MELDOLLA, Andrea, detto lo Schiavone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009)

MELDOLLA, Andrea,

Luca Bortolotti

detto lo Schiavone. – Nacque da Simone intorno agli anni 1510-15 in Dalmazia (motivo per cui, trasferitosi a Venezia, fu colà ben presto conosciuto con il soprannome di Schiavone, con il quale è ancor oggi meglio noto), quasi certamente nella città di Zara dove erano allora residenti i genitori, originari della cittadina romagnola di Meldola, vicino a Forlì. Il padre Simone, infatti, ricoprì in quegli anni la carica di conestabile della Serenissima nella città dalmata, nella quale anche il fratello del M., Marco Antonio (a sua volta pittore), nacque e visse. Le modestissime informazioni biografiche disponibili mantengono ancora nel limbo della congetturalità la ricostruzione sia della formazione artistica del M., sia dei tempi del suo rientro in Italia. Attraverso il testamento della moglie Marina de Ricis è stato peraltro possibile appurare che il M. mantenne in Zara per tutta la vita terreni di sua proprietà (Richardson).

Lo stato delle conoscenze e i dati di stile ricavabili dalle sue opere più giovanili inducono a escludere un apprendistato in terra dalmata e a situare tutti i termini di riferimento significativi della produzione del M. tra l’arte veneziana e la cultura figurativa manierista centroitaliana e in modo particolare parmense. Se riscuote largo consenso una collocazione cronologica del trasferimento in Venezia del M. nella seconda metà del quarto decennio, la critica è ancora divisa sui passaggi che segnarono la sua formazione professionale. Rivelatasi poco persuasiva sotto ogni profilo l’ipotesi di un periodo trascorso nella bottega di Bonifacio de’ Pitati, le proposte più fondate vertono su un possibile periodo di alunnato presso il Parmigianino (Francesco Mazzola), l’influenza del quale risulta dominante in tutta l’opera del M. e segnatamente nella sua produzione grafica riferibile al quarto-quinto decennio del secolo, ovvero su un apprendistato nella bottega dei fratelli feltrini Lorenzo e Giovanni Pietro Luzzo (la cui produzione è inquadrabile tra i fenomeni epigonici del giorgionismo, con appena caute aperture verso l’onda innovatrice del primo manierismo), attiva sia in Veneto sia in Dalmazia. Nessuna di queste due ipotesi risulta, però, pienamente convincente. Tra le altre cose, Lorenzo Luzzo, di gran lunga la personalità maggiore tra i due fratelli, l’altra riducendosi a poco più che un nome senza opere, morì già al principio del 1527: un po’ presto, si direbbe, per aver giocato un ruolo significativo nella formazione del Meldolla. È evidente, in ogni modo, che il M. s’impegnò in uno studio acribioso dell’opera parmigianinesca, plausibilmente da autodidatta come suggeriva già Ridolfi (p. 247) e sicuramente attraverso il tramite delle incisioni dell’anonimo Maestro FP. Insieme con Antonio da Trento, quest’ultimo fu in effetti il principale traduttore a stampa in Bologna dei disegni del Parmigianino (e conseguentemente uno dei veicoli maggiori della diffusione delle invenzioni del grande maestro) e rappresentò il modello esplicito del M. in alcuni tra i suoi più antichi cimenti grafici: la serie di quattordici incisioni all’acquaforte raffigurante Cristo e gli apostoli, la Virtù che trionfa sul Vizio e l’Ercole, Nesso e Deianira, tutti databili sul finire del quarto decennio anche in ragione dell’incompleto dominio tecnico che in essi è chiaramente percepibile.

La più antica opera di pittura documentata dalle fonti, oggi perduta, fu commissionata al M. nel 1540 da Giorgio Vasari per farne omaggio a Ottaviano de’ Medici.

Così ne diede conto Vasari medesimo nell’edizione del 1568 delle Vite, al termine della biografia dedicata a Battista Franco: «A costui [il M.] fece fare Giorgio Vasari l’anno millecinquecento e quaranta, in una gran tela a olio, la battaglia che poco innanzi era stata fra Carlo V e Barbarossa: la quale opera, che fu delle migliori che Andrea Schiavone facesse mai e veramente bellissima, è oggi in Fiorenza in casa agli eredi del magnifico messer Ottaviano de’ Medici, al quale fu mandata a donare dal Vasari» (p. 597).

Tranne questa citata da Vasari, non è dato associare con certezza alcuna opera di pittura alla mano del M. sino agli inizi del quinto decennio. Se ne può arguire che egli fu a lungo impegnato in un processo di maturazione imperniato prevalentemente sulla grafica, ambito, peraltro, che rimarrà sempre presente nella sua attività, tanto che il M. deve essere stimato tra i più importanti incisori del Cinquecento veneziano. Proprio in questo settore ebbe modo di precisarsi e raffinarsi l’attitudine del M. in favore di una linea fluida e guizzante, elegantemente decorativa, che sintetizza liberamente le forme schizzando i profili delle figure con un incedere rapido e nervoso, senza peraltro che il virtuosismo disegnativo si risolva in composizioni soverchiamente elaborate.

Esemplare di questa fase di ricerca del pittore è la serie di quattro tavolette del Kunst­historisches Museum di Vienna con due Storie di Apollo e due Storie di Giove (con ogni probabilità formelle che decoravano un cassone o un armadio) databili al principio degli anni Quaranta. I dipinti, strettamente collegati a un gruppo di incisioni giovanili di tema mitologico, e in particolare a una delle varie versioni esistenti dell’Apollo e Dafne (Richardson, n. 100, fig. 49), testimoniano in termini eloquenti la sottile operazione compiuta in questi anni dal M. di fusione della basilare componente parmigianinesca con la tradizione pittorica veneziana postgiorgionesca.

A tale congiuntura ancora pienamente evolutiva dell’attività del M. si può ricondurre un gruppo di dipinti, da scalare all’incirca fra il 1542 e il 1547, che ne fanno la punta di lancia della ricezione nella pittura veneziana delle innovazioni formali di impronta manierista elaborate fra Roma, Firenze e Parma.

Si tratta del monumentale e pordenoniano Sansone che uccide un filisteo di Palazzo Pitti a Firenze, della Conversione di s. Paolo della Fondazione Querini-Stampalia di Venezia (sorta di preziosa trasfigurazione del cartone di Raffaello dello stesso soggetto per gli arazzi della cappella Sistina, che dal 1521 era conservato a Venezia nella collezione del cardinale Domenico Grimani) e delle Nozze di Cupido e Psiche conservato all’Istituto di studi rinascimentali di Firenze (ripr. in Richardson, fig. 25), del quale esiste una versione più elaborata successiva di qualche anno oggi al Metropolitan Museum di New York, brillante e inventiva rielaborazione dell’affresco raffaellesco con Psiche presentata agli dei nella Farnesina a Roma. Questa serie di dipinti, se esplicita l’importanza del riferimento a Tiziano e al Pordenone (Giovanni Antonio de Sacchis), al contempo situa l’opera pittorica del M. in un denso rapporto di scambio e parentela con quella degli artisti presenti sulla scena lagunare più aggiornati e ricettivi rispetto all’influenza di modelli extraveneziani: da Paris Bordon a Francesco Salviati, da Giuseppe Porta a Battista Franco sino ai giovani Iacopo Robusti detto il Tintoretto e Iacopo Bassano.

Al 1547 risale l’unico lavoro di tutto il corpus del M. datato e firmato («Andrea Meldolla inventor»): la grande acquaforte con il Ratto di Elena, in cui la suggestione delle maniere del Parmigianino e di Tiziano, ormai felicemente integrate all’interno del suo linguaggio figurativo, si combina con l’eco incisiva della tradizione raffaellesca (la Battaglia di Costantino delle Stanze vaticane) dando vita a una scena all’antica di speciale libertà e animazione. Strettamente affine a quest’opera sotto il profilo stilistico e compositivo è l’Adorazione dei magi della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, tra i primi capolavori della pittura del Meldolla.

In essa l’elemento fantasticamente inventivo e l’accentuata stilizzazione formalistica si combinano con uno sfolgorante andamento cromatico, denso di accensioni, dissonanze e cangiantismi, pervenendo a un punto di equilibrio di alta tenuta stilistica che richiama certi esiti estremisticamente sperimentali in senso manierista di Iacopo Bassano, come la Decollazione del Battista del R. Museo di belle arti di Copenaghen o la Salita al Calvario del Museo di belle arti di Budapest. Prossimi alla tela dell’Ambrosiana furono probabilmente i perduti affreschi con figure monumentali sulla facciata di palazzo Zen ai Crociferi a Venezia, ma anche piccoli dipinti mitologici di distillata eleganza e sprezzata grazia parmigianinesca, come la Diana e Callisto del Musée de Picardie di Amiens e i suoi probabili pendants conservati alla National Gallery di Londra raffiguranti Apollo e Una figura maschile e una femminile, lievi come fregi classici in bassorilievo. Allo stesso frangente risale un dipinto di destinazione devozionale come il Cristo e l’adultera della collezione G. Rossi di Milano (forse l’esemplare citato da Ridolfi in casa del senatore Domenico Ruzzini, p. 252: ripr. in Le siècle de Titien, p. 176) nonché il Cristo Deposto di collezione privata veneziana, già Donà delle Rose, patetica rappresentazione sacra tutta risolta in un concitato e compresso primo piano (ripr. in Da Tiziano a El Greco, p. 133).

La pittura rapida, abbreviata e come sbozzata del M. esemplifica paradigmaticamente quella tecnica cosiddetta «di tocco» che fece scuola, ma anche scalpore, nel contesto lagunare della metà del secolo, meritando, sul finire del quinto decennio, giudizi inequivocabilmente critici da parte di commentatori del prestigio di Pietro Aretino e Paolo Pino, volti a stigmatizzarne l’eccesso di prestezza e sommarietà d’esecuzione, il difetto di diligenza e rifinitezza e il conseguente effetto di sfrangiamento della forma.

Così si espresse Pietro Aretino sulla pittura del M. in una lettera indirizzatagli nell’aprile 1548: «Il sì degno pittore (Tiziano) si è talora stupito de la pratica che dimostrate nel tirare giusto le bozze de le istorie, sì bene intese e sì bene composte che, se la fretta del farle si convertisse ne la diligenza nel finirle, anche voi confermereste il mio ricordo per ottimo» (p. 221). Nella stesso anno, ma con ben maggiore esplicitezza, gli fece eco Paolo Pino nel suo celebre Dialogo di pittura: «E anco quest’empiastrar facendo il pratico, come fa il vostro Andrea Schiavone, è parte degna d’infamia, e questi tali dimostrano saperne poco, non facendo, ma di lontano accennando quello che fa il vivo» (p. 113). Tali giudizi, tipicamente, si sarebbero ribaltati di segno nel gusto dei principali scrittori d’arte veneziani del Seicento, Carlo Ridolfi e Marco Boschini, che avrebbero speso parole di inequivoca ammirazione in lode della pittura del M., non solo per la qualità del colorito e della composizione, ma proprio per la sua leggiadria e capacità di trascendere pittoricamente la mera imitazione della natura.

Il fiammeggiante sperimentalismo tecnico e l’esasperazione calligrafica che connotano il gruppo di opere databile al di qua della metà del secolo cominciarono a stemperarsi dal principio del sesto decennio in dipinti caratterizzati dalla ricerca di una maggiore compostezza e da una ritmica più classicamente veneziana, come il grande Giudizio di Mida oggi nelle Royal Collections di Hampton Court a Londra e la Sacra Famiglia con s. Caterina del Kunst­historisches Museum di Vienna, di stretta ascendenza tizianesca. Nella produzione del M. si fece così strada progressivamente una ricerca di effetti luministici più morbidi, vibranti e di maggiore reattività atmosferica, accompagnata da una più intensa concentrazione compositiva. Tale direttrice di sviluppo risulta già nelle opere eseguite tra il 1552 e il 1553 per la galleria del coro della chiesa dei Carmini.

In origine il ciclo si componeva di undici dipinti su tavola, divisi tra il soffitto ligneo e i due parapetti rivolti verso l’altare maggiore. Di questi se ne conservano oggi solo tre, collocati sul prospetto delle due cantorie nuove che precedono il presbiterio, raffiguranti l’Annunciazione, l’Adorazione dei pastori (a destra) e l’Adorazione dei magi (a sinistra), tutte scene caratterizzate dall’illuminazione notturna. Delle altre tavole (descritte da Ridolfi, p. 251) si è perduta ogni traccia. Il ciclo pittorico fu affidato al M. in collaborazione con il modesto e poco noto Camillo da Urbino (di cui si conosce essenzialmente la successiva attività di pittore di ceramiche presso la corte ferrarese del duca Alfonso II d’Este), il quale il 7 genn. 1553 intraprese un’azione contro il suo socio nell’impresa, lamentando di essere stato da questo arbitrariamente estromesso dai lavori e pretendendo comunque la metà della cifra di 80 ducati stabilita nel contratto di allogazione (Finocchi Ghersi, pp. 54-59). Tale collaborazione, chiaramente poco gloriosa per il M., di là dai suoi effettivi sviluppi e dai suoi risvolti legali si direbbe confermare il racconto di Ridolfi circa le gravi difficoltà incontrate dal pittore ad affermarsi sul mercato veneziano e la penuria di commissioni pubbliche di rilievo che questi ebbe a patire almeno sino all’incarico per la Libreria Marciana. Poco più tardi dei dipinti della chiesa dei Carmini il M. eseguì gli affreschi a monocromo raffiguranti l’Orazione nell’orto, il Tradimento di Giuda, la Deposizione nel sepolcro e la Resurrezione nel soffitto della terza cappella sinistra della chiesa veneziana di S. Sebastiano, della quale Marcantonio Grimani aveva acquisito la titolarità nel 1544. In questa circostanza il M. ebbe a collaborare con Alessandro Vittoria, che fu responsabile delle cornici a stucco e degli importanti arredi scultorei (busto di M.A. Grimani e statue di S. Marco e S. Antonio Abate).

Esemplari dell’evoluzione creativa del M. a ridosso della metà degli anni Cinquanta sono alcuni capolavori come la Pietà della Gemäldegalerie di Dresda e le ante d’organo della chiesa di S. Pietro a Belluno, raffiguranti la Vergine Annunziata e l’Angelo annunziante (originariamente le portelle esterne) e i Ss. Pietro e Paolo (le portelle interne).

Le due tele che compongono l’Annunciazione, pur recando i segni dell’influsso di Tiziano, esibiscono soluzioni formali e coloristiche che anticipano di qualche anno le grandi interpretazioni tizianesche del medesimo soggetto per le chiese di S. Domenico a Napoli e di S. Salvatore a Venezia. L’Angelo annunziante ospita, inoltre, il più lirico brano di paesaggio di tutto il catalogo del M., impregnato di una calda e dorata luce crepuscolare e ricco di vibranti sfumature coloristiche volte a restituire pittoricamente la suggestione poetica del tramonto.

Il 10 febbr. 1557 il M. ricevette il saldo conclusivo della sua opera più importante e celebrata dai contemporanei: i tre tondi a lui affidati nell’ambito della decorazione del soffitto della sala della Libreria Marciana di Venezia, la cui realizzazione architettonica era stata da poco ultimata sotto la responsabilità di Iacopo Sansovino. Si tratta della principale testimonianza di una significativa posizione finalmente raggiunta dal M. all’interno del mercato artistico veneziano e della conseguente crescita della pubblica considerazione nei confronti della sua pittura che si registra a quest’altezza cronologica.

Tra il 1555 e il 1559 il soffitto della biblioteca venne arricchito di complesse pitture allegoriche volte a celebrare le virtù di Venezia, sotto la regia artistica di Iacopo Sansovino e del suo fraterno amico Tiziano Vecellio. La sala della biblioteca fu così ornata di una decorazione a grottesche su fondo oro, dovuta a Battista Franco, e soprattutto di ventuno tondi, ciascuno del diametro di circa cm 230, equamente suddivisi fra sette artisti che incarnavano le tendenze della pittura veneziana più moderne e aperte alle suggestioni della maniera tosco-romana ed emiliana. Oltre al M., gli altri pittori impegnati furono Giovanni De Mio, Giuseppe Porta detto il Salviati, Battista Franco, Giulio Licinio, Giovanni Battista Zelotti e Paolo Caliari detto il Veronese. Ognuno ricevette il medesimo compenso di 60 ducati, suddiviso in due trance consistenti in un acconto di 20, versato tra il settembre e l’ottobre del 1556, e il saldo di 40 pagato il 10 febbraio dell’anno successivo. Il M. fu incaricato di realizzare l’ultima terna di tondi a partire dall’ingresso della sala, raffiguranti Il trionfo delle armi, La dignità degli imperi e Il sacerdozio, temi che alludono esplicitamente alle carriere che attendevano i rampolli dell’aristocrazia veneziana. Pochi anni più tardi, probabilmente verso il 1560, il M. fu nuovamente coinvolto nella decorazione della Libreria Marciana, partecipando alla serie dei Filosofi che concludono lungo le pareti l’arredo pittorico della sala con due tele in cui libertà e scioltezza di concezione si combinano con un inusuale impeto monumentale.

Dopo tale prestigioso impegno, nella seconda parte del 1557 il M. fu nuovamente all’opera nella chiesa di S. Sebastiano, dove eseguì la pala d’altare della cappella Pellegrini, la prima della navata sinistra, raffigurante Cristo con due discepoli sulla via di Emmaus.

Il dipinto fu commissionato da Vincenzo Pellegrini, che aveva assunto il patronato della cappella il 27 giugno 1557 e dovette evidentemente scegliere il soggetto della tela per la sua connessione con il proprio cognome. Notevole si presenta la soluzione iconografica di rappresentare la figura di Cristo con gli attributi di s. Rocco, costantemente evocato nelle immagini pubbliche veneziane per la sua funzione apotropaica contro le pestilenze. Anche in quest’opera è dato constatare quel processo di sviluppo dei mezzi toni, raffinamento chiaroscurale e inscurimento della paletta cromatica che, sotto l’egida del maturo modello tizianesco, caratterizza tutta la fase ultima della produzione pittorica del Meldolla. Nella medesima cappella l’artista eseguì anche due piccoli ovali monocromi ad affresco con figure di Virtù.

Accanto ai più impegnativi cimenti pubblici si moltiplicarono in quegli anni i dipinti di tema mitologico concepiti per un raffinato collezionismo privato (una della specialità del M., del resto, che fu apprezzato e richiesto in primis in quanto pittore di cassoni, di spalliere e di immagini di spiccata funzionalità decorativa), come le due piccole tele con Storie dell’Eneide conservate al Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Bacco bambino con le ninfe di collezione privata parigina (ripr. in Richardson, fig. 201) e la Danae del Museo nazionale di Capodimonte a Napoli. Ma è soprattutto in alcune tele di soggetto sacro, tra loro affini per stile e composizione, che la produzione tarda del M. raggiunge i più alti vertici qualitativi ed espressivi.

L’Ecce Homo di collezione privata (ripr. in Da Tiziano a El Greco, p. 136) corrisponde forse all’esemplare ricordato da Ridolfi in casa «del Signor Christoforo Otobono» (p. 257). Il tema del Cristo di fronte a Pilato è il più ricorrente nel catalogo maturo del M.: ne esistono, infatti, quattro redazioni variate per impaginazione e misure, divise fra le Gallerie dell’Accademia di Venezia, il Museo nazionale di Stoccolma, le Royal Collections di Hampton Court e il Kunst­historisches Museum di Vienna, che si possono scalare a poca distanza l’una dall’altra tra la seconda metà del sesto e l’inizio del settimo decennio. A questa serie si può idealmente affiancare il Cristo davanti a Erode del Museo di Capodimonte, in cui le forme dei personaggi sono sottoposte a un processo di sfinimento della loro consistenza materiale e rese con piccoli e rapidi colpi di pennello. Il M. rinforzò qui vieppiù l’impianto chiaroscurale, insistendo su uno sfondo buio e su tonalità brunite appena ravvivate da accensioni luministiche preziose e sottilmente calibrate.

Tra gli ultimi incarichi destinati a luoghi pubblici veneziani spicca la commissione da parte della Scuola di S. Marco di una tela raffigurante il Miracolo di s. Marco, ricevuta dal M. il 21 giugno 1562 tramite il «guardian grande» della Scuola, Tommaso Rangone.

L’opera probabilmente non fu mai portata a compimento dal pittore, avendo la Scuola qualche tempo dopo commissionato una tela del medesimo soggetto a Domenico Robusti detto il Tintoretto; ma di essa potrebbe costituire un frammento una tela conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna raffigurante una Donna inginocchiata con un bambino.

Il 9 maggio 1563 il M. si trova citato come testimone, accanto a Tiziano, Tintoretto, Veronese e un certo Iacopo Pisbolico da Pistoia, in un atto legale relativo a una controversia insorta tra i procuratori di S. Marco e membri della famiglia Zuccato, celebri mosaicisti veneziani. Pochi giorni dopo, il 22 maggio, il M. dettò il proprio testamento lasciando tutti i suoi beni alla consorte Marina de Ricis: ciò che autorizza a pensare che la coppia non avesse avuto figli. Di lì a qualche mese, il 1° dic. 1563, il M. morì a Venezia.Tra i testimoni alla lettura del suo testamento vi fu il vecchio collega e amico Alessandro Vittoria (Richardson, pp. 11s.).

Fonti e Bibl.: P. Pino, Dialogo di pittura (1548), a cura di S. Falabella, Roma 2000, p. 113; P. Aretino, Lettere sull’arte (1543-1555), a cura di E. Camesasca, II, Milano 1957, p. 221; G. Vasari, Le vite … (1568), a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, pp. 596 s.; C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte (1648), a cura di D. von Hadeln, I, Berlin 1914, pp. 246-260; L. Frölich-Bume, A. M., gennant Schiavone, in Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, XXXI (1912), pp. 137-200; Id., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, Leipzig 1930, pp. 357-359; G. Fiocco, Nuovi aspetti dell’arte di A. Schiavone, in Arte veneta, IV (1950), pp. 33-42; F.L. Richardson, Andrea Schiavone, Oxford 1980; P. Rossi, In margine a una nuova monografia su A. Schiavone e qualche aggiunta al catalogo dell’artista, in Arte veneta, XXXIV (1980), pp. 78-95; Da Tiziano a El Greco … (catal., Venezia), Milano 1981, pp. 23-25, 130-137, 300-313; The Genius of Venice (catal.), a cura di J. Martineau - C. Hope, London 1983, pp. 206-208, 279 s., 343s.; C.B. Tiozzo, Un inedito «Gesù davanti a Pilato» dello Schiavone, in Notizie da Palazzo Albani, XII (1983), 1-2, pp. 158-160; P. Rossi, A. Schiavone e l’introduzione del Parmigianino a Venezia, in Cultura e società del Rinascimento tra riforme e manierismi, Venezia 1984, pp. 189-205; Le siècle de Titien. L’âge d’or de la peinture à Venise (catal.), Paris 1993, pp. 590-593, 639 s.; P. Rossi, La presenza di A. Schiavone nel Bellunese, in Pietro de Marascalchi. Restauri studi e proposte per il Cinquecento feltrino (catal., Feltre), Treviso 1994, pp. 175-185; L. Finocchi Ghersi, Una data per le tavole di A. Schiavone ai Carmini, in Arte veneta, XLIX (1996), pp. 54-59; E. Merkel, I Quattro Santi Coronati del giovane Jacopo Tintoretto con il socio A.M. lo Schiavone, in Pittura veneziana dal Quattrocento al Settecento. Studi di storia dell’arte in onore di Egidio Martini, a cura di G.M. Pilo, Venezia 1999, pp. 63-67; E.M. Dal Pozzolo, Addenda ad A. Schiavone, in Per l’arte: da Venezia all’Europa…, a cura di M. Piantoni, I, Monfalcone 2001, pp. 177-182; G. Tormen, Dipinti di A. Schiavone da palazzo Savorgnan, in Arte veneta, 2004, n. 61, pp. 71-81.

L. Bortolotti

TAG

Museo nazionale di capodimonte

Giovanni battista zelotti

Kunsthistorisches museum

Quattro santi coronati

Alessandro vittoria