Medioevo: la scienza siriaca. Matematica e astronomia

Storia della Scienza (2001)

Medioevo: la scienza siriaca. Matematica e astronomia

Henri Hugonnard-Roche

Matematica e astronomia

Le testimonianze dirette e indirette della produzione astronomico-matematica in lingua siriaca sono tutt'altro che cospicue. La fonte più importante è, come in altri campi del sapere, greca e, più in particolare, alessandrina. La matematica e l'astronomia venivano certamente insegnate ad Atene, in particolare da Proclo (V sec.) che impartì delle lezioni su Euclide e su Tolomeo, le quali confluirono in un commentario al primo libro degli Elementi e in un'esposizione critica dell'astronomia tolemaica, nota col titolo di Hypotýpōsis tõn astronomikõn hypothéseōn (Compendio di ipotesi astronomiche). Tuttavia, alla fine dell'Antichità, fu Alessandria, nell'Impero romano-bizantino, a detenere il rango di capitale intellettuale e di grande centro degli studi matematici e astronomici. La lunga tradizione scientifica di questa città, illustrata prima, nel III e nel II sec. a.C., dai nomi di Apollonio di Perge e di Ipparco e successivamente, verso la metà del II sec. della nostra era, da quello di Tolomeo, che compilò in questa città il suo grande trattato astronomico, la Mathēmatikḕ sýntaxis (Almagesto), proseguirà con Diofanto (250 ca.), Pappo (320 ca.), e Teone (360-370 ca.), editore di Euclide e commentatore di Tolomeo.

Eredi di questa tradizione, gli scienziati alessandrini del V e VI sec. perseguono l'ideale di un sapere enciclopedico, l'enkýklios paideía, che abbraccia studi di carattere filosofico, scientifico e medico. Il cursus scolastico prevedeva, in particolare, lo studio delle quattro discipline matematiche tradizionali: l'aritmetica, sulla base di Nicomaco e di Diofanto; la musica, sulla base di Aristosseno; la geometria, sui testi di Euclide e sui commentari di Pappo e di Erone; l'astronomia, per la quale i testi erano quelli di Tolomeo, di Teone e gli Sferica di Teodosio. Spesso gli stessi maestri si occupavano sia di scienza sia di filosofia. Ammonio (m. dopo il 517) fu uno dei più importanti maestri di questa scuola. Suo padre Ermia aveva introdotto ad Alessandria il sapere filosofico appreso ad Atene, alla scuola di Proclo. Benché Ammonio fosse considerato un esperto conoscitore di Aristotele, insegnò anche l'aritmetica di Nicomaco e l'astronomia di Tolomeo e, col fratello Eliodoro, eseguì alcune osservazioni astronomiche. Ebbe come successore, alla guida della sua Scuola, Eutocio, un matematico commentatore di Archimede e Apollonio. Tra i suoi allievi figuravano Giovanni Filopono, che intraprese una revisione della fisica di Aristotele, e Damascio e Simplicio, entrambi commentatori di Euclide.

Il periodo classico

Ad Alessandria si recarono, per compiere i loro studi, i primi eruditi siri, e da essa il sapere greco si diffuse nelle regioni di lingua siriaca già ellenizzate attraverso la mediazione delle comunità cristiane (Siria e Alta Mesopotamia). Anche Sergio di Reshaina, che a dire del grande storico ed erudito Barebreo introdusse le scienze profane nella cultura siriaca, seguì ad Alessandria corsi di medicina e di filosofia, prima di trasmettere per iscritto le sue conoscenze dell'opera di Aristotele (v. cap. II) e di intraprendere numerose traduzioni di Galeno (v. cap. V). Senza dubbio, ad Alessandria egli apprese anche alcune nozioni elementari di astronomia o, almeno, gli elementi di astronomia usati nell'astrologia. Nella sua traduzione del trattato di Galeno Sui giorni critici egli dedica, infatti, molte pagine alla descrizione delle possibili figure formate dalle posizioni relative della Luna e dei pianeti: trigoni, tetragoni, esagoni, con i loro rispettivi influssi; spiega poi dettagliatamente come determinare in un momento dato la posizione del Sole nei segni dello Zodiaco.

I pochi elementi di astronomia che si trovano nell'opera di Sergio di Reshaina, in relazione a questioni mediche, non dimostrano un'approfondita conoscenza dei più importanti trattati dell'astronomia greca, in particolare dell'Almagesto e delle Tavole manuali. È invece con Severo Sebokht (v. cap. II) che abbiamo le prime testimonianze di un'autentica conoscenza dell'astronomia tolemaica e di un'indiscutibile abilità nell'utilizzazione delle tecniche di calcolo basate sulle Tavole manuali. È interessante osservare che, nello stesso momento in cui si rende artefice dell'acquisizione della scienza greca, Sebokht rivendica ai Siri una tradizione di sapere scientifico altrettanto grande e più antica di quella dei Greci stessi. In una breve opera composta nel 662, egli scrive:

Nessuno negherà che i Babilonesi fossero dei Siri. Di conseguenza, coloro che sostengono che non è possibile che i Siri sappiano qualcosa di astronomia si ingannano gravemente, dal momento che proprio i Siri sono stati gli inventori e i primi maestri di queste discipline. Anche Tolomeo, nell'Almagesto, lo riconosce quando, nel determinare l'origine del computo del Sole, della Luna e dei cinque pianeti, non inizia dagli anni dei re greci, ma da quelli dei re di Babilonia, e cioè da Nebocadneṣar, re degli Assiri. […] Egli dimostra con ciò di aver trovato presso i Babilonesi, e non presso i Greci, l'origine e la base dei calcoli che ha eseguito. (Nau 1929-30, p. 333)

Sebokht, tuttavia, non vuole incorrere nello stesso errore di quanti intendono attribuirsi la paternità del sapere matematico, poiché egli è convinto che la scienza sia un patrimonio comune:

Eviterò di parlare, in questa occasione, della scienza degli Indiani, che non sono neppure Siri, delle loro raffinate scoperte nella scienza dell'astronomia ‒ scoperte più ingegnose di quelle degli stessi Greci e dei Babilonesi ‒, del metodo retorico di eseguire il calcolo, e di quel criterio di calcolo che supera il metodo retorico, di quello cioè che si compie con nove segni. Se avessero saputo queste cose, coloro che credono di essere stati gli unici ad accedere alla scienza più elevata, solo perché parlano greco, si convincerebbero forse, anche se con un certo ritardo, che anche altri sanno qualcosa: non solo i Greci, ma anche uomini di lingue differenti. Non dico ciò per disprezzare la scienza dei Greci […] ma per dimostrare che la scienza è un patrimonio comune. (Nau 1910a, pp. 225-226, e 1910b, pp. 248-250)

È questa la prima famosa menzione, nell'Oriente di lingua semitica, delle cosiddette cifre 'arabe'. Riguardo a questo passo si può inoltre sottolineare che Sebokht allude a due metodi di calcolo: il primo, il metodo 'retorico', che fa ricorso a formule proprie della mnemotecnica per rendere più semplice il computo; il secondo, invece, che utilizza le cifre dell'aritmetica decimale posizionale, considerato superiore al primo. D'altro lato, nelle sue opere, Sebokht non usa le cifre di origine indiana, ma le lettere dell'alfabeto siriaco, alle quali era attribuito un valore numerico. Ci si può chiedere, d'altra parte, in che misura egli conoscesse effettivamente la matematica o l'astronomia indiane e, più in generale, quale fosse il suo legame con la tradizione scientifica indo-persiana, sviluppatasi nell'Impero sasanide prima dell'epoca araba. Secondo le nostre fonti, egli avrebbe tradotto un'opera logica redatta in pahlavī, alla corte di Cosroe I, da Paolo il Persiano (v. cap. II), ma non siamo a conoscenza di nessuna sua traduzione dal pahlavī di testi scientifici. D'altro canto, i suoi stessi trattati astronomici si iscrivono rigorosamente nella tradizione tolemaica e non rivelano influenze indo-persiane.

Non ci è pervenuto nessun trattato matematico di Sebokht, ma possediamo molte sue opere che si occupano di astronomia e di geodesia. Innanzi tutto, il Trattato sull'astrolabio, scritto prima del 660 e diviso in due parti. Nella prima, l'autore fornisce una definizione dell'astrolabio, strumento che consente di determinare le ore, il sorgere degli astri, i tropici, e tutti i fenomeni relativi al movimento longitudinale e latitudinale della sfera celeste e ai cambiamenti del clima; quindi descrive gli elementi di cui si compone lo strumento: i timpani, adattati alle diverse latitudini e collocati all'interno della cosiddetta madre su cui l'astrolabio è imperniato e può ruotare; la rete (o ragno), che rappresenta l'eclittica e che reca le dodici costellazioni dello Zodiaco e le principali stelle fisse. Nella seconda parte, dedicata alle applicazioni di questo strumento, Sebokht risolve venticinque problemi e, nello stesso tempo, indica le regole e la procedura da seguire.

Le fonti del trattato sono esclusivamente greche. Molti termini greci, quali epochḗ ('posizione') o tropḗ isēmerinḗ ('tropico equinoziale', cioè il circolo dell'equatore) non sono tradotti, ma semplicemente traslitterati in siriaco. Sebokht inoltre, per spiegare questo o quel metodo di calcolo, riprende da Tolomeo l'esempio del quarto clima, quello della città di Rodi. I valori riportati nel calcolo delle ascensioni rette sulla sfera si trovano nel commentario di Teone alle Tavole manuali. Nel corso della sua opera, del resto, Sebokht distingue sempre il "Filosofo che ha scritto sull'astrolabio", cioè Teone di Alessandria, da Tolomeo, del quale cita a più riprese le Tavole manuali, in particolare per spiegare come controllare i risultati ottenuti con l'astrolabio, ponendoli a confronto con quelli acquisiti per mezzo delle tavole composte da Tolomeo.

Inoltre, un raffronto del trattato di Sebokht con un indice analitico del trattato sull'astrolabio di Teone (andato perduto in greco ma conservato dallo storico arabo al-Ya῾qūbī,) dimostra che egli si è attenuto rigorosamente al trattato del suo predecessore alessandrino, compilato nel 375. Il trattato di Teone è anche la fonte di un'opera dello stesso genere compilata da Giovanni Filopono (m. 567 ca.), notevolmente inferiore rispetto a quella di Severo.

Siamo inoltre in possesso di un'opera di Sebokht, nota con il titolo di Discorso sulle costellazioni, scritta nel 661, che è fondamentalmente un trattato di astronomia generale, diviso in diciotto capitoli. I primi sono diretti contro i poeti e gli astrologi che attribuivano alle costellazioni un'influenza legata al loro nome e alle figure astrologiche formate dagli astri. L'autore afferma, al contrario, che le denominazioni delle costellazioni e delle figure astrologiche sono frutto di semplici convenzioni senza alcuna relazione con la natura degli astri e critica severamente le storie narrate a proposito delle figure delle costellazioni che menziona citando, in siriaco, numerosi brani dei Fenomeni di Arato.

Gli altri capitoli trattano della causa delle eclissi, del sorgere e del tramontare dei segni dello Zodiaco e delle stelle, della Via Lattea, dei circoli della sfera celeste, dei climi e della durata massima e minima dei giorni e delle notti relativamente alla latitudine secondo la Geografia e le Tavole manuali di Tolomeo, dell'uso dell'astrolabio per determinare le coordinate celesti di un luogo, della misura del cielo e della Terra, delle aree terrestri abitabili e disabitate. Tutti temi, questi, appartenenti a quella parte dell'astronomia che concerne il movimento del primo mobile, mentre, nel trattato, non trova posto l'astronomia planetaria, cioè la parte più importante dell'astronomia tolemaica. Questo trattato si presenta, quindi, come il corrispondente teorico di un manuale di applicazione dell'astrolabio.

Gli altri scritti conosciuti di Sebokht sono meno vasti. Si tratta di lettere redatte per rispondere ad alcuni quesiti astronomici. Una di queste, per esempio, è stata scritta nel 662 a un sacerdote chiamato Basilio, periodeuta a Cipro, in risposta a una domanda sulla possibilità delle congiunzioni dei sette pianeti. Tale questione era stata trattata nelle discussioni sull'eternità del mondo, in particolare nella polemica che oppose Giovanni Filopono a Proclo. In quella circostanza, Filopono aveva fatto riferimento a una congiunzione dei sette pianeti nel Toro, avvenuta nell'anno 245 di Diocleziano (vale a dire nel 529). Questa stessa congiunzione è ricordata anche da Severo, che aggiunge alcuni dettagli omessi da Filopono. In questa occasione egli spiega correttamente come calcolare, per mezzo delle Tavole manuali, le posizioni dei pianeti a una certa data, e cioè il 27 del mese alessandrino di Pachon dell'anno 245 di Diocleziano (corrispondente al 22 maggio 529 della nostra era) e afferma che vi saranno ancora altre congiunzioni dei sette pianeti.

In un'altra lettera, indirizzata anch'essa a Basilio, Sebokht interviene per stabilire la data della quattordicesima Luna piena del mese di Nisan (marzo/aprile) dell'anno 665; si trattava di sapere se il giorno di Luna piena successivo all'equinozio di primavera, che determinava la data della Pasqua, cadesse il 5 o il 6 aprile, e se si dovesse celebrare la Risurrezione la domenica 6 o la domenica 13 aprile dell'anno 665. In un'altra lettera, destinata a un certo Stefano, Severo affrontava il problema di come calcolare la posizione del nodo ascendente e del nodo discendente della traiettoria della Luna, con o senza le Tavole manuali, e di come prevedere un'eclissi di Sole e di Luna. Nella sua risposta Sebokht rinvia ai commentari di Teone alle Tavole manuali e cita l'anno 359 di Diocleziano (643 della nostra era) come esempio di calcolo.

In questi scritti, e in altri che concernono, per esempio, la data della nascita di Cristo, o la causa delle eclissi, Sebokht si dimostra un fedele seguace dell'astronomia tolemaica; conosce l'Almagesto, la Geografia, le Tavole manuali, che dimostra di saper abilmente utilizzare, e i commentari di Teone alle Tavole, così come il suo Trattato sull'astrolabio. Non sappiamo se queste opere siano state tradotte in siriaco al tempo di Sebokht, ma non è improbabile che egli abbia lavorato direttamente sui testi greci, come, del resto, i suoi allievi e successori Giacomo di Edessa e Giorgio delle Nazioni. I pochi elementi di astronomia contenuti nell'Hexaemeron di Giacomo di Edessa (v. cap. VI) e nelle due lettere di carattere astronomico di Giorgio delle Nazioni ‒ dedicate alla descrizione dei climi e alla durata dei giorni e delle notti ‒ possono evidentemente essere stati desunti dalla consultazione diretta dei trattati e delle tavole di Tolomeo, da autori che conoscevano alla perfezione il greco.

A proposito di Sebokht rimane aperta la questione di un eventuale rapporto tra la tradizione siro-occidentale, che egli rappresenta, e la tradizione siro-orientale delle scienze greche. Dopo lo scisma della Chiesa orientale (410), gli scritti profani hanno seguito percorsi distinti nelle due tradizioni. Nella Mesopotamia sasanide e persiana, in particolare a Seleucia-Ctesifonte, la capitale dell'Impero, sono sorti importanti centri di studio. Alcuni principi sasanidi, come Shapur I e soprattutto Cosroe I, hanno dato un forte impulso agli studi. Alla corte di Cosroe II (Xusrō, 590-628), un certo Aba (Āḇā) di Kashgar è divenuto celebre per la sua conoscenza del greco, del persiano, del siriaco, dell'ebraico, così come della medicina e dell'astronomia. Il poema astrologico di Doroteo di Sidone (I sec. d.C.) fu tradotto dal greco in pahlavī. L'astronomia sasanide mette insieme un materiale composito, proveniente da fonti greche, rielaborate sotto l'influenza di teorie indiane, a loro volta influenzate dall'astronomia greca. Ignoriamo ancora quale sia stato l'apporto siriaco nella costituzione di questa tradizione orientale, così come non sappiamo ‒ salvo per le cifre indiane ‒ in che misura Sebokht la conoscesse.

L'età abbaside

Con l'inizio del califfato abbaside, fondato nel 750 da al-Manṣūr, si apre una nuova fase per la scienza di lingua siriaca, della quale, però, abbiamo una conoscenza che è ben lungi dall'essere soddisfacente, perché basata quasi esclusivamente su testimonianze sparse, in gran parte presso i bibliografi arabi (soprattutto Ibn al-Nadīm, la cui compilazione al-Fihrist risale al 987). Da queste testimonianze si desume l'esistenza di versioni siriache di opere matematiche o astronomiche greche; versioni oggi perdute, dal momento che caddero progressivamente in disuso da quando la lingua araba si impose sempre più come lingua scientifica.

Così, per esempio, un copista segnala, in un manoscritto arabo del trattato archimedeo Sulla sfera e il cilindro (risalente al XIII sec.), che il traduttore di quest'opera dal greco al siriaco avrebbe dichiarato di aver omesso di tradurre un brano, a causa della sua difficoltà di comprensione. È possibile, inoltre, che sia esistita una traduzione siriaca della Misura del cerchio di Archimede, perché, secondo la testimonianza del bibliografo al-Qifṭī (m. 1248), il matematico Sinān ibn Ṯābit (m. 942) avrebbe tradotto e corretto una versione siriaca di quest'opera, eseguita dal medico e geometra Yuhanna al-Qass (Yuḥannā al-Qaṣṣ, attivo nella prima metà del X sec.); si tratta, tuttavia, di una notizia di carattere controverso. Secondo lo stesso bibliografo, al-Qifṭī, gli scritti del geometra greco Menelao sarebbero stati tradotti dapprima in siriaco e poi in arabo, anche se non è possibile dimostrare che la versione araba sia stata eseguita dal siriaco.

Siamo invece in possesso di informazioni più precise per quanto riguarda l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa. Nel prologo di una parafrasi all'opera di Nicomaco (conosciuta nella versione ebraica, redatta ad Arles, verso il 1317, da Calonymos ben Calonymos), il vescovo di Elvira, Abū Sulayman Rabī῾ al-Yaḥyā, segnala una traduzione araba dell'Introduzione eseguita dal siriaco dal metropolita nestoriano di Mosul, Ḥabīb (῾Abdyasu᾽) ibn Bihriz, su richiesta del suo finanziatore, il generale arabo Taḥrīr ibn al-Ḥusayn (m. 822/823). Secondo questa stessa fonte, il filosofo al-Kindī (m. 870) aveva iniziato a correggere questa traduzione.

Ci è pervenuto, infine, un solo testo greco di matematica in una versione siriaca di cui, per giunta, possediamo solo alcuni frammenti. Si tratta di una traduzione degli Elementi di Euclide, di cui restano, in un solo manoscritto (in cattivo stato), le proposizioni del primo libro comprese tra la 1 e la 23, e tra la 27 e la 40. La traduzione è anonima e non è ricordata nelle bibliografie arabe. Essa è stata ritenuta da alcuni come eseguita su una versione araba, da altri come realizzata dal greco, ma in entrambi i casi con argomenti poco convincenti.

Per tentare di comprendere il contesto in cui queste traduzioni siriache sono state eseguite bisogna prendere in considerazione anche le traduzioni siriache di testi astronomici. La Mathēmatikḕ sýntaxis di Tolomeo, conosciuta nel mondo arabo come al-Maǧisṭī (l'Almagesti o Almagestum dei latini, da cui la forma volgare Almagesto), è stata tradotta in siriaco, come testimonia il matematico e astronomo arabo Ibn al-Ṣalāḥ (m. 1154). Nel trattato in cui critica i valori delle coordinate delle stelle, quali erano stati trasmessi dalla tradizione del catalogo delle stelle di Tolomeo, Ibn al-Ṣalāḥ afferma di conoscere cinque versioni dell'Almagesto, una delle quali anonima, eseguita dal greco in siriaco. Egli era in possesso di questa versione (oggi perduta) dalla quale cita a più riprese i valori. È interessante osservare che molto frequentemente Ibn al-Ṣalāḥ pone in relazione questa versione siriaca con la più antica delle traduzioni arabe, eseguita da al-Ḥasan ibn al-Qurayš per il califfo al-Ma᾽mūn (che regnò dall'813 all'833), definendole entrambe antiche versioni che riportano gli stessi valori. La versione siriaca era considerata antica anche all'epoca in cui il grande dotto persiano Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī redigeva la sua versione scolastica dell'Almagesto (1247). Da questi autori, l'attributo 'antico' veniva in genere riservato alle traduzioni eseguite nella prima metà o nel primo terzo del IX sec., o in un periodo addirittura precedente.

Le traduzioni siriache di testi greci devono inoltre essere collegate alle poche testimonianze in nostro possesso sugli eruditi di lingua siriaca, attivi nel primo periodo del califfato abbaside, come, per esempio, Teofilo figlio di Tommaso, un cristiano maronita, nato a Edessa verso il 695, che fu l'astrologo di corte al tempo del califfo al-Mahdī (775-785). Teofilo compilò alcuni trattati di astrologia, in greco e in arabo, utilizzando materiali sasanidi, ma si distinse anche per la sua traduzione di Omero in siriaco. Egli rappresenta il tipo esemplare del letterato di origine siriaca, capace di tradurre dal greco sia in siriaco sia in arabo, e in grado di favorire la trasmissione dei testi scientifici, sia direttamente sia attraverso l'influenza esercitata sulla vita intellettuale del suo tempo. Un altro esempio, relativo alla generazione successiva, è quello del katholikòs Timoteo I, egli stesso autore di opere astronomiche (probabilmente rivolte contro l'astrologia), il quale tradusse, o fece tradurre, dal greco in siriaco o in arabo.

In conclusione, la Baghdad dei primi abbasidi costituì un ambiente particolarmente propizio alla trasmissione dell'eredità matematica e astronomica, sia attraverso le versioni siriache sia attraverso quelle arabe. La tradizione greco-sasanide era rappresentata da autori come Māšā᾽Allāh, Fazārī, Abū Ma῾šar. È tuttavia probabile che un altro tramite della tradizione e dell'influenza greco-siriaca sui primi studi scientifici arabi sia da individuare a Harran (Ḥarrān), nell'Alta Mesopotamia. In questa città rimasta pagana, la cui popolazione praticava una religione astrale ellenizzata, si era a lungo conservata una tradizione erudita che, nell'epoca abbaside, ha prodotto uomini illustri che si sono recati a Baghdad a professare la propria arte, come traduttori, matematici e astronomi. Ci riferiamo, per esempio, a Salm, astronomo, che fu a capo del Bayt al-ḥikma (Casa della sapienza); a Ṯābit ibn Qurra (m. 901), illustre traduttore, matematico e astronomo, capostipite di una famiglia di eruditi e traduttori; o ancora all'astronomo al-Battānī. Così, anche se disponiamo solo di scarse tracce della produzione e dell'attività scientifica ed erudita che si svolgeva in siriaco durante gli ultimi decenni dell'VIII sec. e durante i primi del IX sec., è molto probabile che in questo periodo essa si sia sviluppata parallelamente in entrambe le lingue, siriaco e arabo. L'arabo infatti iniziava in questo periodo a svolgere il suo ruolo di linguaggio tecnico.

La rinascita del XIII secolo

Quando, nel IX sec., l'arabo si è imposto come lingua scientifica, sono scomparsi gli studi matematici e astronomici in siriaco. Però, nel corso del XIII sec., si verificò una rinascita della cultura siriaca, promossa grazie all'impulso di importanti personalità; oramai, però, gli eruditi e scienziati siri si rivolgevano a scienziati e filosofi di lingua araba, e non più greci. Si distinguono solo due nomi, degni di figurare in una storia della produzione scientifica in lingua siriaca. Il primo è quello di Giacomo bar Shakku, conosciuto anche con il nome di Severo (v. cap. II). Il suo Libro dei tesori è una compilazione di carattere teologico, scritta nel 1231, la quarta parte della quale è dedicata alla creazione dell'Universo. I temi che vengono trattati in quest'opera sono quelli abitualmente contenuti nei trattati definiti esameroni; si tratta di nozioni elementari di cosmografia e di geografia, la cui trattazione, da parte di Severo, non dimostra un'approfondita conoscenza di queste materie. Si potrebbe affermare lo stesso delle nozioni scientifiche contenute in un'altra opera di Severo, il Libro dei dialoghi, un'enciclopedia delle scienze insegnate ai Siri. Lo scopo di quest'opera era quello di condurre, partendo dalla filosofia della Natura, attraverso le rappresentazioni astratte della matematica, fino al livello più elevato della filosofia, cioè alla teologia. Nel secondo dialogo della seconda parte (dedicata alla filosofia), è contenuta una sezione il cui oggetto è il quadrivium, cioè le quattro discipline matematiche ‒ aritmetica, musica, geometria, astronomia ‒ che nell'antichità greca facevano parte del cursus scolastico filosofico, e che erano state riprese dalla tradizione araba, in particolare da al-Fārābī e da Avicenna. Severo non intende compilare un trattato di matematica, ma presentare le nozioni elementari di questa disciplina in una prospettiva filosofica, secondo un metodo sostanzialmente definitorio e descrittivo. La sua fonte è in primo luogo l'Introduzione aritmetica di Nicomaco, ma anche, a quanto sembra, il Kitāb Mafātīḥ al-῾ulūm (Le chiavi delle scienze) di Abū ῾Abd Allāh al-Ḫwārazmī (compilato tra il 975 e il 991) e l'enciclopedia filosofica redatta dagli Īḫwān al-Ṣafā᾽ (Fratelli della purezza).

L'altro scienziato ed erudito del XIII sec. che ci sembra opportuno ricordare in questa sede è Barebreo, il quale nelle questioni propriamente tecniche fu probabilmente più competente di Severo. Egli soggiornò frequentemente, come medico al servizio dei Mongoli, a Maraga (Marāgha, nell'attuale Azerbaigian), una delle capitali dell'Impero, dove il principe Hūlāgū aveva fatto costruire un osservatorio (la costruzione iniziò nel 1259), a capo del quale aveva posto Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, che abbiamo precedentemente menzionato. Nel centro di studi che sorse accanto all'osservatorio lavorarono eruditi e scienziati di grande importanza, e lo stesso Barebreo vi prese parte attiva, tenendo lezioni sugli Elementi di Euclide (nel 1268) e sull'Almagesto di Tolomeo (nel 1272). Il Libro dell'ascensione spirituale, scritto nel 1279, probabilmente a Maraga, è stato forse compilato in base ad alcune note relative ai corsi. Esso è per lo più un riassunto dell'Almagesto, in cui sono omessi i calcoli e in cui sono presentati, secondo una tecnica espositiva didattica, i principî e i risultati dell'astronomia e della geodesia. La prima parte di quest'opera tratta del numero e della classificazione degli astri, dei loro movimenti apparenti e dei fenomeni causati dalle loro rispettive posizioni (le fasi della Luna, le eclissi). La seconda parte tratta, invece, dapprima della divisione della Terra, e poi degli aspetti del cielo e del sorgere degli astri nei diversi climi, della determinazione della meridiana, delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi, degli anni, dei cicli cronologici, e infine della misura della Terra e della misura delle distanze e dei volumi degli astri per mezzo del raggio terrestre. Le grandi divisioni di questo trattato sono molto simili a quelle della Taḏkira (Memoria di astronomia) di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, e alcuni brani si sviluppano parallelamente in entrambe le opere, ma Barebreo utilizzò anche altre fonti, come l'opera dell'astronomo al-Farġānī (attivo nell'833-861 ca.) e gli scritti di Sebokht.

Con Barebreo può dirsi concluso il contributo siriaco alla storia della matematica e dell'astronomia, un contributo che, se non ha prodotto, come si è visto, opere originali, ha il merito di aver mantenuto viva, in una certa misura, la tradizione ricevuta dall'antichità greca, ed è testimonianza dell'intento di fornire alla cultura siriaca un sapere scientifico di alto livello. È con l'ascesa della dinastia abbaside che la partecipazione degli eruditi siri alla scienza della loro epoca ha prodotto, in arabo, le opere più importanti come quella di Ṯābit ibn Qurra.

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‒ 1994: Pingree, David, The teaching of the Almagest in late Antiquity, "Apeiron", 27, 1994, pp. 75-98.

Ruska 1896: Ruska, Julius F., Das Quadrivium aus Severus bar Sakkû's Buch der Dialoge, Leipzig, W. Drugulin, 1896.

Sachau 1870: Inedita Syriaca. Eine Sammlung syrischer Übersetzungen von Schriften griechischer Profanliteratur, hrsg. von Eduard Sachau, Wien, K.K. Hof- und Staatsdruckerei, 1870.

Saliba 1991: Saliba, George, The astronomical tradition of Maragha. A historical survey and prospects for future research, "Arabic sciences and philosophy", 1, 1991, pp. 67-99.

Sezgin 1974: Sezgin, Fuat, Geschichte des arabischen Schrifttums, Leiden, E.J. Brill, 1967-1999, 9 v.; v. V: Mathematik, 1974.

Steinschneider 1893: Steinschneider, Moritz, Die hebraeischen Uebersetzungen des Mittelalters und die Juden als Dolmetscher. Ein Beitrag zur Literaturgeschichte des Mittelalters, meist nach handschriftlichen Quellen, Berlin, Kommissionsverlag des Bibliographischen Bureaus, 1893 (rist.: Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1956).

‒ 1960: Steinschneider, Moritz, Die arabischen Übersetzungen aus dem Griechischen, Graz, Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, 1960.

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