la questione di Gerusalemme, quella della richiesta palestinese di un 'diritto al ritorno' per i profughi delle guerre del 1948 e 1967 non fu neppure sfiorata, non venne smantellata alcuna colonia ebraica nei territori occupati, non fu tracciato il confine finale del futuro Stato palestinese, non si arrivò ad alcun accordo sulla gestione delle risorse idriche. Invece a Camp David gli israeliani hanno chiesto addirittura ai palestinesi di firmare una dichiarazione comune per 'la fine di tutte le ostilità'. Barak ha cercato in tutti i modi di arrivare alla firma della 'pace di tutte le paci', prendendo di punta proprio i nodi più difficili dell'intero negoziato. "Cisgiordania e Gaza non sono il Libano" osservano gli editoriali dello Ha'aretz, il quotidiano 'liberal' di Israele. Il senso della critica è ovvio: alla fine del maggio 2000 Barak impose il ritiro dell'esercito dalla cosiddetta fascia di sicurezza occupata nel Libano meridionale con un passo unilaterale, abbandonando anche le speranze di accordo con Damasco o Beirut. "Più una logica da generale che da politico. Funzionò poiché si trattava di risolvere una questione militare. Ma la stessa non può venire adottata con i palestinesi, dove i problemi sono prima di tutto di carattere politico" scrive il giornale a metà ottobre, quando Barak lascia intendere di pensare a una separazione radicale tra Israele e larga parte dei territori occupati. Non c'è un piano preciso. "Noi qua e loro là" dice semplicemente. "Barak non si rende conto che non c'è una vera soluzione al conflitto israelo-palestinese. Non deve pretendere di mettere la parola 'fine' alla guerra. Prendere di petto il problema significherebbe rimanere automaticamente battuti. L'unico modo è aggirarlo. Occorre gestire la crisi, tenerla il più possibile a bassa intensità. Solo così tra qualche decennio potremo sperare in una via di uscita più semplice" nota Meron Benvenisti, ex vice sindaco di Gerusalemme negli anni Settanta e oggi autore di alcune opere centrali per la comprensione della questione. Benvenisti sintetizza efficacemente il senso delle censure più diffuse: Barak agisce più da ex capo di Stato Maggiore, quale fu sino ai primi anni Novanta quando Rabin lo volle ministro al suo fianco, che da politico. Ha preteso di risolvere il nodo palestinese come se fosse un'equazione matematica, o un bunker da espugnare. E ha fallito, poiché il segreto del processo di pace sta molto più nel processo che non nella pace. È una serie di accordi volutamente ambigui, opachi, che mirano a diminuire le differenze, lasciando che ognuno dei partner interpreti i testi a modo suo, non importa se in contrasto l'uno con l'altro. Molto meglio in questo senso diluire le tensioni in un susseguirsi di intese parziali, in cui l'Autonomia palestinese viene progressivamente allargata di qualche centinaio di chilometri quadrati alla volta, che non mirare a superare, per es., un problema strutturalmente irrisolvibile qual è al momento la sovranità sulla spianata delle moschee a Gerusalemme.

Più a sinistra si fa sentire lo scrittore David Grossman. "È giunta l'ora di gridare ad alta voce ciò che molti israeliani ripetono sommessamente tra loro ormai da anni: occorre scegliere tra le colonie ebraiche nei territori occupati e la pace. Poiché è inutile nascondercelo, la grande maggioranza di quelle colonie è stata costruita con il chiaro intento di boicottare qualsiasi possibilità di accordo con i palestinesi" scrive sullo Ha'aretz il 3 novembre, sposando la tesi dei dirigenti palestinesi. "Nonostante il processo di pace, gli israeliani continuano a chiuderci in enclaves sempre più strette. Persino gli oltre 1.300.000 abitanti arabi della striscia di Gaza, lunga 48 km e larga mediamente 8, sono stati cantonizzati in tre zone della regione da altrettante strade che conducono alle colonie ebraiche nel cuore delle nostre terre. Circa 5000 coloni qui occupano tuttora circa un quarto di Gaza" spiegano i portavoce di Arafat.

Le violazioni degli accordi

Sono, questi, dati confortati dalle statistiche rese note dallo B'Tselem, l'Istituto israeliano per la difesa dei diritti umani nei territori occupati. Dal marzo 1993 al marzo 2000 il governo israeliano ha promosso la costruzione di 11.190 unità abitative nelle colonie ebraiche. Altre migliaia sono state costruite con fondi privati, spesso inviati dalle organizzazioni più filonazionaliste tra le comunità della diaspora americana. Nello stesso periodo il numero dei coloni è passato da 116.300 a 194.779. Alla fine del 1993 il numero assoluto delle colonie (senza contare la zona annessa alla municipalità di Gerusalemme) era di 122, adesso è di 140. In questo contesto il governo Barak sembra coinvolto almeno quanto quelli precedenti. Al Ministero degli Interni fanno notare che sostanzialmente vi sono stati ben pochi cambiamenti nella politica dello sviluppo delle comunità ebraiche nei territori occupati. Così dal 18 giugno 1996 al 5 luglio 1999 l'amministrazione Netaniahu promosse appalti pubblici per la costruzione di 3000 abitazioni. Dal 6 luglio all'11 settembre 1999 l'amministrazione Barak ne ha promossi ben altri 3499. A detta dell'amministrazione palestinese, proprio le colonie costituiscono la violazione più grave dello spirito della pace. Si legge tra l'altro all'art. IV della Declaration of principles per lo stabilimento dell'Autonomia palestinese nel periodo ad interim, firmata a Washington il 13 settembre 1993 tra Rabin e Arafat, che "Cisgiordania e Gaza sono concepite come una singola unità territoriale, la cui integrità verrà preservata durante il periodo ad interim". Punto questo palesemente violato dagli israeliani, che pure più volte sono stati tentati di adottare il principio del 'congelamento temporaneo' delle colonie, così come fece brevemente l'ex premier Menachem Begin al tempo del processo di pace con l'Egitto.

Gli israeliani replicano che in ogni caso anche i palestinesi hanno violato lo spirito delle intese. Prime in ordine di tempo quelle del 1993, che stipulavano in linee generali l'instaurazione di una polizia dell'Autonomia con un numero limitato di uomini e armi, finalizzata anche a impedire il proliferare di milizie autonome. Ma soprattutto avrebbero clamorosamente violato l'accordo sulla Declaration of principles on interim self-government arrangements, firmato a Washington il 28 settembre 1995, che stipulava nel dettaglio proprio la composizione della forza di polizia palestinese. Esso prevedeva infatti un massimo di 30.000 agenti, di cui 18.000 a Gaza e 12.000 in Cisgiordania, che avrebbero potuto disporre globalmente di 15.000 armi leggere e 240 mitragliatrici da 0,5 mm. Oggi si stima che le armi siano almeno dieci volte più numerose di quelle concordate. E casse di armi e munizioni, inclusi bazooka e mortai, continuano a giungere specie dall'Egitto tramite alcuni tunnel scavati segretamente sotto il confine internazionale presso la frontiera di Rafah. In particolare, la polizia dell'Autonomia ha del tutto perso il 'monopolio della forza'. Non c'è alcun tentativo di requisire le armi, come invece avvenne timidamente nel primo periodo dell'Autonomia, dopo l'arrivo di Arafat a Gaza da Tunisi il 1° luglio 1994. La liberazione dalle carceri palestinesi di alcune decine di pericolosi militanti islamici tra le cellule militari di Hamas e Jihad rende il quadro ancora più esplosivo.

All'origine delle sommosse

Proprio la violazione degli accordi di pace determina la dinamica violenta della nuova 'Intifada per Al Aqsa' e la differenzia dalle rivolte precedenti. Il paragone più immediato è con la prima 'Intifada', quella che esplose il 9 dicembre 1987 a Jabalia, il più popoloso tra i campi profughi di Gaza, e per circa tre anni sconvolse l'insieme dei territori occupati. Quella di allora fu davvero un''Intifada', secondo il significato letterale del termine arabo che può essere tradotto come "scrollarsi di dosso", contro l'occupazione militare israeliana. La gente voleva 'scrollarsi di dosso' l'occupazione, con le sue ingiustizie, la corruzione, la dipendenza economica da Israele. Specie nelle prime fasi, più o meno sino all'autunno 1988, fu una rivolta popolare disarmata, guidata da una serie di leader locali che inizialmente non avevano alcun rapporto con la dirigenza dell'OLP a Tunisi. Tra loro, Marwan Barguti, oggi leader dei Tanzim, la formazione armata di al Fatah (a sua volta nucleo storico dell'OLP capeggiato personalmente da Arafat), fu l'autore di diversi tra i 'comunicati dell'Intifada' che partendo da Ramallah nel 1987-88 coordinarono le mobilitazioni e gli scioperi, e lanciarono le parole d'ordine dei primi tempi. Solo dopo la sua espulsione all'estero da parte della polizia israeliana Barguti decise di raggiungere la centrale in Tunisia. Le differenze con quel periodo sono evidenti e si riassumono principalmente in quattro punti: la presenza di armi, l'assedio ai coloni, la mancanza di scontri sul terreno tra i nuclei urbani palestinesi e il fatto che oggi non c'è più dicotomia tra l'OLP esiliato nei suoi santuari dorati all''esterno' e i militanti emergenti dall''interno' dei territori occupati.

Vero punto di forza dell'Intifada 'originale' fu la quasi totale assenza di armi, anche di fucili leggeri o pistole. Fu una grande vittoria d'immagine per la causa palestinese. L'opinione pubblica occidentale fu impressionata dalle fotografie e dai filmati trasmessi dai media di tutto il mondo dei ragazzini che fronteggiavano soldati armati di tutto punto. Israele perdeva la sua aureola di Davide solo contro il Golia del mondo arabo coalizzato. Per la prima volta quell'immagine veniva radicalmente rovesciata. La repressione israeliana imponeva il coprifuoco, gli scontri avvenivano nel centro delle città. Oggi si spara, e si spara per lo più in campo aperto, quasi sempre nelle zone di contatto tra le due parti, dove i confini dell'Autonomia palestinese coincidono con Israele. Gli accordi di pace hanno infatti imposto un nuovo status quo in Cisgiordania e a Gaza. Le terre che sono sotto il totale controllo di Arafat, la cosiddetta 'area A', sono solo il 22%, ma raccolgono quasi tutti i centri urbani arabi. Da qui i manifestanti devono marciare verso i posti di blocco israeliani alla periferia. Lo scontro non è più imposto dalle situazioni contingenti, deve essere voluto, cercato e organizzato. Questi elementi erano già parzialmente apparsi durante le violenze seguite al massacro compiuto da un colono ebreo residente nell'insediamento di Kiriat Arba, Baruch Goldstein, il quale con il suo mitra assassinò a sangue freddo almeno ventinove musulmani genuflessi in preghiera nell'antica e controversa moschea-sinagoga detta della 'Tomba dei Patriarchi', nel cuore di Hebron. Era il 25 febbraio 1994. Ne seguì una settimana di rivolte sanguinose. Quindi, esattamente quaranta giorni dopo, alla scadere della fine del lutto musulmano, si manifestava per la prima volta in Israele il fenomeno dei kamikaze di Hamas e della Jihad, i gruppi dell'estremismo islamico i cui militanti sono pronti al suicidio nella lotta a oltranza contro il 'nemico sionista'. Lo stesso scenario si ripresentò, molto più allargato, tra la fine del settembre e l'inizio dell'ottobre 1996. Allora fu l'iniziativa voluta dal governo Netaniahu di aprire un antico tunnel asmoneo lungo le vestigia del Muro del Pianto, parallelo alla piattaforma rocciosa della spianata delle moschee, a innescare la miscela esplosiva di rivendicazioni nazionaliste e guerra di religione. I morti palestinesi in quel periodo furono circa centocinquanta, quelli israeliani una quindicina. Comparvero le armi, in molti casi i poliziotti palestinesi spararono fianco a fianco dei miliziani palestinesi, come del resto avvenne per i soldati assieme ai coloni ebrei. La pressione contro Netaniahu fu tale che egli, leader della destra sionista storicamente arroccata sul mito della 'grande Israele', fu spinto dagli sforzi di mediazione americani e dall'intervento personale di Bill Clinton a accettare l'accordo di Hebron il 15 gennaio 1997. Era un documento davvero minimalista, in cui gli israeliani ottenevano di non rimuovere neppure uno degli oltre 400 coloni estremisti e zeloti insediati nel centro di questa città abitata da circa 100.000 palestinesi in Cisgiordania. Eppure si trattava del primo documento in cui la destra sionista accettava e faceva proprio lo spirito degli accordi di Oslo, inclusa l'idea del compromesso territoriale e della sovranità palestinese su almeno una parte della regione "a occidente del Giordano". Il 23 ottobre 1998 ancora Netaniahu firmò l'accordo di Wye Plantation, che impegnava ulteriormente il suo governo in questo senso e stipulava un ulteriore, seppur minimo, ritiro israeliano dalle zone occupate.

I nodi irrisolti

Per comprendere le cause di questa nuova rivolta è importante riassumere brevemente i nodi rimasti irrisolti. Essi sono emersi con chiarezza durante i falliti negoziati no-stop dall'11 al 24 luglio 2000 a Camp David, lo stesso luogo in cui dopo tredici giorni di estenuanti colloqui il 17 settembre del 1978 veniva firmato il trattato di pace tra Egitto e Israele.

Come è già stato sottolineato, Barak ha cercato qui di porre fine al periodo ad interim, che secondo l'accordo firmato al Cairo nel maggio 1994 doveva durare cinque anni (e dunque era già scaduto), per concludere lo 'status finale' del processo di pace. Deve essere ricordato che non è mai stato reso noto alcun documento ufficiale delle proposte formulate da Barak, ma indiscrezioni giornalistiche di quel periodo indicano i punti controversi.

1) Colonie ebraiche. Barak propone di smantellare gli insediamenti minori posti nel cuore delle zone arabe più popolose e di concentrare tutti i coloni in tre enclaves maggiori in Cisgiordania: nella zona di Gush Ezion-Efrat, attorno ai grandi quartieri ebraici alla periferia di Gerusalemme est e nell'enclave di Ariel. La controparte rifiuta. "Così facendo il nostro futuro Stato indipendente verrà diviso in tre piccoli Bantustan impossibili da governare e privi di continuità territoriale" protestano tra gli altri, in un appello pubblicato a metà novembre anche dai giornali israeliani, centoventuno intellettuali e dirigenti palestinesi.

2) Diritto al ritorno. Israele rifiuta la richiesta per il ritorno alle loro case dei circa quattro milioni di profughi palestinesi fuggiti o espulsi all'estero in seguito alle guerre del 1948 e 1967 (si tratta ormai in larga maggioranza di discendenti dei profughi originari, che nel 1948-49 erano circa 700.000). Sembra che, come 'gesto di buona volontà', Barak possa però accettare il rientro di circa 100.000 persone sulla base delle leggi concernenti la 'riunificazione delle famiglie'. Ma Israele continua ad adottare il vecchio principio dettato da David Ben Gurion sin dal 1948, per cui la responsabilità morale del 'fenomeno profughi' ricade interamente sul mondo arabo.

3) Confini dello Stato palestinese. Non esiste ancora una mappa ufficiale, né tantomeno un progetto definitivamente concordato. In cambio dell'annessione delle aree della Cisgiordania destinate alle enclaves delle colonie ebraiche, Israele è incline a concedere alcune regioni del deserto del Negev. Una mappa indicativa su cui si sta lavorando venne ufficiosamente tracciata da Yossi Beilin e Abu Mazen, due tra i più accesi sostenitori della necessità della pace nei rispettivi campi, durante le settimane che precedettero l'assassinio di Ytzhak Rabin il 4 novembre 1995 per mano di un estremista ebreo. Ma anche questo documento non definisce con chiarezza l'annoso dilemma della gestione delle fonti idriche, che pregiudica tra l'altro la 'qualità' della sovranità palestinese sul proprio futuro Stato. Un problema scottante: proprio la contesa sull'acqua fu una delle cause dello scoppio della Guerra dei sei giorni.

4) Gerusalemme. Per Israele deve restare unita sotto la propria sovranità, inclusa larga parte delle zone annesse nel 1967. La spianata delle moschee potrebbe venire amministrata dall'autorità religiosa musulmana, lo Waqf. Il quartiere di Abu Dis, nell'estrema parte orientale (ex Giordania), potrebbe invece diventare capitale del futuro Stato palestinese con la sede del Parlamento. Arafat per contro chiede che l'intera regione orientale sia palestinese ed è pronto a fare alcune concessioni al permanere della sovranità israeliana unicamente per la spianata di fronte al Muro del Pianto, oltre che per l'antico quartiere ebraico e forse per quello armeno, entrambi all'interno della Città Vecchia. Gerusalemme resta comunque la cartina al tornasole più utile per misurare l'intensità del conflitto e le passioni che tuttora è in grado di scatenare. "Arafat sa bene che tutto il mondo islamico lo sta a guardare. Agli occhi dei musulmani, egli ha il mandato per negoziare il futuro della sua gente, se crede può anche fare compromessi sui territori di Cisgiordania e Gaza. Ma non su Gerusalemme" ricordano unanimi i diplomatici occidentali in Medio Oriente. Proprio questa ipoteca islamica e non solo palestinese sulla 'città santa' rende ogni possibilità di accordo ancora più difficile. E dà anche il senso dell'estrema debolezza del vecchio leader dell'OLP. A 71 anni Arafat si vede costretto a cavalcare una rivolta che facilmente può sfuggirgli di mano. Nel suo campo si trova a dover fronteggiare i fondamentalisti islamici legati alla Hamas, una forza fondata più sulla presenza sociale nel territorio che sul mito dei 'martiri' kamikaze, ma anche le diverse correnti tra moderati ed estremisti nel tradizionale movimento di resistenza palestinese. "La nozione infantile e pericolosa per cui i palestinesi avrebbero scelto la via della protesta per le strade in seguito all'ordine di Arafat non è solo un insulto alla nostra intelligenza, ma anche un chiaro segnale della mancanza di comprensione della realtà in cui viviamo" scrivono ancora i centoventuno intellettuali palestinesi nell'appello sopra citato. Un 'memento' utile per sottolineare un ultimo elemento di instabilità tra i tanti aperti da questa crisi. Quando nel 1993 Rabin scelse di arrivare a un accordo con il tradizionale 'nemico numero uno', Arafat sembrava un leader ormai sulla via del tramonto; isolato, impoverito, indebolito dagli effetti perniciosi della sua scelta nel 1990 di parteggiare per Saddam Hussein. La sua debolezza fu la forza di Israele e uno dei motivi per cui accettò di conservare la presenza delle colonie ebraiche pur iniziando a negoziare il futuro di Cisgiordania e Gaza. Oggi sembra difficile pensare che lo stesso uomo possa autonomamente fare alcuna concessione su Gerusalemme.

repertorio

Dalla fondazione dello Stato di Israele alla crisi di Suez

Lo Stato d'Israele fu proclamato il 14 maggio 1948, allo scadere del mandato britannico sulla Palestina. Il piano di spartizione della Palestina, approvato dall'ONU il 29 novembre 1947, assegnava allo Stato ebraico il 56% del territorio del mandato, ma il successivo conflitto fra ebrei e palestinesi (che rifiutavano la spartizione), trasformatosi il 15 maggio 1948 in guerra arabo-israeliana, in seguito all'intervento dei paesi arabi vicini, portò alla conquista da parte di Israele di oltre i tre quarti del territorio del mandato (compreso il settore occidentale di Gerusalemme che, secondo il piano dell'ONU, avrebbe dovuto essere internazionalizzata); la striscia di Gaza fu occupata dall'Egitto, mentre il resto della Palestina, ossia la Cisgiordania (compreso il settore orientale di Gerusalemme), fu annesso dalla Giordania e il previsto Stato palestinese non poté vedere la luce. Nell'area acquisita da Israele, sancita dagli armistizi del febbraio-luglio 1949 con Egitto, Libano, Giordania e Siria, risiedevano nel 1947 oltre 600.000 ebrei (che possedevano solo una piccola parte della terra disponibile) e oltre 850.000 arabi (circa i due terzi dell'intera popolazione arabo-palestinese); le operazioni belliche costrinsero tuttavia alla fuga la grande maggioranza di questi ultimi (circa 750.000 profughi affluirono nel 1948-49 in Cisgiordania, a Gaza e nei paesi arabi vicini), mentre l'immigrazione provocava una forte crescita della popolazione ebraica, pressoché raddoppiata nel giro di tre anni. La Legge del ritorno, che conferiva la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei immigrati, e la Legge sulla proprietà degli assenti, che consentiva l'esproprio dei beni dei profughi palestinesi, varate entrambe nel 1950, gettarono le basi per la rapida integrazione dei nuovi venuti e l'edificazione di uno Stato a netta maggioranza ebraica. Rimase invece irrisolto il problema dei profughi, il cui diritto al ritorno, riconosciuto dall'ONU fin dal dicembre 1948, restò quasi del tutto inapplicato. Assistiti da un'agenzia dell'ONU e in rapido incremento demografico, i rifugiati palestinesi avrebbero alimentato negli anni successivi, anche a causa delle loro pesanti condizioni di vita, l'ostilità nei confronti di Israele e le tensioni negli stessi paesi ospiti. Poiché nessuno Stato arabo riconosceva il diritto di esistere allo Stato di Israele, la situazione di aperta conflittualità con i vicini indusse quest'ultimo a perseguire una permanente superiorità militare su di essi; lo sforzo necessario per assicurare tale obiettivo, accanto all'assorbimento degli immigrati e allo sviluppo del paese, fu sostenuto grazie agli ingenti aiuti provenienti dall'estero, in particolare dagli Stati Uniti, cui si aggiunsero, dal 1952, le riparazioni per i crimini nazisti pagate fino al 1966 dalla Repubblica Federale di Germania. Il flusso migratorio in Israele, pur subendo un calo dopo il 1953, si mantenne consistente fino ai primi anni Settanta. Vi contribuì in misura rilevante l'immigrazione dai paesi arabi, dove le condizioni degli ebrei subirono un deterioramento dopo il 1948 e le loro antiche comunità scomparvero quasi totalmente. Anche la minoranza palestinese rimasta in Israele crebbe rapidamente, in virtù dei suoi elevati tassi di natalità, e dalle circa 150.000 persone dell'autunno 1949 (dopo gli accordi armistiziali e il rientro di una piccola parte dei profughi) salì a oltre 800.000 persone all'inizio degli anni Novanta. La sua integrazione nel nuovo Stato fu comunque difficile, sia a causa della persistente tensione interna (che indusse le autorità israeliane a mantenere in vigore le leggi di emergenza varate dalla Gran Bretagna nel 1945 e ad avvalersi dal 1948 al 1966 di un sistema di amministrazione militare accanto a quella civile), sia in quanto le condizioni di vita degli arabi israeliani, coinvolti anch'essi nel processo di esproprio seguito al conflitto del 1948-49, restarono nettamente peggiori di quelle della maggioranza ebraica. La tensione con i paesi arabi vicini (alimentata anche, fin dagli anni Cinquanta, dallo sviluppo di una guerriglia palestinese, i cui attacchi, a partire da basi situate nelle zone di raccolta dei profughi, suscitavano incursioni israeliane nel territorio degli Stati confinanti) generò a più riprese nuove esplosioni di conflitto armato. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell'Egitto, Israele concluse un accordo segreto con Francia e Gran Bretagna, che intendevano recuperare il controllo del canale, e il 29 ottobre invase il Sinai. Il 30 ottobre Londra e Parigi lanciavano un ultimatum a entrambi i contendenti, chiedendone il ritiro dal canale, che avrebbe dovuto essere occupato da una forza anglo-francese, e il 31 ottobre avviavano le operazioni militari contro l'Egitto che aveva respinto l'ultimatum. Avversata dagli Stati Uniti e dall'URSS (che minacciò di intervenire in difesa dell'Egitto), l'iniziativa anglo-franco-israeliana fu bloccata dall'ONU: dopo il veto delle due potenze europee nel Consiglio di sicurezza, il deciso intervento dell'Assemblea generale portò alla sospensione delle ostilità (6 novembre), allo schieramento nel Sinai di una forza di interposizione dell'ONU e al ritiro delle truppe anglo-francesi entro la fine dell'anno e di quelle israeliane entro il marzo 1957.

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Dalla Guerra dei sei giorni all'invasione israeliana del Libano

Nel corso degli anni Sessanta nuovi scontri si verificarono lungo le frontiere israeliane con la Siria, la Giordania e l'Egitto; nel maggio 1967, dopo un aggravamento degli incidenti fra Israele e Siria, l'Egitto costrinse le forze dell'ONU al ritiro dal Sinai e chiuse alle navi israeliane gli stretti di Tiran, bloccando l'accesso di Israele al Mar Rosso. Il 5 giugno Tel Aviv lanciava un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria e nel giro di sei giorni otteneva una vittoria schiacchiante, sottraendo all'Egitto la striscia di Gaza e il Sinai, alla Giordania tutta la Cisgiordania (compresa la parte orientale di Gerusalemme) e alla Siria le alture del Golan. La Guerra dei sei giorni segnò in qualche modo una cesura nel lungo conflitto arabo-israeliano. Da un lato l'evoluzione nei rapporti di forza che essa metteva in luce e l'ampiezza del territorio occupato da Tel Aviv (oltre il triplo di quello compreso entro i confini del 1949) aprivano la strada a una sempre più esplicita trasformazione del contenzioso fra i paesi arabi e Israele dalla originaria contestazione dell'esistenza di quest'ultimo alle condizioni (in primo luogo territoriali) per la pace con esso; dall'altro il passaggio dell'intera Palestina sotto il controllo di Tel Aviv inaugurava una nuova fase, caratterizzata da un'accresciuta centralità della questione palestinese, dall'estensione dell'amministrazione israeliana a un'ampia popolazione araba (quasi un milione di persone nel 1967, malgrado le nuove centinaia di migliaia di profughi provocate dalle operazioni belliche) e dai riflessi di tale situazione all'interno dello Stato di Israele. Per quanto riguarda l'evoluzione dei rapporti di Israele con i paesi arabi, fondamentale sarebbe risultato negli anni successivi il quadro di riferimento definito dalla risoluzione nr. 242 approvata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU il 22 novembre 1967: essa poneva alla base delle future trattative diplomatiche il principio della restituzione dei territori occupati in cambio della pace, stabilendo sia il "ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto", sia il "riconoscimento della sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato della regione". Malgrado la risoluzione affermasse con nettezza "l'inammissibilità dell'acquisizione di territori mediante la guerra", un'ambiguità presente nel suo testo inglese ("withdrawal from territories occupied"), a differenza di quello francese ("retrait des territoires occupés"), consentì a Tel Aviv di considerarla compatibile con una restituzione soltanto parziale dei territori occupati con la Guerra dei sei giorni. Fin dal 1967, pertanto, Israele procedette all'annessione del settore orientale di Gerusalemme (sancita nel luglio 1980 da una legge fondamentale), mentre negli altri territori, sottoposti ad amministrazione militare, fu avviata un'opera di colonizzazione, mediante insediamenti israeliani, particolarmente intensa nella regione cisgiordana. Dopo il fallimento dei primi tentativi diplomatici seguiti alla guerra del giugno 1967, la situazione di stallo fra Israele e i paesi confinanti, che reclamavano la restituzione di tutti i territori occupati, fu interrotta da un nuovo conflitto armato nell'autunno 1973, quando un improvviso attacco lanciato da Egitto e Siria il 6 ottobre (giorno della festività ebraica del Kippur) colse di sorpresa le forze israeliane, che subirono un iniziale insuccesso. Soltanto il 25 ottobre, dopo violenti combattimenti e tre successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU, fu possibile raggiungere un precario cessate il fuoco, consolidato nel 1974 dagli accordi di disimpegno fra Israele ed Egitto (gennaio) e fra Israele e Siria (maggio), che consentirono l'interposizione tra i contendenti di nuove forze dell'ONU. Fra Israele e Siria fu ristabilito il fronte scaturito dalla Guerra dei sei giorni, mentre il ritiro israeliano dal Canale di Suez portò alla riapertura di quest'ultimo, dopo otto anni, nel giugno 1975; nel settembre 1975 un secondo accordo di disimpegno con l'Egitto stabiliva un ulteriore arretramento israeliano, permettendo al Cairo il recupero di una porzione del Sinai. Il mutamento di linea avviato dall'Egitto condusse infine alla sua disponibilità a concludere una pace separata con Israele in cambio di una restituzione integrale del Sinai: dopo gli accordi di Camp David (17 settembre 1978), raggiunti con la mediazione degli USA, un trattato di pace fra i due Stati fu effettivamente firmato a Washington il 26 marzo 1979. Nell'aprile 1982 Tel Aviv completava il proprio ritiro dal Sinai, ma pochi mesi prima (dicembre 1981) la sua annessione del Golan aveva confermato la difficoltà di estendere il processo di pace agli altri interlocutori. Fra questi ultimi crescente rilievo assunse, dopo il 1967, quello palestinese, sia sul piano politico-militare, sia sul piano diplomatico. Nonostante le resistenze di Amman (interessata a riaffermare la propria sovranità sulla Cisgiordania), nell'ottobre 1974 il vertice arabo di Rabat riconobbe l'OLP quale unico rappresentante legittimo del popolo palestinese; il mese successivo l'organizzazione otteneva lo status di osservatore permanente all'ONU e nell'ottobre 1976 diveniva membro a pieno titolo della Lega araba. Malgrado la risoluzione nr. 242 non facesse riferimento esplicito ai palestinesi (se non quando affermava la necessità di una "giusta soluzione del problema dei profughi"), a partire dagli anni Settanta divenne evidente che essi erano un soggetto indipendente dalla Giordania e costituivano il principale interlocutore di Tel Aviv per il futuro della Cisgiordania e di Gaza. Proprio negli anni Settanta l'OLP imboccava la strada che doveva portarla ad abbandonare, almeno a breve termine, l'obiettivo di uno Stato comprendente l'intera Palestina e a perseguire la costituzione di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano (in pratica, in Cisgiordania e a Gaza, cioè in meno di un quarto della Palestina); tale processo, lento e difficile anche in virtù del persistente problema dei profughi originari dei territori acquisiti da Israele nel 1948-49, sarebbe culminato nel novembre 1988 con la proclamazione dello Stato di Palestina e l'accettazione esplicita della risoluzione nr. 242. Ciò nonostante, i rapporti fra Israele e l'OLP rimasero esclusivamente conflittuali e fu proprio per eliminare le basi della guerriglia palestinese, ormai concentrate essenzialmente nel Libano, che Tel Aviv affrontò una nuova guerra nel 1982. Dopo un primo intervento nel Libano meridionale (marzo 1978), che aveva portato alla creazione di una 'fascia di sicurezza' lungo il confine con Israele, le forze israeliane invasero il paese nel giugno 1982, spingendosi fino a Beirut e sottoponendola durante l'estate a un durissimo assedio. L'occupazione del Libano meridionale si protrasse per circa tre anni (dal settembre 1983 le truppe israeliane, sottoposte agli attacchi dei guerriglieri libanesi e palestinesi, furono ritirate gradualmente verso sud), ma gli obiettivi furono raggiunti solo in parte: le organizzazioni palestinesi furono indebolite, tuttavia la loro presenza in Libano non venne eliminata, mentre il tentativo di insediare a Beirut un governo alleato si rivelò del tutto fallimentare. Nel giugno 1985 Tel Aviv completava il ritiro delle proprie forze, mantenendo in Libano soltanto il controllo della fascia di sicurezza (che avrebbe abbandonato solo nel maggio 2000): il lungo conflitto, nel quale erano state parzialmente coinvolte le forze siriane presenti in Libano, aveva provocato decine di migliaia di vittime, soprattutto fra la popolazione civile.

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Il problema dello Stato palestinese

Il problema principale per l'avvio di un dialogo fra Israele e i palestinesi era costituito dalla rivendicazione di questi ultimi del diritto di dar vita a un proprio Stato indipendente, almeno nella porzione di Palestina occupata da Israele nel 1967, mentre Tel Aviv non sembrava disposta ad andare oltre l'ipotesi di una forma di autonomia amministrativa per la popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza; la prosecuzione, inoltre, degli insediamenti israeliani nei territori occupati pareva destinata a rendere sempre più difficile una loro restituzione agli arabi e irreversibile l'acquisizione del controllo israeliano su di essi. L'intransigenza di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi era anche connessa con l'evoluzione del quadro politico israeliano, che a partire dal 1973 vide un ridimensionamento della tradizionale egemonia laburista a vantaggio della destra nazionalista. Sull'evoluzione del quadro politico influirono, fra l'altro, il peggioramento della situazione economica verificatosi negli anni Settanta e Ottanta e la crescita della componente sefardita della popolazione ebraica, meno legata di quella ashkenazita alla tradizione laburista, mentre diminuiva il rapporto fra ebrei e arabi israeliani a causa del maggiore incremento naturale di questi ultimi e del forte calo del flusso migratorio dall'estero dopo la metà degli anni Settanta. Queste tendenze demografiche furono tuttavia arrestate nei primi anni Novanta dalla fortissima immigrazione dall'area ex sovietica (oltre mezzo milione di persone nel 1990-93), che accrebbe nuovamente l'incidenza degli ebrei ashkenaziti sul totale della popolazione israeliana e contribuì alla ripresa laburista nelle elezioni del 1992. La situazione politica era influenzata anche dalle nuove condizioni venutesi a creare dopo il 1967, in seguito al passaggio sotto il controllo di Tel Aviv della popolazione rimasta nei territori palestinesi occupati. Con l'eccezione di Gerusalemme orientale, questi non furono annessi, ma il sistema di amministrazione militare e il processo di colonizzazione cui furono sottoposti portarono a una loro forma di integrazione con Israele e allo sfruttamento delle loro risorse (in particolare di quelle idriche) da parte dello Stato occupante, senza però che gli abitanti arabi avessero accesso ai diritti civili e politici connessi con l'acquisizione della cittadinanza israeliana. Un'annessione formale della Cisgiordania e di Gaza (e dunque un'estensione della cittadinanza ai loro abitanti), oltre a provocare reazioni internazionali, avrebbe avuto come conseguenza quella di innalzare nettamente il rapporto tra arabi ed ebrei in Israele (delineando anche la prospettiva di una possibile maggioranza araba nel paese), ma il mantenimento dello status quo, ossia di una vasta popolazione soggetta a un regime di occupazione militare, non poteva protrarsi a lungo senza divenire un grave problema per la società israeliana. Dalla fine del 1987 questa dovette affrontare uno stato di rivolta semipermanente nei territori palestinesi occupati ('Intifada'), che sottolineò la centralità della questione palestinese nel conflitto medio-orientale e incise sensibilmente sugli equilibri della regione, mentre la repressione e gli scontri tra le forze occupanti e la popolazione civile suscitavano ampie ripercussioni sia in Israele sia in campo internazionale. Alla crescita della tensione contribuiva anche la prosecuzione degli insediamenti israeliani, in particolare in Cisgiordania, dove nel 1993 i coloni erano divenuti oltre 100.000, a fronte di circa un milione di palestinesi (a Gaza questi ultimi erano quasi 700.000 e i coloni israeliani alcune migliaia). Dopo la guerra del gennaio-febbraio 1991 nel Golfo Arabico (cui Israele non partecipò, benché colpito da alcuni missili iracheni, anche per le pressioni degli Stati Uniti), il problema dei territori palestinesi occupati fu ricondotto all'attenzione internazionale (insieme a quelli del Golan e della 'fascia di sicurezza' in Libano) dai negoziati avviati nell'ottobre 1991 fra Israele, Libano, Siria, Giordania e palestinesi, questi ultimi non rappresentati ufficialmente dall'OLP per l'opposizione israeliana. Fondati sul principio delle trattative bilaterali dirette fra Tel Aviv e i singoli interlocutori arabi, cui si affiancavano colloqui multilaterali su temi di interesse comune, i negoziati registrarono qualche progresso nei rapporti fra Israele e gli Stati confinanti, mentre incontrarono il principale ostacolo nel problema palestinese; i temi di maggiore difficoltà restavano la questione di Gerusalemme (che Israele considerava definitivamente annessa) e le divergenze circa il futuro della Cisgiordania e di Gaza, dopo una fase transitoria di autonomia che per i palestinesi doveva portare alla nascita di uno Stato indipendente. Nel 1993, dopo una serie di incontri segreti, Israele e OLP raggiungevano infine un accordo preliminare, che consentiva il loro riconoscimento reciproco e la firma a Washington, il 13 settembre, di una Declaration of principles per lo sviluppo di un processo di pace tra i due popoli. Pur stabilendo i primi passi e i limiti temporali (non oltre i cinque anni) della fase transitoria di autonomia, la Dichiarazione ha rinviato alle successive trattative tutti i problemi di fondo, limitandosi a delineare le basi di un processo negoziale assai complesso e difficile.

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