Memorie dalla guerra civile

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Memorie dalla guerra civile

Giovanni Contini

Questo saggio si occupa di come è stato elaborato il ricordo da parte dei sopravvissuti alle stragi e da parte di repubblichini e partigiani. Da parte di chi, per scelta, per destino o per entrambi i fattori si è trovato al centro della guerra civile italiana. La memoria dei sopravvissuti alle stragi e dei contadini è molto legata al territorio, al paese, e varia in funzione di come mutò il fronte: non si ricordano nello stesso modo le stragi sopra e quelle sotto la Linea gotica. Partigiani e repubblichini hanno invece vissuto il periodo spostandosi in più luoghi, spesso distanti. Il loro ricordo è quindi legato più alle parole dell’ideologia e alle vicende belliche che a luoghi specifici. L’intento di queste pagine è quello di risalire dalla memoria all’esperienza; poiché la massa documentaria su questo argomento è cresciuta esponenzialmente nel corso degli ultimi anni, questo saggio non prende in esame tutti i documenti di memoria prodotti, ma si concentra su quelli più significativi. Quelli, cioè, che per la loro complessità e ricchezza sono maggiormente in grado di proteggerci dall’anacronismo, permettendoci di separare più agevolmente quanto si esperì allora e quanto la memoria personale e collettiva depositò su quel vissuto, in strati successivi, nel corso dei decenni.

Le stragi di civili in Italia

Quando analizziamo il ricordo dei sopravvissuti ai massacri notiamo che quasi sempre si tratta di contadini. Questo perché le stragi, terrorismo preventivo che aveva lo scopo di interrompere i rapporti tra popolazione civile e resistenti, colpirono le località frequentate dai partigiani, le più remote dai fondovalle e dalle città: i borghi contadini. I futuri partigiani, subito dopo l’8 settembre, erano giovani militari che l’invasione tedesca dell’Italia aveva sorpreso lontani da casa e che in un primo tempo fuggivano dai tedeschi e più tardi rifiutavano l’arruolamento nella RSI (Repubblica Sociale Italiana); oppure si trattava di giovanissimi senza nessuna esperienza militare i quali, nonostante i ‘bandi Graziani’ imponessero di presentarsi pena la fucilazione, rifiutavano di arruolarsi. Fu abbastanza naturale, per gli ex soldati in fuga, cercare un riparo lontano dalle strade di grande transito e di fondovalle, vicino ai paesi e alle cascine dei contadini. Per i giovanissimi dei paesi di collina o di montagna fu anche più naturale cercarsi un riparo vicino, ma non troppo, alla casa natia; nei boschi e tra i campi, in buche coperte o in capanne di fortuna, dove aspettare il passaggio del fronte. L’incontro tra questi due gruppi costituì la specifica alchimia delle future bande partigiane: c’era chi aveva esperienza di armi e di combattimento, ma era un forestiero. E chi di guerra non sapeva nulla, ma conosceva luoghi e persone.

I contadini, quindi, spesso parenti o conoscenti dei renitenti più giovani, costituirono il naturale riferimento di chi mancava di tutto, e soprattutto mancava di informazioni sui rastrellamenti e di cibo. I contadini si prestarono spesso a informare e nutrire quei giovani, vuoi per la parentela e la conoscenza, vuoi per un misto di atteggiamento superstizioso («se li nutro qualcuno nutrirà mio figlio, disperso chissà dove nel vasto scenario della guerra») e cristiano (dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi ecc.). Successivamente, quando gli sbandati iniziarono ad armarsi trasformandosi in combattenti, l’aiuto dipese anche da una più prosaica paura, di fronte a giovani spavaldi e armati. Giovani che appartenevano alla prima generazione integralmente fascista, nati nel regime ed educati a una scuola di bellicismo guerriero.

La Wehrmacht massacrò per spezzare il legame, esistente o possibile nel futuro, tra civili e partigiani combattenti. Spesso i sopravvissuti lessero le stragi come rappresaglie, cioè come risposta alle azioni partigiane; e i partigiani furono spesso accusati di essere i primi responsabili. In realtà, la ricerca più recente ha mostrato come le vere rappresaglie siano state poche e come le stragi siano avvenute quando era segnalata la semplice presenza di partigiani, quando la località assumeva valore strategico per la Wehrmacht in ritirata e, soprattutto, quando erano presenti sul campo unità speciali tedesche, particolarmente permeate dalla Weltanschauung nazista, come le SS (Schutz-Staffel) o la divisione Hermann Goering (cfr. Fulvetti, Baldissara, in La politica del massacro, 2006).

Certamente le stragi sottolineano una differenza strutturale tra i combattenti della Resistenza e i loro fiancheggiatori: mobili e capaci di sganciarsi i primi, immobili ed esposti alla violenza i secondi. Lo scopo, interrompere i rapporti di collaborazione tra popolazione a partigiani, sembra sia stato raggiunto così efficacemente che una forte colpevolizzazione dei partigiani è sopravvissuta per decenni, dopo la guerra. È questo infatti l’elemento più significativo che caratterizza la memoria delle stragi: la sottovalutazione del ruolo degli uccisori e lo spostarsi dell’accusa su figure interne/esterne, che spesso, ma non sempre, assumevano la fisionomia dei combattenti della Resistenza.

Naturalmente la fenomenologia di questa «memoria divisa» (Contini 1997) è abbastanza varia, talvolta il livore antipartigiano è aperto (da questo punto di vista la memoria di Civitella in Val di Chiana, in provincia di Arezzo, appare come una sorta di tipo ideale) ma in altri casi essa serpeggia sotterranea emergendo solo con lentezza e non sempre: a Sant’Anna di Stazzema (Lucca, Versilia), per es., una studiosa chiama «memoria interna» del paese il giudizio ostile ai partigiani conservato, per così dire, sottovoce (T. Rovatti, Sant’Anna di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944, 2004, p. 171). A Castelnuovo dei Sabbioni, in provincia di Arezzo, la memoria antipartigiana torna a essere molto visibile, sebbene meno consolidata che a Civitella, e la troviamo in quasi tutte le località colpite da strage. Ma i presunti colpevoli possono assumere altre sembianze: un parroco, un vescovo, alcuni monaci, un mediatore di bestiame e commerciante di campagna, il proprietario di una villa (Contini 2007, pp. 53-54).

I partigiani e gli altri personaggi accusati di aver causato gli eccidi hanno un carattere in comune: sono interni alla comunità (si conoscono il loro nome e la loro storia, spesso si sa dove vivono e cosa fanno) e nello stesso tempo sono anche esterni: partigiani e non contadini, vescovi, preti, commercianti, proprietari. Proprio la condizione di appartenenti, ma solo in parte, alla comunità colpita produce la memoria colpevolizzante. La posizione interna/esterna, si è detto, costituisce una potente ‘stigmate vittimaria’, un tratto che da sempre ha marcato i capri espiatori (cfr. P. Girard, Le bouc émissaire, 1982), per es. gli ebrei durante le pestilenze medievali.

I tedeschi invece appaiono non solo esterni ma totalmente estranei, così lontani che odiarli è difficile, in mancanza di elementi identificativi personali: non si conosce il loro nome, non si sa dove vivano, chi siano realmente e neppure cosa dicano, perché parlano una lingua incomprensibile. Appaiono così alieni da non essere considerati neppure umani: nei racconti non è raro che vengano presentati come animali feroci o calamità naturali. Agenti, quindi, non umani e per questo non capaci di colpa. Mentre colpevoli sono coloro che li provocano: «Qui se non molestavano i tedeschi lì, ’un l’avrebbero mai fatto, via». «[I partigiani] l’erin sempre a stuzzica’ […] formicolavano e […] una bella mattina fecero quella strage»; è un sopravvissuto alla strage di Castelnuovo dei Sabbioni - Meleto (Arezzo) a parlare (Manfroni, in La politica del massacro, 2006, p. 310). A Civitella il tono è simile:

Si sa che i tedeschi l’è una razzaccia [...] si sa che erano cattivi! […] Perché siete andati a dargli noia? Scusi, se c’è un leone, lì, l’è feroce, però ha mangiato, però andate a dagni (dargli) noia, icché fa? La mangia anche se ’un ha fame! (Contini 1997, p. 185).

Tuttavia ci sono anche altre caratteristiche che fanno scattare l’attribuzione di colpa e che distinguono i membri ‘normali’ delle comunità colpite dai capri espiatori che saranno accusati di aver provocato la strage. I secondi hanno un altro elemento in comune: prima della strage hanno cercato di comunicare con i tedeschi, più in generale hanno cercato di agire. Il vescovo di San Miniato al Tedesco (Pisa) poco prima della strage aveva parlamentato con i tedeschi, aveva benedetto chi era stato costretto a entrare nel duomo e aveva impartito l’assoluzione in articulo mortis. Infine era uscito dal duomo, sopravvivendo. Subito dopo un proiettile alleato era esploso nella chiesa. I sopravvissuti spiegarono la dinamica dei fatti trasformando il proiettile in una mina collocata appositamente dalla Wehrmacht e accusando il vescovo di essere complice degli assassini, dal momento che prima aveva parlato con i tedeschi, poi se n’era andato per salvarsi (cfr. Contini 2005).

I frati della Certosa di Farneta (Lucca) furono uccisi ma vennero ugualmente accusati di aver provocato la strage. Anche loro, prima, avevano agito: ospitando ebrei in fuga (ma anche ex fascisti ricercati dai militi dalla RSI); collaborando in qualche modo con i partigiani; parlamentando con i tedeschi poco prima delle uccisioni. Avevano agito, prima della strage, i partigiani. Arrivando a combattere i tedeschi e, spesso, scampando la strage perché, come si è già detto, erano mobili. Gli abitanti del villaggio, nella maggioranza contadini, non potevano spostarsi, non avevano fatto nulla, non avevano agito in nessun modo. Erano rimasti passivi e avevano patito la strage, loro del tutto ‘innocenti’.

Sembra che la guerra e le stragi abbiano ribadito il carattere arcaico e ‘femminile’ dei contadini; la classe degli ultimi, di chi produce, subisce pazientemente ma non è autorizzata a reagire: se lo farà potrà incorrere nella violenza dei detentori del potere e delle armi. I quali, collocati al di sopra dei contadini, agiscono in modo per loro incomprensibile. I contadini sanno solo che non devono fare niente, non devono provocare in alcun modo i signori armati ai quali è riconosciuto un potere di vita e di morte insindacabile e che non possono essere giudicati colpevoli dato che a loro la forza sembra concessa per natura. Ma sono colpevoli quelli che sono quasi dei nostri e tuttavia hanno voluto agire: hanno parlato con i potenti, hanno disobbedito, sono arrivati a prendere le armi contro di loro.

Le differenze maggiori nella memoria separano le località liberate nell’estate del 1944 dai paesi che subirono la guerra fino alla fine di aprile dell’anno successivo. Cioè i paesi al di sotto e al di sopra della Linea gotica. Dove la strage avvenne a distanza di pochi giorni dalla liberazione la colpevolizzazione dei partigiani emerge più decisa. Popolazione e partigiani vengono raccontati come due realtà completamente divise, prima durante e dopo la strage. Là dove invece, dopo il massacro, si sperimentò un ulteriore anno di occupazione tedesca, la memoria attribuisce la responsabilità solo ad alcuni gruppi di partigiani, e le interviste rivelano che molti sopravvissuti in quei mesi successivi si unirono alla Resistenza. Quindi la cesura non è netta come nel primo gruppo di paesi: qui, partigiani e civili non vengono contrapposti, avendo entrambi subito la violenza nazista, e la spaccatura passa, semmai, all’interno della Resistenza stessa.

S’individuano come colpevoli i partigiani comunisti di Carrara che avevano ucciso 30 tedeschi a Bardine San Terenzo, in Lunigiana, per poi spostarsi sull’altro versante delle Alpi Apuane proprio mentre il paese veniva investito dalla rappresaglia. Un testimone, che si era unito ai partigiani del gruppo Vendicatori di San Terenzo, racconta di essersi scontrato duramente con il capo della squadra che aveva ucciso i tedeschi, e arriva a raccontare, probabilmente inventando, di aver puntato il mitra contro il suo antagonista. Oppure si individuano, come a Zeri in Lunigiana dopo la strage, due figure opposte di capi partigiani: il martire e il reprobo (Contini, in La politica del massacro, 2006, pp. 327 e segg.). Il primo, Dante Castellucci «Facio» viene raccontato come preoccupato di non esporre la popolazione civile alle ritorsioni, stratega militare naturale e grande combattente, comunista idealista. Così idealista da lasciarsi attrarre in un agguato organizzato per meri motivi di potere da un’altra formazione comunista, che sulla base di accuse risibili l’aveva arrestato, condannato a morte e fucilato. Nei giorni successivi, il territorio intorno a Zeri aveva subito un rastrellamento: 50 civili e 150 partigiani erano stati uccisi. Nella memoria dei sopravvissuti l’assenza di Facio e delle sue doti di combattente, così come la codardia del capo partigiano Tullio, che della morte di Facio era stato responsabile, avevano fatto sì che il massacro potesse accadere. Alcuni ricordano Tullio come incapace, altri come incapace e immorale (durante le ore della strage sarebbe stato lontano e al sicuro in una casa di tolleranza), altri ancora come vero traditore: si sarebbe accordato coi tedeschi e avrebbe lasciato la sua posizione a difesa del pianoro di Zeri, rifugiandosi coi suoi più fedeli nel bordello.

Sopra la Linea gotica le stragi di partigiani nel corso del terribile inverno 1944-45 e la contemporanea diminuzione delle atrocità indiscriminate contro la popolazione da parte dei tedeschi allentano e stemperano la polarizzazione della memoria. Partigiani e civili paiono entità meno estranee e contrapposte tra loro, anche se il loro rapporto rimane un elemento centrale del ricordo. Altre storie relative non a stragi subite ma a stragi che si sono evitate sembrano confermare questa centralità, come nel caso di Sassalbo (Massa Carrara), dove partigiani originari del paese raccontano che dovettero uccidere un capo ‘forestiero’, Diavolo nero, che rischiava di mettere a repentaglio la vita dei civili con il suo comportamento scriteriato.

Infine, la nascita di una memoria nettamente antipartigiana dipende, forse, anche dal tempo che passa tra il massacro e la liberazione del paese colpito. Sia a Civitella sia a Pedescala (Vicenza), dove un anno dopo si consumò la maggiore strage veneta (cfr. E. Carano Oltre la soglia. Uccisioni di civili nel Veneto 1943-1945, 2007), troviamo un’elaborazione di memoria quasi identica, e una fortissima stigmatizzazione dei patrioti; entrambi i paesi furono liberati pochi giorni dopo il massacro: i superstiti piangevano i loro morti in un contesto pieno di gioia per la fine della guerra. Un capro espiatorio era dunque tanto più necessario.

Concludendo, si può dire che la memoria orale delle stragi ci fornisce importanti informazioni non solo sulla dinamica dei fatti, ma anche sulle caratteristiche di coloro che i fatti ebbero a subirli – i contadini, le contadine – e che dopo li raccontarono. La maggior parte dei ricordi registrati viene da parte femminile: gli uomini furono uccisi mentre le donne (anche se non sempre) rimasero. Inoltre i maschi, anche quando riuscirono a salvarsi, sembrano meno orientati a raccontare. Molti sono quelli che si chiusero nel silenzio, e in quel silenzio morirono. Sono le donne che raccontano. E raccontano un evento dal quale sono lontane, perché collocate sul versante opposto rispetto agli uccisori, quello di chi produce e riproduce la vita.

Studiando la strage di Civitella, si rimane colpiti dal fatto che per anni quel racconto collettivo si presentò come ossessionante e inarrestabile, continuamente stimolato dalla vista di luoghi o persone collegate alla strage. Dal momento che il massacro si era svolto all’interno di un perimetro ridotto, il villaggio e la campagna circostante, le probabilità di imbattersi giornalmente in luoghi e persone collegate alla strage erano altissime. Questa narrazione che rimbalzava continuamente tra le donne superstiti, autrici e al tempo stesso ascoltatrici del racconto – narrazione che si costruiva progressivamente come prodotto collettivo, somma dei tanti racconti sorti da un’esperienza intollerabile – fa pensare a un testo nel significato etimologico della parola, una sorta di tessitura collettiva.

Segno dell’insopportabilità dell’accaduto, che semplicemente rifiutava le forme consuete dell’elaborazione del lutto, e insieme affabulazione fondata su una fiducia prometeica nel linguaggio, quasi che una narrazione totale, che riuscisse a coprire l’esperienza del massacro in scala uno a uno, potesse divenire un testo/tessitura magica. E sovrapponendosi all’orrore passato in ogni suo minimo dettaglio avesse la capacità di annientarlo.

La memoria contadina dei partigiani

Stragi, memoria delle stragi e giudizi sui partigiani sono da prendere in considerazione non perché ci raccontano la vera storia dei contadini di fronte ai partigiani, ma perché ci presentano le due condizioni, quella dei combattenti e quella dei contadini, nella loro differenza più profonda, e perché illuminano quei caratteri del mondo rurale (più netti nelle aree caratterizzate dalla piccola proprietà che in quelle mezzadrili) che Mario Giovana descrive concisamente utilizzando i sostantivi «sopravvivenza; separatezza; emarginazione; autodifesa» (Giovana 1988, p. 18) quando parla del mondo dei contadini nelle Langhe piemontesi. Se passiamo a considerare il rapporto tra contadini e partigiani nelle situazioni meno drammatiche, là dove i massacri sono assenti e si sono conosciuti ‘solo’ i rastrellamenti, la cattura di chi era sospettato di aiutare i partigiani e anche l’incendio di abitazioni, stalle e pagliai, troviamo una documentazione assai lacunosa, con poche ricerche dirette di storia orale e alcuni interessanti documenti coevi, soprattutto relativi all’esperienza delle cosiddette repubbliche partigiane.

Nuto Revelli raccoglie in Il mondo dei vinti (1977) una straordinaria messe di informazioni intervistando centinaia di contadini piemontesi nati negli ultimi decenni dell’Ottocento. Ne esce un quadro ricco e complicato: diversi sono i contadini della montagna povera da quelli della collina, e da quelli della pianura. Ma è comune, nella maggioranza dei testimoni, un orizzonte dominato dalla miseria e dalla penuria, che porta alla difesa feroce del pochissimo che possiedono. In questo contesto si può provare simpatia e solidarietà per i partigiani, ma tutto cambia quando i giovani combattenti requisiscono animali di alta e di bassa corte, e ancor più quando scattano i rastrellamenti.

Seguono alcune testimonianze:

In quei tempi là bastava che ci fosse un partigiano da poco, e quello screditava tutti gli altri. Quando passavano i partigiani della valle, i giovani del posto, conosciuti, la gente non aveva paura, la gente era tranquilla. Ma e gli altri? Con il cuore la gente era con i partigiani, ma il giudizio era severo (1° vol., p. 89).

Tra i contadini c’era quello che li portava i partigiani e c’era quello che invece gli dava contro. Noi vedevamo quei giovani malandati, che dormivano dove trovavano, e li aiutavamo. A noi non hanno mai fatto del danno i partigiani (2° vol., p. 106).

Qui c’erano anche i partigiani, anche quelli lì, no, no, oltre che fare del bene facevano anche del male, facevano bruciare le nostre case […] Coi partigiani non potevamo discutere perché i’ eru ‘ncuntrari a nui, bele fait, che nui l’avìu stabili, ferm, e lur cercavu ‘d bataié, tirava la tempesta da nui (perché erano su posizioni contrarie alle nostre, ecco fatto, noi eravamo ancorati, fermi (ancorati alle case), e loro cercavano di battagliare, attiravano la tempesta su di noi (p. 47).

In un primo tempo i partigiani erano i liberatori. Poi, come sono cominciati i primi rastrellamenti, la gente aveva paura perché i partigiani attiravano i tedeschi (p. 115).

Venivano i partigiani, eravamo con loro: venivano i tedeschi e i fascisti, eravamo con loro. È arrivato un tedesco, mi ha detto: “Mamma scritto domani grande festa: coniglio, coniglio”. “Sì, sì, venga avanti”, e gli ho indicato un mio coniglio da rubare! Alla sera sono venuti i partigiani e hanno voluto una gallina. A Roddi i partigiani hanno ucciso un tedesco, facevano di quelle cose lì, sparavano dall’alto della collina e poi scappavano, lasciavano gli altri nella bagna, i tedeschi hanno ammazzato i padroni della cascina e il parroco e il curato, e hanno bruciato la cascina […]. Per chi teneva la gente? In alto, sulle colline dell’alta Langa, teneva per i partigiani. Qui la gente teneva alla pelle e basta (pp. 127-28).

I contadini erano ignoranti, i partigiani non erano poi ben visti dai contadini. Io sono convinto che i partigiani hanno fatto un’opera buona, santa. Certo avevano anche bisogno dei vitelli, certo dovevano anche mangiare. E non tutti i partigiani erano buoni, non tutti erano convinti, alcuni facevano il partigiano per forza. I nostri contadini erano agnostici, io do poca stima al contadino, sono un contadino ma la penso così. Non tenevano né per gli uni né per gli altri. Io invece tenevo per i partigiani. […] C’era chi diceva che i partigiani stuzzicando i fascisti e i tedeschi hanno provocato il bombardamento di Dogliani. Ma era proprio il compito dei partigiani cula lì ‘d tribuleie (quello di tormentarli), se no non era guerra. Tutti si lamentano delle galline rubate dai partigiani, ma non parlano dell’Italia venduta prima ai tedeschi e poi agli americani (p. 160).

Revelli, che prima di essere uno straordinario raccoglitore di storie era stato un comandante partigiano, riassume così il punto di vista contadino sui partigiani:

Se i partigiani non fossero esistiti sarebbe andata meglio. I partigiani erano come gli zingari, in continuo movimento. Noi invece non scappavamo mai. Era anche colpa dei partigiani se i tedeschi e i fascisti bruciavano i nostri paesi, le nostre case (Revelli 1977, 1° vol., p. CXXIII).

E commenta: «Combattendo sbagliavamo, scappando sbagliavamo, sbagliavamo sempre» (p. XX). Ma poi dalla descrizione di quell’atteggiamento passa alla spiegazione di come tale atteggiamento sia potuto nascere, prima con una spiegazione di tipo particolare: «strappare un vitello a un contadino povero era come strappargli un figlio» (p. CXXIV); poi individuando un meccanismo causale di tipo generale:

La Resistenza è passata sopra il nostro mondo contadino come un grosso temporale: l’acqua impetuosa, scivolando su un terreno antico, compatto, impermeabile, si è perduta subito nel grande mare della speranza! (p. CXXVI).

Per l’area appenninica di Firenzuola (Firenze) disponiamo della tesi di laurea di Elena Ghetti e Laura Camprincoli, discussa a Firenze nel 1991 che tratta del rapporto tra partigiani e contadini, in questo caso piccoli proprietari ma anche mezzadri; i commenti sul mondo partigiano ricordano molto quelli raccolti da Revelli. I combattenti vengono accusati di uccidere i fascisti locali, mentre sarebbe bastato «magari farli [...] un pò di paura» (La società rurale di Firenzuola nel tempo della Seconda guerra mondiale: I risultati di una ricerca di storia orale, Archivio della Soprintendenza archivistica per la Toscana, Firenze). Un sacerdote abbastanza favorevole alla Resistenza ricorda come la gente

non gradiva anzi, era veramente inquieta, che ogni aggressione che facevano alla strada ne subivano il rastrellamento, perché non se la rifacevano certamente con i partigiani perché scappavano, ma con la gente del posto. [...] Erano terrorizzati anche perché facevano paura. La gente di montagna è timorosa, non è esperta [...]. Avevano paura sia dei partigiani che dei Tedeschi. Ma più che altro [erano] i rastrellamenti dei Tedeschi provocati da queste aggressioni dei partigiani che li facevano andare in bestia!

Un altro testimone, favorevole alla Resistenza, ricorda:

I partigiani che abbiamo conosciuto noi erano bravi, ma hanno fatto anche degli sbagli... come tutti! […] alle volte cinque, sette, otto venivano nella nostra strada qui o su quella di Marradi, di notte: passava una camionetta tedesca, sparavano una fucilata o due... I Tedeschi, i primi civili che gli capitavano, li ammazzavano: se tu vuoi affrontare uno, affrontalo... non tirare e poi scappare su que’ monti e fare ammazzare una massa di disperati!

Infine c’è chi mette l’accento sull’ambiguità dell’atteggiamento contadino: «Ecco, anch’io ho sempre sentito dir bene dei partigiani finché c’erano; penso perché tutti ne avevano una paura tremenda... Poi quando sono andati via, sempre male!».

Se abbandoniamo le fonti di memoria, cioè il ricordo a distanza di decenni di quegli eventi, e ci soffermiamo sulle fonti coeve il panorama non appare diverso. Il commissario delle formazioni Giustizia e libertà (GL) piemontesi, Giorgio Agosti «Filippo», descrive la situazione delle campagne piemontesi dopo la fine delle cosiddette repubbliche partigiane come molto deprimente. La vita troppo lunga delle repubbliche aveva deteriorato la solidarietà tra civili e partigiani, perché i prelievi alimentari erano stati eccessivi e le risorse erano state sfruttate a dismisura. Come conseguenza

la popolazione delle campagne si chiude in una sospettosa difesa, odia il fascista ma non esita a denunciare il partigiano e in generale, come al tempo delle guerre di ventura, si preoccupa soltanto di tenere lontano e l’uno e l’altro. È uno stato d’animo pericoloso che pone le premesse per la creazione di squadre bianche. Le campagne, che in un primo tempo il moto partigiano aveva tratto dal loro torpore, oggi sono allarmate, domani potranno diventare decisamente ostili. Il contadino che qualche mese fa si arruolava nella banda partigiana, oggi preferisce restare a custodire il suo campo armato di fucile da caccia e costituisce con altri compagni piccole squadre di difesa (Legnani 1968, pp. 53-54).

In provincia di Imperia, scrive Luigi Farini «Simon», le cose vanno in modo simile:

le popolazioni diventano per vigliaccheria ostili ai partigiani e vergognosamente servili verso i tedeschi e i fascisti ai quali si affrettano a portare fieno, bestiame e viveri ad ogni richiesta; in questo clima fiorisce lo spionaggio ai nostri danni (p. 54).

La stessa crisi nei rapporti tra contadini e partigiani sembra caratterizzare l’intera regione ligure:

in alcuni strati della popolazione rurale si è manifestato un senso di diffidenza verso i Partigiani e talvolta l’esplicito desiderio di vederli allontanarsi dal paese, negando loro alloggio, generi alimentari, foraggi, combustibili che, per contro, vengono offerti con servile generosità alle truppe tedesche e fasciste. Né sono mancati episodi vergognosi di spionaggio e di delazione (p. 54).

E in Veneto

persone irresponsabili nei paesi contermini al Cansiglio […] approfittando della situazione venutasi a determinare nella zona di operazioni di questo gruppo di brigate, in seguito all’attacco di numerose forze nemiche, hanno esportato [sic] dai depositi e dai nascondigli viveri ed oggetti di proprietà delle Brigate, zaini ed indumenti dei garibaldini, arrivando fino al punto di lasciare sui sentieri, in vista del nemico, le armi disseppellite nella ricerca di altri oggetti (p. 55).

Quando la brigata Fratelli Bandiera torna nella zona dopo il rastrellamento del Cansiglio, viene accolta «con poco spirito patriottico e in alcuni casi facendo azione disgregatrice contro le formazioni stesse» (p. 55). Anche nella zona dell’alto e medio Piave si assiste allo stesso comportamento di una popolazione «sfiduciata in parte dal prolungarsi della guerra e terrorizzata dalle reazioni tedesche, preoccupata di perdere quel poco che è tutta la loro vita» (p. 55). E per finire, leggiamo nella Relazione sulla Giunta di governo della zona libera della Carnia nel periodo settembre-ottobre 1944, anche in Carnia, altra area dove era stata costituito un importante territorio libero, un esponente comunista afferma che dopo la fine della repubblica partigiana operai e contadini «ci hanno dato delusioni» (p. 55). Dopo la ritirata partigiana

vennero irrimediabilmente compromesse di fronte alle autorità tedesche un numero considerevole di persone che risiedevano in luogo e ivi avevano famiglia, beni, lavoro. La rapida ritirata partigiana espose queste persone e queste famiglie a delle feroci rappresaglie che, come è naturale, provocarono nella popolazione tutta un senso di sfiducia e quasi di rancore verso il CLN centrale e verso i suoi atti. Tutta la sua opera è stata così giudicata da troppe categorie di cittadini quasi inutile e dannosa come se come unico risultato avesse avuto quello di compromettere per sempre la tranquilla vita della regione (p. 84).

Il relatore, che considera «pericoloso farsi delle illusioni sulla sensibilità politica della popolazione, ancora per troppa parte immatura» finisce scrivendo che a suo parere il «malcontento verificatosi a rastrellamento avvenuto» forse era «già esistente in germe al tempo in cui la zona era libera. C’era generalmente diffusa la paura di compromettersi e molti, che avrebbero utilmente potuto portare il proprio contributo se ne stavano in disparte» (p. 84).

La memoria partigiana

Se le tracce di come i contadini videro i partigiani sono in gran parte perdute, l’esperienza dei combattenti è altrettanto difficile da raggiungere. Anche in questo caso è necessaria una ricerca indiretta e bisogna interrogare le fonti meno ovvie. Dato il ruolo fondamentale della Resistenza nella costruzione delle identità politiche e della memoria collettiva del dopoguerra, sia per chi a essa si ispirava che per chi la considerava il nemico, la sua narrazione per molti decenni si trovò sotto l’influenza della politica. Anche perché vincoli culturali molto netti facevano della contemporaneità (e a maggior ragione della Resistenza) un tema impraticabile per gli studi storiografici accademici, almeno fino a metà degli anni Sessanta. Basti pensare alle difficoltà che incontrò Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia per essere pubblicata da Einaudi (cfr. M. Reberschak, Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, in Biblioteca antifascista. Letture e riletture della Resistenza, a cura di D. Ceschin, 2006, pp. 70-81).

C’erano aspetti della guerra di Liberazione che non potevano essere trattati. Non si potevano studiare i conflitti tra formazioni politicamente contrapposte né i gravi momenti di crisi: Santo Peli ha parlato della «pianurizzazione», da Battaglia definita «fatto grandioso» e «miracolo» (Battaglia 1953, p. 537), solo come una «realistica scelta di occultamento e sopravvivenza» piuttosto che «incentivazione della guerriglia» (Peli 2004, p. 122). E ci ha mostrato il percorso della Resistenza come tutt’altro che lineare, con molte fasi critiche che avrebbero potuto pregiudicarne addirittura la nascita, e poi, come nell’inverno 1944-45, avrebbero potuto segnarne la fine a pochi mesi dalla vittoria alleata. Un processo ben diverso da quella crescita progressiva e ineluttabile, nonostante i momenti neri, di cui ci avevano parlato le narrazioni dei primi decenni del dopoguerra. Soprattutto non si poteva scrivere che quella partigiana era stata una scelta di pochi, e si affermava invece che era stata l’epopea di Un popolo alla macchia (Longo 1947). Non a caso un giovane storico ha intitolato il suo libro sulla Resistenza in Lunigiana Uomini alla macchia: non un popolo ma singoli uomini (Fiorillo 2010).

Infine non era possibile raccontare come spesso i partigiani requisissero cibo in modo spiccio e brutale, e come, nei primi tempi, della loro formazione fascista avessero conservato atteggiamenti da maschi guerrieri che li rendevano abbastanza insensibili di fronte ai problemi della popolazione civile e che si attenuarono progressivamente solo con la maturazione politica e civile. Così si finì per proporre un’immagine compatta e unitaria della Resistenza, ma si trattava appunto di una rappresentazione destoricizzata e poco convincente. I motivi che portarono alla formazione di questo canone sono comprensibili; era difficile, negli anni dei governi centristi, la vita degli ex resistenti, sottoposti a processo mentre noti autori di atrocità di parte neofascista tornavano in libertà. Tuttavia non c’è dubbio che il canone unitario e normalizzato rende quei primi lavori poco utilizzabili per chi voglia ricostruire l’esperienza del partigianato; solo in tempi assai recenti la storiografia ha aggiornato il quadro e ci ha restituito un’immagine più realistica della vita e della storia delle bande partigiane, inserendo formule dubitative al posto delle descrizioni trionfalistiche dei successi militari e introducendo molti argomenti un tempo giudicati imbarazzanti e tralasciati per questo.

La centralità della Resistenza nella storia politica ha fatto in modo che la sua rappresentazione si modellasse sulle successive fasi della storia repubblicana, e questo è evidente anche nelle trasformazioni della memoria pubblica (cfr. C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile, in Le memorie della Repubblica, a cura di L. Paggi, 1999; Riti e simboli del 25 aprile: immagini della festa della Liberazione a Siena, a cura di F. Dei, 2004; Contini 2010).

Si passa infatti dalle celebrazioni disgiunte negli anni della guerra fredda (con i militari, i partiti governativi e la Chiesa che organizzano manifestazioni separate da quelle delle sinistre) a una celebrazione molto istituzionale e unitaria negli anni del centrosinistra, fino agli anniversari di nuovo separati negli anni in cui la sinistra extraparlamentare proponeva una ‘Resistenza tradita’ dai partiti dell’arco costituzionale, e attribuiva ai partigiani intenzioni rivoluzionarie che il PCI (Partito Comunista Italiano) avrebbe cinicamente strumentalizzato per poi tradirle.

In realtà, proprio per il peso che la politica esercitava sulla memoria pubblica e sulla storiografia della Resistenza, quelli che riuscirono a utilizzare più efficacemente la memoria per resuscitare l’esperienza furono gli scrittori ex partigiani. Nel momento del ritorno alla normalità, l’intensità dell’esperienza in cui erano stati coinvolti li pose davanti a una sfida di tipo professionale (mettersi alla prova tentando di scrivere su un tema così complesso), conoscitivo (riuscire a capire cosa si era fatto e perché lo si era fatto) e morale (come giudicare quanto accaduto, come parlarne in modo appropriato). Così si imbarcarono in un’impresa che sapesse rompere gli idoli della retorica della vulgata per recuperare l’esperienza in modo più convincente, parlando degli aspetti entusiasmanti ma anche di quelli terribili.

Per questo i libri dei letterati maggiori, soprattutto Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello sembrano, piuttosto che opere di fiction sulla vicenda resistenziale, opere di memoria che utilizzano la forma della fiction in modo singolarmente efficace per raggiungere un nocciolo di esperienza reale, altrimenti difficilmente accessibile. Quello che hanno vissuto è un tale groviglio di elementi contraddittori che dipanarlo richiede uno strumento sofisticato, una capacità narrativa che sappia restituire un affresco d’insieme credibile. Un’esperienza straordinaria, insomma, pare aver bisogno di testimoni/narratori dalle capacità espressive altrettanto straordinarie. Il fatto che utilizzino la modalità della fiction non è rilevante. Gli scrittori, anzi, si pongono il problema della verità della memoria e sono molto consapevoli di quanto sia difficile recuperare i ricordi dei giorni da partigiani; come osserva Meneghello:

Quei giorni sono avvolti in un’aria di confusione; da allora ne parliamo, ne parliamo, quelli che siamo ancora qua, ma una versione ufficiale non esiste, il nostro canone è perduto, la cronologia è a caleidoscopio. Ciascuno ha le sue ancore, i cavi s’intrecciano a sghimbescio (2005, p. 88).

Di sicuro l’effetto verità nella prosa dei grandi letterati è netto: durante il rastrellamento nazifascista Meneghello potrebbe facilmente terminare la sua fuga mozzafiato nelle Langhe dove Fenoglio sta disperatamente fuggendo in una situazione analoga. Entrambi raccontano con precisione la percezione di una superiorità schiacciante dei fascisti durante i rastrellamenti: «stavolta mettono le sbarre a tutte le colline come a uno zoo e ci faranno fare la parte delle scimmie», scrive Fenoglio (1970, p. 251). Il partigiano Johnny e i suoi compagni di fuga non fanno che correre ancora e ancora in bocca ai nemici, la salvezza è quasi sempre frutto del caso, perché sono avvertiti all’ultimo momento, oppure perché i fascisti non li vedono o hanno deciso di cambiare direzione, o perché i fuggitivi improvvisamente cadono a rotta di collo in un rittàno (una valle fra due colline) proprio quando ogni speranza sembra perduta. E anche il tempo, durante il rastrellamento, sembra dilatarsi all’infinito; di questo rimane traccia anche nella struttura del romanzo: la fuga dura due giorni, ma le pagine che la descrivono sono più di trenta, due capitoli.

Anche in Meneghello il tempo si dilata all’estremo durante il rastrellamento. Ma il racconto più interessante è quello delle allucinazioni prodotte dalla solitudine e dallo shock («avevo addosso uno shock vivace», p. 140), raccontate con lo stesso stile ironico e antiretorico presente ne I piccoli maestri fin dalle prime pagine, quando il protagonista tornato sui luoghi della guerra partigiana, alla morosa che gli chiede se facevano «gli atti di valore» risponde: «Macchè […] facevamo le fughe» (pp. 11-12).

La stessa ironica capacità di fotografare il reale troviamo nelle pagine di Fenoglio sulla presa, e la perdita, di Alba. L’ironia è presente sin nell’incipit: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944» (Fenoglio 1990, p. 159). E non è casuale se «l’Unità» stroncò il libro quando uscì nel 1963: sui partigiani non si fa dell’ironia (Giovana 1988, p. 211). La grande letteratura, del resto, riesce precocemente a cogliere altri aspetti della Resistenza che la storiografia ha descritto molto più tardi. Così Meneghello descrive con pochi tratti quell’antifascismo di massa, ma superficiale, che caratterizzò i giorni immediatamente successivi all’8 settembre. Destinato però a non sopravvivere a lungo e a essere rapidamente rimpiazzato dalla paura, appena la guerra civile si manifestò in tutte le sue crudezze:

C’era un moto generale di rivolta, un no radicale, veramente spazientito. Ce l’avevano contro la guerra, e implicitamente, confusamente, contro il sistema che prima l’aveva voluta cominciare, e poi l’aveva grottescamente perduta per forfè (Meneghello 2005, p. 33).

Dappertutto (almeno da noi, nel Vicentino) si sentiva muoversi la stessa corrente di sentimento collettivo; era l’esperienza di un vero moto popolare, ed era inebriante; si avvertiva la strapotenza delle cose che partono dal basso, le cose spontanee; si provava il calore, la sicurezza di trovarsi immersi in questa onda della volontà popolare (pp. 33-34).

Lo scrittore riesce anche a raccontarci quanto breve fu questa predisposizione di massa, e come, presto, lui e i suoi amici fossero tornati a essere «ciò che eravamo abituati ad essere: quattro gatti» (p. 38). Interessante anche la spiegazione del fallimento:

Perché non c’è stato, nonostante la spinta iniziale, un grande moto popolare, veramente travolgente? Perché non abbiamo almeno tentato esplicitamente di crearlo? La verità è che non avevamo capito le possibilità della situazione (p. 40).

Quella ventata pur effimera di antifascismo di massa interessò l’Italia intera e spiega le quattro giornate di Napoli, precocissima rivolta spontanea. Come osserva Gabriella Gribaudi gli storici-politici che rappresentavano la Resistenza armata come opera di un popolo compattamente antifascista finirono per disprezzare quel precoce episodio di insorgenza, quello sì veramente di massa, perché la politica antifascista vi aveva avuto un ruolo irrisorio (Gribaudi 2005, pp. 292 e segg.). Ma i letterati riescono a trattare anche i temi più scabrosi, come il diverso atteggiamento nei confronti della popolazione civile e delle rappresaglie da parte di bande politicamente differenti. Meneghello ricorda i comunisti «meravigliosi. Laceri, sbracati, sbrigativi, mobili, franchi» (Meneghello 2005, p. 62). Tuttavia la grande iniziativa e la mobilità delle formazioni comuniste sembra accompagnarsi a una relativa indifferenza nei confronti della sorte dei civili:

Guardando le macerie che fumavano lì sotto, ragionavamo dell’etica della guerra civile dei ribelli. Passati questi comunisti, erano restate queste macerie. Coinvolgere la povera gente, diceva uno, è un po’ troppo facile (p. 63).

Più oltre la differenza tra loro, partigiani azionisti, e i comunisti è descritta con precisione:

I comunisti sparavano di più, e guastavano con mano più pesante; ma noi avevamo più vivo il senso delle conseguenze dei guasti e degli spari. In certi momenti ci pareva di sparare poco, e guastare male; eravamo inclini ad accusarci di inefficienza, ma adesso mi è chiaro che la nostra scrupolosità non era priva di pregio anche nel confronto coi comunisti. Loro avevano comandanti e commissari già sposati ad una dottrina generale sull’uomo, e la società, e la guerra in genere […]. Noi non avevamo niente: dovevamo giustificarci ogni più modesta esplosione, ogni più piccola morte (p. 178).

In Fenoglio la differenza tra badogliani e comunisti appare in modo più rude, come conflitto duro. Durante il rastrellamento Johnny e i suoi compagni vengono informati che i partigiani comunisti («i porci») stanno disarmando gli azionisti sbandati dicendo che «non sono altro che disertori» (Fenoglio 1970, p. 291). Quando vengono intercettati da una pattuglia di garibaldini e richiesti di seguirli al loro comando Johnny comincia a picchiarne uno fin quasi a ucciderlo: «l’avrebbe ammazzato con pochi pugni ancora» (p. 292).

Infine, sia Fenoglio sia Meneghello riescono a rendere bene gli aspetti più atroci che la guerra partigiana può assumere, per es. la vicenda di due tedeschi che vengono sgozzati e appesi con dei ganci nel luogo dove erano stati appena staccati due italiani impiccati. La storia è raccontata con leggerezza, ma resta tremenda: i tedeschi legati; un partigiano si

inginocchiava alle spalle di quello di Bamberga e gli posava una mano sulla fronte, come per sentire se aveva la febbre. Mi voltai verso il monte, velato da una mano di luna arancione, e distinsi il rumore del Brenta dai campi, e l’eco di una porta sbattuta dalla parte del paese. Sentivo le gambe unite del tedesco che provavano a pontare per terra. Vennero alcuni altri rumori smorzati, in piccole sequenze rivoltanti. [...] Tutto il resto fu fatto in fretta; sui due cartelli su cui era scritto Bandito scrissi in grande sul rovescio con un pezzo di matita copiativa: Tedesco […]. Vidi che il Cris impugnava un gancio di ferro (Meneghello 2005, p. 151).

C’è una banalizzazione della morte, data e ricevuta con indifferenza crescente. Così Meneghello:

Le mie scarpe le trovarono il giorno dopo, una qua una là, ma non mandarono le condoglianze alla famiglia; solo giudicarono che vivo o morto indubbiamente fossi restato scalzo, ed era vero; e per un pezzo di me non seppero niente altro, ma non credo che gli facesse molto dispiacere. Lo so che mi erano abbastanza affezionati, ma queste cose sul momento non facevano dispiacere, e naturalmente neanche piacere, non facevano nulla (p. 139).

Sempre in tema di banalizzazione della morte ecco il racconto della fucilazione di due fratelli partigiani accusati di furto:

Il Commissario aveva fatto qualche passo in avanti, sempre appoggiando le mani al suo piccolo mitragliatore. Ora faceva perno sul calcagno del piede sinistro, e con la punta della ciabatta di pezza accompagnava le parole. Diceva: “Riale Giovanni e Riale Saverio, colpevoli di furto, condannati a morte. L’esecuzione avrà luogo ora”. I due fratelli gridarono: “No, dio-ladro!”. Il Commissario gridò; “Si, dio-boia!”. Il resto del dibattimento si svolse concitatamente, ciascuna parte portando gli argomenti dell’altra. Riale Giovanni e Riale Saverio: “Dio-boia!”. Commissario: “Dio-ladro!”. Riale Giovanni e Riale Saverio: “Dio-ladro!”. Commissario: “Dio-boia!”. Ora il commissario sparava, sempre continuando a sostenere il suo punto di vista; i fratelli, rimbeccando, cominciarono a scendere e si accartocciarono (p. 189).

Infine è il rapporto con i contadini che nelle opere di fiction appare assai più realistico che nei libri degli storici, i quali non solo nei primi anni dopo la guerra ma fino alla fine degli anni Settanta, mostrano contadini idealizzati, sempre e comunque dalla parte dei partigiani. Dal fatto indubbio che la Resistenza sarebbe stata impossibile senza contadini si deduce che quindi i contadini fossero sempre e comunque d’accordo con i partigiani; proposizione, quest’ultima, tutta da dimostrare. Questo canone interpretativo si perfeziona, per la Toscana, nei lavori di Libertario Guerrini (L. Guerrini, Le campagne. La Toscana, in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, 1974) e pare condiviso da tutti i partecipanti al convegno che l’anno successivo venne organizzato a Foiano della Chiana (Mondo contadino e Resistenza, Atti del Convegno, 1975).

In realtà i contadini, anche quando aiutavano, mantenevano una distanza impaurita dalla Resistenza: sapevano cosa significasse essere considerati da repubblichini e tedeschi manutengoli dei partigiani. Fenoglio, che ha combattuto tra i piccoli proprietari nelle Langhe, li rappresenta in modo assai poco romantico. Gli avari contadini forniscono cibo ai partigiani, ma «con mani lente, rincresciose di quanto porgevano, ritirando il buono di requisizione e rimirandolo come oggetto chimerico» (Fenoglio 1970, p. 56). Un vecchio arriva a dire, prendendo in mano il buono che certifica il prelievo, «questo non vale niente, con questo nemmeno mi...» e lo strappa (p. 57). Quando finì l’estate gloriosa dei partigiani e iniziarono i rastrellamenti i contadini li ricevevano

solo con un cenno e un sospiro, indicavano il posto e la paglia – non prestavano più coperte – poi salivano al piano soprano per rincuorare le loro donne prese da attacchi di cuore. Ed uno di orecchio buono poteva cogliere tra le fessure del piancito i loro gemiti e frasi di fuoco e morte e poi il soffocato zittio degli uomini, ché i partigiani non sentissero e non s’offendessero (p. 295).

Li svegliavano di primissima mattina «senza più offerta di pane e nemmeno d’acqua calda per sgelare d’uno scroscio lo stomaco, li mettevano fuori e li lasciavano in quell’impossibile mondo di tenebra e gelo» (p. 295) Anche chi non era ostile ai partigiani li voleva lontani da casa. Nell’ora del pericolo le donne erano le più ostili. Johnny incontrò nell’inverno 1944-45 un contadino che non gli dava cibo e al quale «diffidenza e avarizia […] tramavano la voce» (p. 347). Mentre l’aiutava a spaccare la legna «poteva cogliere alla finestrella il duro, fisso sguardo di una giovane donna devastata dalla miseria, che teneva alto in braccio il vivo fardelletto di lana» (p. 347). In un’altra occasione, il giudizio della donna si manifestò di nuovo nello sguardo: «Aveva finalmente intuito la natura di Johnny e lo avvolse in uno sguardo di universale deprecazione» (p. 109). E ancora:

Le donne si erano un po’ quetate esteriormente, ma ora si serravano intorno ai partigiani per chieder loro se e quando sgomberavano, lasciando così il paese aperto, vuoto ed incastigabile ai fascisti dilaganti. Sembrava potessero e volessero dar tutto per la loro evacuazione, che essi si sarebbero ritirati con doni e benedizioni, purché andassero ad essere il fuoco e il capestro di un altro qualunque paese (p. 255).

Anche i giovani contadini sono rappresentati come assolutamente distanti dalla Resistenza, quasi per motivi naturali:

I loro due figli maschi, tutti in età di leva ed entrambi renitenti, erano del comune tipo di gioventù incatenata alla terra, con tutta la dolcezza e spigolosità del tipo: erano del tutto estranei ai partigiani, al loro mondo, ideali, istanze ed abitudini, ma partecipavano dei loro lavori e giochi con un amaro, indissimulabile senso di inferiorità, come se li vedessero tuffarsi, conoscendo l’ebbrezza del tuffo e la loro propria incapacità di tuffarsi. E, come Johnny notò, essi sempre esercitarono un vigilantissimo sarcasmo oculare su quegli uomini di Johnny che erano di netta estrazione contadina, come se fossero convinti che l’avventura partigiana era l’esclusivo affare di ragazzi della città (p. 198).

In Meneghello, che pure racconta episodi di solidarietà contadina, troviamo la stessa paura sospettosa degli abitanti della montagna vicentina di fronte ai formaggi donati dai partigiani:

Non dicevano di no ai nostri doni, ma non parevano disposti a mangiarli [....]. Noi pretendevamo che li inaugurassero subito, e in qualche casa glieli tagliammo noi stessi, un po’ teatralmente, con le baionette, porgendo cordialmente le fette. Con le baionette in pugno, spettinati e stravolti, non sembravamo gente da prendere sottogamba; gli adulti si mettevano a staccare bocconi, mentre i bambini approfittavano per ingozzarsi in fretta [...]. Quando poi una bella mattina le truppe del terzo Reich in assetto di rastrellamento si presentarono agli sbocchi delle valli e cominciarono ordinatamente a visitare le case, poi a bruciarle per ricordo (ma non cercavano i formaggi, cercavano noi), i montanari per prudenza scacciarono i formaggi (bastava una spintarella) [...] Mi è stato detto che si vedevano formaggi rotolare verso il fondovalle, saltando le masiere, a un certo punto sembrava che da ogni casa venissero giù formaggi (Meneghello 2005, p. 58).

Molti dei temi che gli scrittori hanno precocemente descritto li troviamo anche nelle interviste con i protagonisti. Però dobbiamo fare attenzione: non tutte le migliaia di interviste raccolte sul tema, prima in forma scritta, poi con la registrazione audio e infine con la video registrazione, sono ugualmente interessanti. Spesso chi intervista è interessato solo al fatto militare, negli anni che arrivano ai Sessanta; nel decennio successivo, magari perché si milita in un gruppo extraparlamentare, si cercano indizi sulla ‘resistenza tradita’. Insomma è raro trovare, fino a tempi recenti, un’attenzione per l’esperienza in sé e un tentativo di utilizzare la memoria come fonte capace di ricondurre a essa.

Incunabolo di molte occasioni perdute nel corso dei decenni successivi è la precoce ricerca di Silvio Micheli all’inizio degli anni Cinquanta, condotta con interviste (ma senza magnetofono): i partigiani vogliono raccontargli tutto, parlano delle liti interne alle formazioni, cercano testimoni diretti, andandoli a scovare nei più piccoli paesi, ma lui è interessato solo a ricostruire la storia delle battaglie, e la vuole ‘oggettiva’, «non eravamo lì per analizzare e criticare, ma solo per dire ciò che realmente era stato» (S. Micheli, Giorni di fuoco, 1955, p. 9). E poi:

mi ritrovai ben presto a raffrontare fra loro gli avvenimenti appuntati e a distinguerli in due sommarie categorie: quelli che si ripetevano per bocca di due o più raccontatori, e quelli invece che non trovavano riscontri. Consapevole della responsabilità che pesava sulle parole da mettere in fila, decisi addirittura di servirmi solamente dei denominatori comuni. Il lavoro di scarto mi faceva piangere il cuore, ma io pensavo ai lettori se vi avessero trovato cose non giuste (p. 45).

Ma abbiamo intervistatori eccezionali. Anche qui, come nel caso degli scrittori, l’analisi verrà ristretta ai due autori che mi paiono più significativi: Cesare Bermani e Manlio Calegari. Il lavoro di Bermani si presenta come una sterminata carrellata sulla miriade di eventi che hanno formato l’esperienza dei garibaldini in Valsesia, eventi talvolta ripercorsi cronologicamente, altre volte invece collocati in contenitori tematici: «donne partigiane e maschilismo», «l’assistenza sanitaria», «giustizia partigiana e guerra di popolo», «le armi», «barba, sudore, zaino e divisa» eccetera. La precocità delle interviste crea effetti interessanti: i partigiani che raccontano a metà degli anni Sessanta sono ancora giovani: se erano diciottenni al momento dei fatti adesso di anni ne hanno trentotto, quaranta. Ancora non hanno sperimentato tutte le metamorfosi della memoria pubblica, conoscono solo la loro esperienza e poi gli attacchi ai partigiani nel decennio successivo.

Il testo ha un carattere debordante ed eccessivo con decine di aneddoti e trascrizioni di lunghissimi brani di interviste. Ma proprio questo carattere (e il dialetto!) rendono la ricerca eccezionale, composta com’è di tantissime microstorie in sequenza: partigiani che vedono uccidere i compagni; che giustiziano i fascisti, arrestano i tedeschi, li scambiano con i compagni catturati. Partigiani che si ubriacano, rubano e sono puniti, anche con la morte. Che violentano le donne tenute in ostaggio, organizzano attentati rocamboleschi, sfuggono per buona sorte e astuzia ai rastrellamenti dell’inverno terribile 1944-45, attaccano i presidi della Valsesia nei mesi finali della guerra.

Notevole come manchino quasi del tutto le emozioni dei protagonisti, che appaiono più nei coevi documenti scritti delle formazioni che nelle interviste. Solo il sacerdote don Sisto racconta del suo turbamento nell’assistere i fascisti condannati a morte, lui che non è un semplice cappellano militare ma un partigiano ‘quasi’ combattente: «fu un’esperienza tremenda per me: mi presentavo in divisa partigiana a gente ormai condannata, chiedendo scusa» (Bermani 1995-2000, 2° vol., p. 266). Il sacerdote, don Sisto Bighiani, era commissario politico nella formazione garibaldina Osella guidata da Mario Vinzio «Pesgu». Don Sisto «portava anche in spalla una carabina americana a ripetizione, ma non sparò mai» (p. 263).

Un coinvolgimento emotivo sembra emergere, eccezionalmente, nel caso di un partigiano che perde il mitra, storia, tra le moltissime raccontate, presente non in un’intervista ma in una lettera scritta allora, nel corso della lotta:

Per me il dispiacere più grande era quello di aver perduto il mitra. Ti posso confessare che ho passato delle notti insonni, pensando sempre al mio mitra che per conquistarmelo avevo più volte rischiato la pelle; ti confesso sinceramente che avevo vergogna a presentarmi ai miei uomini […] credevo di aver perduto (la stima degli uomini) con la perdita dell’arma […]. Posso assicurarti Mosca (Moscatelli) che mai ho sofferto moralmente come in quei giorni che avevo perduto il mitra (Bermani 1995-2000, 3° vol., pp. 161-62).

Anche della morte si parla in maniera ironica e leggera. Questo è oggi poco comprensibile perché siamo interessati a cogliere il lato emotivo dell’esperienza, ma rappresenta un importante segnale di come ancora, a metà degli anni Sessanta, si conservasse l’avversione per i toni tragici che era stata tipica della Resistenza, nonostante la tragedia avesse segnato con forza tutta quell’esperienza. Insomma: si ripropone il modo considerato normale per parlare della morte. Che, infatti, appare naturale: è normale ammazzare un fascista ed è logico poter essere uccisi.

Gli uomini accusati di colpe gravi e fucilati salutavano gli amici, si fumavano l’ultima sigaretta e poi aspettavano la scarica con freddezza: i fratelli Peretti, per es., dopo la sentenza di morte «trovarono che la cosa fosse giusta» (Bermani 1995-2000, 1° vol., t. 2, p. 341).

[...] è stato sorteggiato il plotone di esecuzione, alcuni dei sorteggiati si sono rifiutati di sparare e sono stati sostituiti, e poi questi qua, i fucilati, hanno stretto la mano a tutti quelli che conoscevano per rapporti più confidenziali che con gli altri, hanno fumato una sigaretta o due, e poi in camicia sono stati… Una cosa così, proprio cinematografica vorrei dire. […] La cosa è avvenuta con questo aspetto di dimostrazione di coraggio e di freddezza da parte dei due. Mi ha impressionato proprio questo atteggiamento che non ha dimostrato nessuna debolezza (Bermani 1995-2000, 2° vol., p. 80).

Anche Tattico, accusato di violenza sessuale, venne condannato a morte: «si è difeso dicendo che lei era consenziente ma non gli hanno creduto e l’hanno condannato alla fucilazione. Si è rotto la camicia e ha detto: “Sparate porco dio!”» (p. 154). Notevole la somiglianza con l’episodio descritto da Meneghello, riportato sopra.

Infine, l’atteggiamento dei partigiani nei confronti delle donne era quasi sempre pesantemente condizionato dalle convenzioni sociali, dal parere e dal giudizio della gente: «Chissà cosa le fanno a quella ragazza sola in mezzo a tanti uomini…» (p. 147). «La Maria dei partigiani fa il mestiere» (p. 151). Un comportamento sciovinista era presente non solo nella popolazione ma anche presso i partigiani. Alcuni dirigenti stabilivano relazioni con belle donne che forse erano spie; nonostante il parere negativo dei comandi le portavano in case protette e le mettevano al corrente di segreti molto delicati (p. 159). Ma sulle presunte spie ci sono episodi molto più gravi: di «spie già condannate a essere passate per le armi che – poco prima di essere uccise – sono state violentate», oppure «se la ragazza è bella qualche volta (i partigiani) non rinunceranno a scoparsela, magari in più d’uno, proprio come i fascisti» (p. 173). Anche le partigiane, del resto, dovevano passare sotto le forche caudine del maschilismo. Un comandante, interrogando una giovane che chiedeva di essere presa in formazione le domanda a bruciapelo «ma tu sei qui per fare la partigiana o per fare la puttana?» (p. 175). Né dal sessismo si salva una partigiana combattente e valorosa:

noi cercavamo di toccarla in maniera volgare [...] qualche volta le facevamo delle battutacce e mi è sempre rimasto impresso una sera che abbiamo passato il limite e le abbiamo detto: “Adesso andiamo in formazione. Ti mettiamo in fila tutti i partigiani e…”. Non ci ha neanche lasciato finire, ha preso il mitragliatore, ce l’ha puntato e ci ha detto: “Non ripetetelo più, altrimenti… Perché semmai scelgo chi voglio io, capito?” (p. 151).

Il pregiudizio è così forte che spesso si propone l’allontanamento delle volontarie dalle formazioni solo perché donne, e una volta che Vincenzo Moscatelli (commissario politico del raggruppamento garibaldino Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano), in mancanza di candidati maschi, fece il nome di una donna come commissario politico, gli si obbiettò: «se i garibaldini non fossero uomini e se la stessa fosse molto racchia forse questa versione potrebbe andare». E poi si consigliò di assegnarla alla Brigata «quale ufficiale stampa e propaganda» (p. 174).

La presenza delle donne fa emergere un atteggiamento fortemente condizionato dalla cosiddetta cultura del bordello che dilaga sia tra i partigiani sia tra i fascisti. Questi ultimi si vantavano di essere riusciti a dare lo scolo a un partigiano. I fascisti han fatto i volantini e li distribuivano ai posti di blocco, mostrando che la loro penetrazione era tale, cioè che gli scoli fascisti erano temerari come loro, perché riuscivano a impestare i partigiani (p. 166).

Quando i garibaldini della Valsesia decisero di organizzare una specie di battaglione femminile con compiti di assistenza (cucire, preparare indumenti), Moscatelli sembrò infastidito e il suo linguaggio divenne significativamente allusivo:

Tutto il convoglio donne poi lo mandiamo da Marini che sembra ne abbia già 48 (non so se di numero o se fanno un 48) e che con esse sta volteggiando in quel di Rimella “tra rivi e campi in fior”… Tra una poesia e l’altra non disdegna però di farsi preparare l’acqua calda per lavarsi i piedi, perché dice che in tanta goduria la verve poetica trova maggior respiro… (p. 155).

Su quelle ragazze Andrea Cascella scrisse un articolo, Le vaccoche, avendo «coniato questo nuovo vocabolo, vacca e oca, per definire queste ragazze che infestavano veramente le formazioni» (p. 166).

La Resistenza di Bermani ha tutte le complicazioni e le sorprendenti differenze della realtà stessa. Così, per es., contro la vulgata che vorrebbe gli inglesi propensi ad aiutare solo le brigate non comuniste e gli americani più disposti a inviare lanci anche ai garibaldini, scopriamo che un membro della missione inglese (laburista) accusa il capo della missione americana di discriminare i comunisti. A suo parere non era «buona politica fornire solo i non comunisti. I comunisti stanno facendo un lavoro di grande valore contro i tedeschi e vanno aiutati» (Bermani 1995-2000, 3° vol., p. 87).

Anche i CLN (Comitati di Liberazione Nazionale), nell’esperienza della Valsesia, sembrano infinitamente meno importanti delle formazioni combattenti: mentre altrove fanno valere la loro funzione politica entrando in conflitto con i partigiani che non osservano le loro direttive, qui appaiono poco più che comitati di supporto locali: devono procacciare cibo, informazioni, assistenza. Tutte le scelte, quelle militari ma anche quelle politiche, sono per intero appannaggio delle formazioni e in realtà dei loro mitici capi, «Cino» (Cino Moscatelli) e «Ciro» (Eraldo Gastone) (pp. 247 e segg.).

Per l’attività militare le fonti orali mostrano tutta la loro ricchezza sia per gli episodi minori sia per quelli più rilevanti, come l’attacco ai presidi fascisti negli ultimi giorni di guerra. Queste ultime furono azioni pianificate al dettaglio, ma poi fallirono quasi tutte: in un caso non ci si rese conto che nel perimetro ritenuto sicuro dai partigiani era rimasta un’autoblindo tedesca, che sarebbe poi comparsa inaspettatamente alle spalle dei combattenti che assediavano il presidio facendo molti morti. In un altro caso fu il ritardo nell’arrivo dei bazooka a determinare il fallimento dell’operazione.

Gli intervistati danno la possibilità di seguire queste azioni complesse dal punto di vista di tutti i gruppi coinvolti. Rispetto alle relazioni immediatamente successive ai fatti le fonti orali hanno una minore precisione nel riferire la cronologia e i nomi dei partecipanti. Ma sono più convincenti di quelle relazioni perché raccontano anche gli errori: non è più necessario che i responsabili proteggano la loro immagine di fronte ai comandi tacendo sugli sbagli.

Se le precoci interviste di Bermani mostrano i quadri mentali e morali del mondo partigiano ancora attivi nelle parole dei testimoni, Manlio Calegari conduce un’operazione diversa: cerca di associare i testimoni alla sua ricerca, invitandoli a interrogare l’antica esperienza con domande che all’epoca non era possibile porre (cfr. Calegari 2004). L’oggetto della ricerca è la formazione genovese Balilla che operava tra la città e la montagna avendo una consistenza numerica superiore alle formazioni GAP (Gruppi di Azione Patriottica) ma una spietatezza di contesto a esse paragonabili. Al contrario di quanto accadeva nelle formazioni di montagna, quelli della Balilla non facevano prigionieri e venivano immediatamente passati per le armi se catturati da fascisti o tedeschi.

Il problema, per Calegari, è far comprendere ai testimoni cosa lui non capisce della loro esperienza. Ma anche perché abbiano senso, oggi, domande che un tempo semplicemente non si ponevano: bisogna che l’orizzonte ermeneutico dei testimoni si avvicini moltissimo al suo; grazie a un rapporto non episodico ma continuato e sempre più intimo egli riesce a superare il maggiore scoglio che incontra chiunque tenti di capire l’esperienza della Resistenza e che consiste non tanto nella distanza culturale e antropologica che separa il mondo mentale degli antichi partigiani dai più giovani intervistatori, ma piuttosto nella distanza che oggi separa gli stessi testimoni dal loro sé remoto. Comprendere questa distanza significa per i partigiani diventare coscienti della trasformazione da loro subita nel corso di una vicenda lunga sessant’anni, durante la quale hanno imparato nuove parole, nuovi concetti, nuove scale di rilevanza; hanno assorbito informazioni nuove, vissuto nuove esperienze politiche e culturali.

Tuttavia quando raccontano l’esperienza di un tempo tendono a utilizzare il lessico di allora nonostante dispongano oggi di un linguaggio più ricco e di un metro morale più ampio, capaci, teoricamente, di mettere a fuoco e di raccontare aspetti della vita partigiana che un tempo, semplicemente, non si potevano o non si dovevano raccontare. Un’esperienza completamente nuova, contraddittoria, moralmente perturbante come quella della guerra di liberazione fu presumibilmente molto più complessa e ricca del linguaggio che i protagonisti avevano a disposizione all’epoca, del metro valutativo semplificato che ereditavano dal fascismo, ma anche del lessico che venne stabilendosi al tempo delle prime narrazioni, nel dopoguerra.

Non è facile raccontare i mesi della lotta partigiana, utilizzando categorie e concetti che al tempo dei fatti non si possedevano ancora, e l’esperienza di allora rischia di restare per molti aspetti sigillata e irraggiungibile: il ruolo di un intervistatore intelligente, storiograficamente informato, curioso ed emotivamente vicino al testimone è cruciale. Deve infatti far interagire due elementi che gran parte dei testimoni possiede già: da un lato, la memoria di essere stati dentro gli eventi; dall’altro, una sensibilità morale e risorse linguistiche più raffinate, maturate nel corso dei decenni successivi. Non è detto che questa interazione tra esperienza e narrazione riesca. Molto spesso il testimone non riesce a entrare in sintonia con l’intervistatore, ancorato al lessico di quei giorni e ai suoi antichi metri di giudizio, per cui molti dei testimoni di Calegari rimangono personaggi secondari, dei quali si utilizzano solo brandelli di racconto. Ma può anche succedere che il testimone comprenda perfettamente, pur decidendo di non accettare il percorso. Il testimone Luciano, per es., capisce quello che Calegari vuol sapere, ma rifiuta di dirglielo.

Viveva le mie sollecitazioni – non sempre discrete ma leali – ad approfondire con stupore. Ad esse contrapponeva formule consolidate, approvate dalla storia. Solo a volte, incidentalmente, lasciava trapelare il suo travaglio, la solitudine, l’incertezza di allora ma se glielo facevo notare di colpo arretrava. Pensava sinceramente che le ragioni personali non aggiungessero nulla; poco importanti di fronte a quelle generali che subito mi riproponeva (p. 75).

A parere del testimone per conoscere la verità bastava leggere la storia ufficiale della banda, uscita nel dopoguerra; un testo canonico (L. Balestrieri, La brigata Balilla, 1982) che utilizza le retoriche del periodo in cui fu scritto e quindi contiene solo le informazioni che lo storico ha già. Per questo

il racconto della sua vita fino al 20 febbraio ’44 aveva le parole e i riferimenti d’una storia privata; diverse da quelle usate per raccontare il seguito quando, alla fine della primavera ’44, si era messo nei Gap. Queste ultime erano più simili a quelle dei libri di storia. Non conosceva altra lettura. In ogni caso giudicava superfluo, forse addirittura pericoloso offrirne una personale (Calegari 2004, p. 65).

Fondamentale per Calegari l’incontro con un altro partigiano, Ezio, che capirà cosa lui vuol sapere e saprà rispondere alle sue domande. La terza parte del libro, la più lunga, racconta infatti la fase più ricca della ricerca, quella in cui l’intervistato entra in sintonia con lo storico. Ezio da un certo punto in poi sembra utilizzare Calegari per compiere un’operazione che riguarda innanzitutto se stesso: decostruire quanto si è venuto sedimentando sull’antica esperienza di militanza partigiana, dopo i fatti. E recuperare, in questa lotta all’anacronismo, la vera esperienza prima e dopo l’ingresso nella brigata Balilla. Ezio e sua moglie Miranda si impegnano

ad approfondire, non a celebrare: non consegnano né raccomandano i loro ricordi a nessuno; li indagano. Hanno scoperto […] che faccio parte dello stesso gioco: mi interrogo e mi lascio interrogare (pp. 177-78).

Come Meneghello, anche Ezio si rammarica di non aver «messo insieme» le storie per tempo, di non aver ricostruito prima «i motivi per cui ognuno di noi era salito in montagna» (p. 99) quando ancora era possibile, a caldo. Ormai non si può più farlo e dei compagni non restano che «le maschere», spesso solo il nome di battaglia: una maschera, appunto (p. 76), che serviva a celare l’identità ma che a distanza di tempo rende difficile la ricostruzione della vicenda collettiva.

Nel corso delle lunghe chiacchierate Ezio spesso comincia a interrogarsi da solo, e a raggiungere conclusioni parziali. Capita che telefoni a Calegari a distanza di giorni da un colloquio, per precisare – per es. – che la sua maturazione politica, ai tempi della Balilla, non poteva essere stata così completa come aveva detto: sono affiorati nuovi ricordi che hanno stimolato una riflessione autonoma, ed è stato possibile un altro piccolo passo in avanti. Il risultato, insomma, viene comunicato allo storico dopo essere stato quasi completamente elaborato in autonomia dal testimone.

Una di queste correzioni è relativa al momento in cui tutto cominciò. Nonostante suo padre fosse stato bastonato dai fascisti negli anni Venti, infatti, è solo con l’8 settembre che si colloca la svolta:

“Ho pensato alla storia che abbiamo costruito, dice, e mi sembra che non funzioni tanto bene”. Lo guardo, interrogativo. “Andare tanto indietro, prosegue, forse non serve. L’inizio di tutto, per tutti, anche per me, è stato proprio l’8 settembre” (p. 187).

Del resto la centralità di quella data è confermata anche dai compagni di Ezio. Il quale, prima, aveva scelto amici borghesi, diversi da lui per ceto ma accomunati dagli stessi interessi culturali. È dopo l’8 settembre e dopo i bandi repubblichini che le scelte divergono: nessuno degli amici borghesi decide di andare in montagna e tutti si presentano.

Non significa che non vedessero o non capissero. Alcuni conoscevano l’inglese, leggevano libri americani in lingua originale, amavano il jazz. Se non andiamo, hanno detto, succede quella cosa lì, che poi voleva dire prenderci per forza (p. 164).

«Ubbidivano convinti che ci sarebbero stati margini di manovra» (p. 164). Sorprendente è che Ezio per alcuni mesi mantenesse i contatti proprio con quello tra loro che era entrato nelle Brigate nere, mentre lui si nascondeva ed era in procinto di passare alla cospirazione. Vicini di casa, la sera «c’era il coprifuoco; ci facevamo dei segnali, con la luce, per capire se eravamo in casa. Allora attraversavo ed ero da lui […] Parlavamo sinceramente, apertamente». Anche il suo amico «aveva la consapevolezza delle cose che stavano succedendo: il possibile sbarco alleato, la crisi tedesca» (p. 166). Solo poche settimane dopo, dice Calegari, i venti metri che separavano le loro case «sarebbero apparsi a Ezio una distanza enorme, smisurata, ma allora, nella notte, gli era stato facile riempirla» (pp. 166-67).

Se gli amici borghesi scelgono la Repubblica, la nuova recluta trova invece nella Balilla ragazzi che non avrebbe mai pensato potessero diventare partigiani: «giovani senza parole», li chiama. Non li aveva mai sentiti parlare di politica prima, non avevano storie di persecuzione familiare. Alcuni erano dei bellimbusti, altri dei devianti. Uno di loro, Johnson, conferma che non ricorda «d’avere avuto in testa una sola parola di quelle che in seguito aveva scoperto lassù: “Politica, democrazia, destra, sinistra, antifascismo; niente”» (p. 112).

Molte delle domande a Ezio e delle sue risposte sono sul dare la morte. Se i testimoni di Bermani ne parlavano con leggerezza, adesso quella appare una scelta necessaria ma già allora vissuta come difficilissima. Il ‘duro’ Luci dopo un’uccisione piange disperatamente. Ed era stato terribile uccidere un prigioniero tedesco, «un bel ragazzo», mansueto, che aveva mostrato le foto della famiglia; un nemico «a cui tutti avevano sentito di voler bene» (p. 87). Ma la Balilla operava tra la città e i monti, non poteva fare prigionieri. Quasi tutti quelli ai quali toccava quell’esperienza terribile sono rimasti tormentati. Si uccideva perché era necessario, era uno dei tanti vincoli ai quali non era possibile sfuggire. I più convinti a uccidere erano i sopravvissuti ai rastrellamenti, i più umanitari gli ultimi arrivati.

Come si è visto, quando Meneghello sparisce nel corso del rastrellamento i suoi amici pensano che sia morto ma, dice lo scrittore, «non credo che gli facesse molto dispiacere» perché «queste cose sul momento non facevano dispiacere, e naturalmente neanche piacere, non facevano nulla» (Meneghello 2005, p. 139). Anche nel libro di Calegari sembra che la possibilità di morire, nei mesi della lotta, facesse poca impressione. Si era pronti a dare la morte proprio perché si era preparati a perdere la propria vita in ogni momento. La morte, data o ricevuta, era diventata un elemento familiare, consueto. Anche se non si era indifferenti nell’atto di uccidere, come emerge dai racconti che si riferiscono all’episodio più terribile nella storia della brigata.

Dopo che i nemici avevano ucciso 17 partigiani, la Balilla decise una controrappresaglia: prelevarono 39 fascisti già condannati a morte (alcuni giovanissimi) e con una marcia di tre giorni li portarono dove i partigiani erano stati uccisi e li fucilarono. Per Ezio un’esperienza del genere «ti distrugge dentro» (Calegari 2004, p. 90); Badoglino, all’epoca partigiano giovanissimo, racconta: «sono stato male, subito, e ho continuato a vomitare per 15 giorni» (p. 102). E Mauro, un altro partigiano: «Sono state settimane, mesi terribili per tutti perché quando chiudi gli occhi la sera e pensi ai 39 di Cravasco stesi là e a tutti gli altri che hanno incrociato la nostra strada non è che dormi tranquillo» (p. 106). Quando Balestrieri cercava di intervistare quelli della Balilla per scriverne la storia, erano tutti riluttanti, forse anche a causa di questo ricordo e per il disgusto per il bagno di sangue che aveva fatto seguito alla fine della guerra. «Ricordo che Battista ci ha portato lì quasi a forza perché nessuno ci voleva andare» (p. 211).

Insomma: la consuetudine con la morte e l’accettazione dei vincoli che imponevano di infliggerla vanno insieme a una reazione di fortissimo orrore di fronte all’uccisione, che rimane intatta dopo tanto tempo. Spesso gli stessi testimoni che raccontano di quell’orrore affermano anche che tutto ciò era necessario, non si poteva scegliere, anche se c’era chi si rifiutava di sparare, «il rimorso, se così si può chiamare, lo ha avuto prima e non dopo» (p. 106).

Le interviste di Bermani e Calegari riportano un quadro che si avvicina alla Resistenza degli storici più recenti e a quanto avevano già scritto gli scrittori partigiani. I combattenti sembrano spinti nella lotta dal contesto della ‘guerra grossa’ e dell’occupazione tedesca. All’inizio ignari di politica, si politicizzano in fretta, arrivando a concepire speranze di trasformazione totale della società. Questo percorso, sorprendentemente, è lo stesso per i giovani di famiglia fascista e per quelli di famiglia antifascista: tutta la vicenda è strettamente determinata dalla cronologia a breve, dal contesto. Entrano in una dimensione diversa in modo veloce e rapidamente si devono adattare alle novità, si trovano a uccidere loro coetanei e a essere da quelli uccisi; soffrono per la necessità della violenza ma la riconoscono come ineluttabile, «è la guerra».

Contrariamente alla rappresentazione di ‘un popolo alla macchia’ i civili che la memoria partigiana ci restituisce oscillano nel loro atteggiamento verso la Resistenza tra la solidarietà e l’ostilità e in ogni caso quella partigiana appare una scelta difficile, rischiosa, minoritaria. Non erano certo pesci nell’acqua, o, almeno: non lo erano sempre, non ovunque. E si trattava di un arruolamento che doveva essere confermato giorno per giorno. Quello che rimane straordinario, una volta che l’esperienza venga sfrondata dal trionfalismo dei racconti encomiastici, è la capacità di tenuta, nell’arco di un anno e mezzo, nonostante i rastrellamenti rovinosi, le sconfitte militari, gli arresti e le esecuzioni, i tradimenti dei civili, l’incomprensione dei comandi alleati. È davvero sorprendente, date le durissime condizioni in cui vissero i patrioti durante le numerose fasi critiche, che le defezioni siano state rare, che si sia scelto di continuare. Il riconoscimento che la Resistenza non fu una lotta di massa, come si volle credere nel dopoguerra, ma un impegno di minoranza – per giunta in mezzo a una popolazione solo talvolta favorevole, spesso indifferente e altrettanto spesso ostile –, rende l’impegno e la capacità di durata dei combattenti ancora più notevole.

La memoria dei fascisti repubblicani

Un saggio sulle fonti per la storia della RSI sostiene che la freschezza della memoria dei reduci di Salò

rimane inalterata […] perché non è stata consumata dall’uso, non è stata coltivata come qualcosa da poter arricchire di volta in volta con particolari creati dalla fantasia a beneficio del nuovo ascoltatore, perché a lungo non c’è stato pubblico al quale narrarla. Così quella memoria ha subito una sorta di processo di ibernazione che l’ha, il più delle volte, mantenuta intatta (S. Bartolini, La memoria rimossa: voci e atmosfere della RSI, in Le fonti per la storia della RSI, a cura di A.G. Ricci, 2005).

Si tratta di una concezione della memoria di tipo oggettuale, quasi si trattasse di una vera e propria cosa e potesse essere ‘consumata dall’uso’, ‘coltivata’, addirittura ibernata. In termini generali, si può dire che una simile definizione non è più sostenuta da nessuno, essendo ormai largamente accettato che la memoria sia una funzione della mente, dipendente dalla situazione presente di chi ricorda. Ma in particolare quell’immagine è del tutto inappropriata quando la si utilizzi per definire proprio la memoria repubblichina. È stato notato infatti come a fronte di una storiografia di parte neofascista quantitativamente molto scarsa e poco efficace da un punto di vista scientifico, proprio la memorialistica sia stata chiamata a esercitare una funzione di surroga. Contro la «storiografia ufficiale» (cioè non neofascista) che avrebbe teso a falsificare, denigrare, minimizzare i fatti «perché siano dimenticati» (G. Tarasconi, Fiamma bianca camicia nera, 1994, p. 30) quasi non si forma una storiografia politicamente schierata dalla parte del neofascismo ma è la memorialistica a svolgere quel ruolo. Così, osserva Francesco Germinario, «ai pochi studi con pretese storiografiche prodotti dalla cultura di destra, si contrappone un elevato numero di memorie» (Germinario 1999, p. 26).

Quindi in quella memoria è presente la biografia dei singoli narratori fino al momento del racconto, con tutti gli eventi che li separano dall’antica militanza nella RSI. Ma in quella memoria c’è anche la volontà di dare un giudizio sulla storia. Come spesso accade, quella volontà non è dichiarata, perché la sua efficacia è tanto maggiore quanto più l’intento analitico e giudicante viene presentato come esperienza diretta. Insomma, non è affatto facile analizzare la Repubblica di Salò, così poco intatta e ‘ibernata’ ma così carica, invece, di giudizi politici, impliciti o espliciti. Se il nostro scopo è quello di avvicinarci all’esperienza del passato, dobbiamo allora tenere particolarmente presenti i molti condizionamenti che si frammettono tra i narratori e il loro sé di un tempo: la loro maturazione politica, spesso successiva agli anni della guerra; i loro slittamenti semantici (una parola usata allora e oggi ricca di significati diversi); più in generale, la loro volontà di levarsi contro il giudizio storico consolidato, utilizzando la memoria personale per combattere un’interpretazione della RSI che essi rifiutano in blocco e uscire da quella «specie di esilio» di cui parla Roberto Vivarelli (La fine di una stagione, 2000, p. 95).

Proprio perché la memoria repubblichina appare tutt’altro che vergine e ‘sorgiva’ e risulta largamente ricostruita e carica di interpretazioni e giudizi, si cercherà, qui di seguito, di osservarla in modo indiretto. La riflessione si concentrerà sui racconti autobiografici. Sono testi redatti da persone molto diverse tra loro lungo un arco di tempo che va dall’immediato dopoguerra ai nostri giorni. Per giunta essi si rivolgono a una tipologia assai diversificata di destinatari, cioè di lettori immaginati durante la scrittura, così importanti nel cosiddetto patto autobiografico. Alcuni, infatti, scrivono per i reduci che, come loro, dopo la militanza nella RSI hanno compiuto tutta l’esperienza missina degli esuli in patria (cfr. M. Tarchi. Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, 1995). Altri invece, che non condividono più l’universo di valori degli anni della guerra civile e sono ormai dei non fascisti, vogliono parlare a tutti i cittadini italiani.

La memoria dei giovanissimi combattenti appare influenzata da un trauma fortissimo: la sconfitta, la cattura, le minacce di fucilazione, i campi di concentramento, per alcuni i processi. E lo spettacolo di un’Italia, inconcepibile dal loro punto di vista, che è uscita dal fascismo e ne festeggia la disfatta. La centralità della sconfitta nella loro esperienza non è, tuttavia, immediatamente evidente nelle narrazioni, le quali normalmente seguono un andamento cronologico e la collocano, com’è evidente da un punto di vista fattuale, al termine della vicenda. Mentre è proprio l’esperienza della sconfitta che ne motiva la rilettura, produce una ricostruzione dell’identità personale e spinge a scrivere. Se cronologicamente arriva ultima, la sconfitta da un punto di vista emotivo e cognitivo è l’evento primario, e si colloca subito alle spalle delle narrazioni.

Inoltre la centralità di quella frattura è ulteriormente occultata da un anacronismo fondamentale, perché molto spesso la consapevolezza di stare andando incontro a un destino di sconfitta viene spostata indietro nel tempo, fino al primo momento della scelta; invece molto più verosimilmente, quella consapevolezza comparve alla fine della parabola, o addirittura rappresentò una riflessione compiuta dopo la sua conclusione. Quell’anticipazione appare, quindi, discutibile. Del resto viene contraddetta da numerosi indizi disseminati proprio nelle narrazioni.

La formulazione più fortunata di questo anacronismo è già nel titolo del romanzo-biografia di Carlo Mazzantini: la sua sarebbe stata una scelta motivata fin dall’inizio dalla volontà di «cercare la bella morte» (cfr. Mazzantini 1986). Un coetaneo di Mazzantini, subito dopo il 25 luglio, a caldo, avrebbe addirittura formalizzato così la delusione di un’intera generazione di giovanissimi: «hanno fatto presto loro a cambiare, diceva, hanno fatto presto! Ma noi che ci siamo nati dentro, eh? Che non abbiamo conosciuto altro che quello? A noi che ci rimane? Chi siamo noi adesso?» (p. 11). Dove appare quantomeno strano che chi «non ha conosciuto altro» possa riconoscere questa assenza di esperienza con tanta lucidità, per giunta come limite.

Ma la stessa idea è presente anche nel romanzo di Benito Bollati (Un ragazzo di Salò, 1998), dove il protagonista sente che dopo la sconfitta avrebbe «pagato lo scatto di orgoglio, la pretesa di difendere l’onore del popolo», e tuttavia sente anche che deve continuare perché la strada intrapresa non ha ormai ritorno e la scelta fatta non può più essere rinnegata (p. 54).

Probabilmente l’anacronismo è il risultato di una fusione tra i miti di fondazione del fascismo e la disfatta vera, sperimentata al termine del periodo che si era aperto con la scelta di militare nella RSI. Così l’esperienza della sconfitta nel 1945 si fonde con il mito fascista degli squadristi della prima ora dalle cui fila venivano i ‘martiri fascisti’ celebrati per vent’anni nei sacrari, esempio alla nuova generazione, che era proprio quella della maggioranza dei militi salotini. Fusione che nasce per l’impatto sull’esperienza e sulla memoria dei discorsi elaborati dopo la fine della guerra: la rappresentazione della RSI come di un’élite nazionale che, «a causa di un tradimento di dimensioni storiche incommensurabili» (Germinario 1999, p. 87) si sarebbe fatta volontariamente sterminare per mostrare al nemico la «testimonianza armata d’irriducibilità italiana» (L. Tadolini, I franchi tiratori di Mussolini. La guerriglia urbana contro gli invasori angloamericani da Napoli a Torino, 1998, p. 12).

L’élite è tale perché consapevole che a Salò si andrà a morire; eppure non esita a sacrificare ugualmente se stessa. L’élite, per dirla con un Evola, è tale perché soprattutto in una situazione senza più vie d’uscita fa ciò che deve essere fatto (Germinario 1999, p. 120).

Per i giovani soldati fascisti la morte in battaglia era sicuramente mitizzata; così uno di loro scrive, nel corso della lotta: «Per noi che siamo cresciuti nel clima mussoliniano, combattimento è ancora, e sempre sarà, sinonimo di vittoria. Anche la morte è una vittoria, una suprema conquista» (Ganapini 1999, p. 28). Una morte gloriosa poteva essere considerata una vittoria, e anzi proprio dalla morte dei suoi figli la patria poteva sperare nella Vittoria. Così scrive un caduto della RSI:

Bisogna aver fede: fede nei Morti, fede nel sangue versato, nei sacrifici compiuti […] sarà il sangue di chi non ha mai dubitato a pagare per tutti, senza rammarico […] la Patria non morrà perché noi suoi figli l’adoriamo e tutto daremo per lei (pp. 122-23).

Ma questa ‘bella morte’ era una possibile conclusione eroica della vicenda personale che doveva stagliarsi sullo sfondo trionfale della patria vittoriosa, non aveva niente in comune con la sconfitta, irreparabile, della patria fascista.

Da numerosi indizi appare infatti come non si fosse affatto coscienti degli esiti della lotta, quando venne presa la decisione di schierarsi con il fascismo che rinasceva. Spesso i militi repubblichini provenivano da famiglie fasciste: la propaganda di regime, rafforzata dall’ideologia familiare, rese loro semplicemente impossibile anche solo immaginare qualcosa di diverso dal fascismo, dalla sua vittoria e dalla sua indefinita durata.

Enrico Cestari scriveva a casa lettere «che esprimevano certezze di vittoria» (G. Rimanelli, E. Cestari, Discorso con l’altro, 2000, p. 99). Tarasconi racconta che suo padre, quando scopre che anche i due figli si sono iscritti al Partito fascista repubblicano, esclama «Se va bene (cioè: se vinciamo) saremo una delle famiglie esemplari» (Fiamma bianca, cit., p. 29): esemplari come gli squadristi della prima ora. Altri giovani scelgono la Repubblica perché quella sembra la situazione più ovvia, quanto propone il naturale corso delle cose. Scrive Giorgio Soavi in Un banco di nebbia: i turbamenti di un piccolo italiano (1955): «Io mi sentivo a posto, protetto dalla legge, dai manifesti che comparivano sui muri, dalla stessa gente di cui facevamo parte» (1991, p. 125).

Già quasi arrivati al termine della parabola molti raccontano di come ancora si sperasse di risolvere vittoriosamente la guerra, magari grazie alle mitiche ‘armi segrete di Hitler’. Nonostante la caduta di Roma, Tarasconi ricorda come sperassero ancora di poter capovolgere le sorti della guerra. Anche Mazzantini ricorda come quella fiducia resistesse fino all’ultimo (Mazzantini 1986, p. 244) e racconta il clima che si respirava nelle caserme della Repubblica negli ultimi giorni, quando niente funzionava più ma resistevano «quelle favole: è questione di giorni, non si aspetta che l’armamento: mitragliatrici, machine-pistolen, ottantotto anticarro» (p. 239). Quindi se quella dei giovani di Salò fu una scelta compiuta con un atteggiamento certamente più orientato ai valori che allo scopo (la volontà di riscattare l’onore italiano è la motivazione più frequente) essa tuttavia non escludeva la speranza di vittoria.

Ma chi erano quei giovanissimi combattenti prima della disfatta, quando ancora non erano stati sconfitti, e, a maggior ragione, non avevano ripensato per oltre mezzo secolo ai diciotto mesi di guerra civile? Trovare indizi che permettano di ricostruirne l’identità non è semplice ed è particolarmente difficile trovarli nelle biografie di quelli che, dopo la sconfitta, fecero l’esperienza missina; nel loro caso il reducismo degli ‘stranieri in patria’ ha portato a ricucire fratture e discontinuità, trasferendo in blocco nel passato criteri di valutazione, aneddoti, sensibilità politiche che erano maturati molti decenni più tardi.

Le biografie di quelli che nel dopoguerra rifiutarono il reducismo appaiono più interessanti. Ci permettono infatti di gettare uno sguardo su come si ricostruisse radicalmente l’identità proprio a partire da quella morte metaforica che fu la sconfitta: così dal guscio del giovanissimo milite salotino, come in una metamorfosi, esce il letterato, lo scrittore, il professionista. «Io, personalmente, ho fatto suicidio. Sono rinato altrove. E ciò che di me si scrive è solo un post mortem. Mi pare la storia di un altro» (G. Rimanelli, E. Cestari, Discorso con l’altro, cit., p. 58). Si tratta spesso di narratori autobiografici che, come Piero Sebastiani, «prima di poter narrare distesamente i fatti di quei giorni di sangue [hanno dovuto] passare la soglia dei sessant’anni, cioè metterne oltre quaranta di distanza dagli avvenimenti» (Sebastiani 1998, p. 49). Forse le pagine più belle sono di Mazzantini quando tenta di resuscitare le parole di un tempo, quelle con le quali, lui e i suoi camerati, cercavano inutilmente di definire il contenuto della loro fede, per concludere che era impossibile, quasi che la loro fede movesse da qualcosa di ineffabile: «A che servono le parole [...] sono buone solo a imbrogliarti, a confonderti le idee. Magari vuoi dire una cosa e ne viene fuori un’altra» (p. 167).

[...] “Ci sono cose che non puoi spiegare, cose che uno sente che sono così e basta... Che vuoi mettertele a dire!... Se non ce le hai dentro, se non sei capace di sentirle, è inutile, non puoi capire”. Avevamo raccolto quei motti, quelle parole d’ordine: Onore, Fedeltà, Combattimento A che servivano? Ti davano un brivido nel momento in cui le pronunciavi, ma poi restavano lì, circondate da tutto il vuoto che avevano attorno (Mazzantini 1986, p. 167).

La stessa ineffabilità dell’esperienza viene rivendicata subito dopo la sconfitta, nelle riunioni clandestine tra ex camerati, a Roma «“Non era questo il nostro fascismo!... Il nostro fascismo era...”. E veniva fuori il solito balbettio infantile, quelle quattro frasi slegate che capivi non spiegavano niente» (p. 187). Sempre Mazzantini, infine, introduce un’importante chiave interpretativa:

Come fai a raccontarla una vicenda che non aveva linguaggio, fatta solo di emozioni, di stati d’animo? Quella rivolta cieca, istintiva, con l’illusione che i canti / riempissero il vuoto / delle parole che avevano tradito! (p. 199).

Quindi, un’esperienza ancora senza un linguaggio, perché, come nel caso dei partigiani, il linguaggio che saprà descriverla verrà acquisito molto più tardi. Che è quanto dice anche Sebastiani, quando afferma: «nel nostro agire non c’era una connotazione specificamente fascista, né l’intenzione di un ordine e un regime ormai crollati, ma solo il romantico proposito di difendere le nostre bandiere» (Sebastiani 1998, p. 37). Anche qui sono le bandiere, come in Mazzantini i canti, a essere associati alla scelta: un simbolo. Di nuovo, qualcosa di ineffabile. Talvolta la capacità dell’adulto di evocare con le sue esperte parole di oggi l’antica esperienza dell’adolescente in guerra raggiunge vertici espressivi straordinari, come quando Mazzantini racconta della percezione di essere irrimediabilmente separato dalla realtà, quasi prigioniero di una bolla di illusione che lo separava da quel mondo reale del quale tutti gli altri facevano parte:

A volte, immaginavo di alzarmi nel buio, e lì solo, in silenzio, in punta di piedi, trattenendo il respiro, mi avventuravo in quell’oscurità, senza far rumore, più avanti, a inseguire quella realtà che era sfumata al nostro sopraggiungere [dato che] il nostro passaggio non lasciava traccia. Non appena risalivamo sul camion e riprendevamo la strada, un muro ci si richiudeva dietro (Mazzantini 1986, p. 118).

Difficilmente si potrebbe rendere meglio la sensazione di chi non è riuscito a partecipare alla rinascita della politica che tutto attorno sta manifestandosi; di chi anzi costituisce proprio l’ostacolo e il nemico maggiore di quella rinascita, non ne conosce il lessico né la può comprendere. Ma tuttavia sente che accade e vorrebbe quasi poterla visualizzare, per afferrarla. Della silenziosa ostilità dei civili parla anche Giose Rimanelli:

Passando per i paesi i ragazzi sventolavano i fez, ma la gente guardava senza rispondere. Spesso mi domandavo perché la gente ci guardasse senza rispondere, ma non riuscivo a tirar fuori delle conclusioni. Poi mi venne un pensiero: e se la gente ci odia? (1953, p. 77).

Se le testimonianze rese oggi sono molto interessanti ed efficaci, ancora più interessante appare quanto venne scritto a pochi mesi di distanza dagli avvenimenti. Piero Sebastiani, per es., scrisse nel 1947 una serie di articoli, Occhiali di guerra, pubblicati solo da alcuni anni (P. Sebastiani, Occhiali di guerra tra sangue e fame. Le cattive ragioni di una scelta di campo, 2006). Nei libri recenti (l’autore dopo la guerra ha maturato scelte di sinistra) al racconto si alterna un commento che giudica, distaccato e ironico, gli eventi di allora. I quali, poi, vengono raccontati riproducendo nei dialoghi il linguaggio degli antichi brigatisti neri: l’imprecazione blasfema, la parolaccia, la battuta irridente. Questo doppio registro riduce la partecipazione affettiva del protagonista alla vicenda che racconta. Ebbene: la scrittura di Occhiali di guerra è completamente diversa, perché l’empatia disperata con quanto si narra è totale. Nessuna traccia di linguaggio scanzonato ma un senso cupo della fine.

Si tratta di un’atmosfera terribile che apparenta molto questo tipo di scrittura a quella di Tiro al piccione di Rimanelli, forse non a caso anch’esso scritto nel 1947: anche qui nessuna speranza, la percezione dell’inutilità di tutto: della vita e della morte. E naturalmente dei valori fascisti in nome dei quali si sarebbe dovuto combattere e morire, tanto inutili e svuotati di significato da non essere quasi mai nominati. Tiro al piccione, quando apparve, colpì per essere stato scritto da un repubblichino così poco fascista, così poco politico; il Sebastiani di Occhiali di guerra è come lui: nessun giudizio politico ma un pessimismo totale, dietro la pagina il nulla.

Già prima dell’esperienza traumatica degli ultimi giorni c’era stata quella, terribilmente deprimente anch’essa, degli ultimi mesi di guerra, quando i fragili ideali erano stati infranti dalla presenza costante della morte assurda (certo non bella: i cadaveri sono orribili) e dalla percezione crescente di una sempre maggiore separatezza tra loro e gli altri italiani.

I racconti del 25 aprile ci danno poi un importante tassello d’informazione: tutti parlano dello sbigottimento di fronte a un evento che somiglia alla fine del mondo. Non sanno come comportarsi, cosa fare, dove andare. Corrono per le strade piene di partigiani in festa con ancora addosso le camicie nere; quando vengono arrestati sono sopraffatti dall’intensità dell’odio che li accoglie; non riconoscono un popolo così compatto nell’esecrarli. Erano preparati anche a morire, ma come martiri fascisti. Rischiano invece di essere fucilati come nemici assoluti di tutto il popolo, morendo nella certezza che nessuno mai vorrà riferirsi a loro come a dei martiri, degli esempi.

Mazzantini e i suoi camerati corrono ancora in divisa per le vie di Milano liberata, si barricano in un appartamento dove il comandante si spara. Castellacci prima della cattura è testimone del linciaggio di un milite, riconosciuto da alcune donne e poi finito «da un gobbo, piccolo e per giunta sciancato» (M. Castellacci, La memoria bruciata, 1998, p. 180). Giorgio Pisanò vorrebbe essere ironico quando affastella aggettivi per raccontare come fossero considerati i repubblichini dopo la sconfitta, «tutti brutti, cattivi, sadici, dementi, pazzi, criminali, rottami umani, traditori, mostri»: in realtà proprio così i vinti si sentirono giudicati (cfr. G. Pisanò, Io, fascista, 1997, p. 134). Tutti raccontano del terrore durante la prima carcerazione di fronte alla fucilazione di altri prigionieri, quando niente faceva pensare che sarebbero stati risparmiati. Soavi riesce a vestire in tempo abiti civili e può avventurarsi in incognito nella Milano appena liberata; racconta del suo drammatico isolamento: vorrebbe piangere ma non può per non tradirsi, tutto intorno la gente è euforica, si ride, si grida evviva, si balla (Un banco di nebbia, cit., p. 191).

Sembra, dalle memorie, che il trauma sia stato così forte da annichilire l’io dei narratori. Tutti gli altri italiani sono riusciti a distaccarsi progressivamente dal fascismo, tanto da salutarne la fine come una liberazione. I militi di Salò, rimasti soli, subiscono la dissoluzione dell’ultimo fascismo come una disintegrazione personale, dalla quale riemergeranno come da una morte consumata. Quanto ho già citato da Rimanelli («Io, personalmente, ho fatto suicidio…») può essere facilmente applicato a tanti altri.

Questo spiega la curiosa dissociazione sempre presente, soprattutto nelle narrazioni più sofisticate: la storia viene raccontata dall’antico milite sepolto dopo il 25 aprile, e subito dopo dall’adulto risorto da quelle ceneri. Quasi che le due narrazioni rispondessero a logiche diverse e la biografia oscillasse continuamente tra quei due poli. Anche il libro di Vivarelli nasce da questo tipo di dissociazione, che nel suo caso ha prodotto un monstrum particolare proprio per lo scarto tra gli enunciati del Vivarelli fascista, che rivendica integralmente le ragioni della sua militanza, e quelli dello storico antifascista che avevamo conosciuto. In molte narrazioni troviamo poi aneddoti simili. Primo tra tutti, quello della gioventù tradita, dei militi repubblichini presentati come ragazzi, quasi bambini, che di fronte al crollo del fascismo si trovano ad assumere tutta l’eredità del regime riscattando il tradimento degli adulti.

Emblematica in molti racconti la figura del maestro di fascismo, che si incontra di nuovo dopo la guerra e la sconfitta, per scoprire con amarezza che è diventato, nel frattempo, antifascista: Tarasconi, figlio di un operaio Fiat squadrista e nato nel 1929, ricorda il suo insegnante, «il più solerte nel magnificarci il Regime, il Duce, la Patria». Nel 1947 Tarasconi, appena reduce da un processo, lo incontra per caso. Quando scopre che l’antico maestro ha combattuto coi partigiani: «Maledetto! Gli ho gridato cercando di agguantarlo per il bavero» (Fiamma bianca, cit., p. 14). L’aneddoto del maestro fascista incontrato dopo la guerra con trepidazione, e la grande delusione di scoprire che è ormai antifascista diventa in Vivarelli addirittura un capitoletto del suo libro (La fine di una stagione, 2000, pp. 97-99). Mazzantini dopo il 25 luglio corre a casa del giovane zio, intellettuale fascista, ma si sente dire «Anche noi ci siamo sbagliati». Neppure il padre reagisce di fronte all’esultanza popolare dopo il 25 luglio, quel padre che lo portava ad assistere alle adunate oceaniche romane commuovendosi. In quell’occasione, ricorda,

sentivo la mano di mio padre tremare nella mia e, alzando il capo, vedevo di sotto in su il suo viso familiare e buono, rigato dalle lacrime che scendevano lungo le guance, come trasfigurato da quella esaltazione, le due immagini si confondevano, si sovrapponevano… Lui [Mussolini] e mio padre, come fossero una cosa sola (Mazzantini 1986, p. 256).

Nello stesso libro, in apertura, una testa di gesso di Mussolini che il 25 luglio vola da un appartamento vicino e si schianta sul selciato diventa «la testa di mio padre» (p. 14).

Un altro elemento che accomuna molte narrazioni è l’oblio degli atti più orribili perpetrati da Salò e ormai in nessun modo difendibili. Non si parla delle stragi di civili e anche i rastrellamenti antipartigiani e le fucilazioni vengono raccontati come eventi distanti. Fa eccezione Mazzantini con la straordinaria descrizione della fucilazione di Osella e di altri antifascisti a Borgosesia, vero capolavoro narrativo per la capacità di identificarsi con la vittima e la percezione dell’esecuzione come enormità morale, insensata. Anche della persecuzione antiebraica non si trova quasi nulla, spesso anzi si afferma di non essere mai stati antisemiti. Solo Pisanò, parlando della Shoah, osserva tranquillamente come di «soluzioni estreme [sia] piena la storia» (Germinario 1999, p. 68). Mentre Salvagnini commentando il numero delle vittime della Shoah a Firenze, ben duecentotrentacinque, afferma che: «appare perdita abbastanza contenuta» (G. Salvagnini, L’ultima guerra civile. Firenze e la RSI, 2004, pp. 60-61).

Marco Tarchi si chiede se l’oblio dell’antisemitismo e della persecuzione avvenga per rimozione, reticenza, desiderio di occultare le complicità, oppure per l’effettiva ignoranza di quanto avveniva su questo versante (M. Tarchi, L’esperienza della RSI nella memorialistica recente dei reduci, in Le fonti per la storia della RSI, a cura di A.G. Ricci, 2005, p. 49). Probabilmente per tutti questi motivi insieme. Di sicuro questo vuoto non ci aiuta a ricollocare nel quadro gli attori di quelle azioni terribili e a ricostruire in modo più verosimile la percezione che ebbero delle loro vittime.

Bibliografia

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