METAFISICA

Enciclopedia Italiana (1934)

METAFISICA

Guido Calogero

Il nome di questa scienza, che si presenta nella tradizione come quella che occupa il vertice della gerarchia dello scibile, in quanto suprema scienza filosofica, deve la sua origine a una singolare combinazione bibliografica. Nell'edizione degli scritti aristotelici, che nel sec. I a. C. fu curata da Andronico di Rodi, le trattazioni concernenti i problemi più universali della filosofia furono posposte a quelle riferentisi agli aspetti e alle leggi della natura fisica: e come queste furono raccolte sotto il titolo complessivo di τὰ ϕυσικά (le trattazioni concernenti la natura"), così quelle ebbero il nome di μετὰ τὰ ϕυσικά ("le trattazioni posteriori a quelle circa la natura"). Il μετὰ non esprimeva quindi che il materiale susseguirsi di un gruppo di scritti all'altro, senza alcuna allusione al reciproco rapporto di valore del loro contenuto: né avrebbe potuto essere altrimenti, perché da tale punto di vista il μετὰ avrebbe piuttosto significato la "posteriorità" e quindi l'inferiorità ideale della "metafisica" rispetto alla "fisica", mentre per rendere l'idea di un' "ultrafisica" si sarebbe invece dovuto parlare di τὰ ὑπερ τὰ ϕυσικά, "iperfisica". Solo dal carattere intrinseco che, a parte il loro postumo titolo, possedevano gli aristotelici μετὰ τὰ ϕυσικά derivò dunque la nuova interpretazione linguistica, che nel μετὰ sentì espresso il carattere di superiorità e trascendenza proprio delle realtà studiate dalla metafisica nei confronti di quelle studiate dalla fisica. Già presente nella tarda antichità, questa interpretazione, che trasforma il titolo del libro aristotelico nel nome comune della scienza in esso trattata, si afferma soprattutto nel Medioevo: così, se il plurale metaphysica appare già in Boezio, come singolare esso s'incontra nella versione di Averroè, e il nuovo valore etimologico che gli vien dato risulta evidente dal termine di transphysica, che la filosofia scolastica pone come equivalente di quello di metaphysica. Ed è da questo mutato senso linguistico che deriva, infine, anche l'uso moderno del prefisso meta-, adoperato per designare scienze, e in genere forme, di considerazione teorica, concernenti zone di realtà analoghe a quelle che formano oggetto delle scienze al cui nome quel prefisso si aggiunge, ma giacenti comunque al di là dei loro confini: così si parla di "metapsichica" come di teoria indagante una realtà psichica più profonda di quella studiata dalla psicologia, di "metastorica" come di dottrina delle leggi trascendenti che dominano i fatti descritti dalla storia, e via dicendo.

Gli scritti aristotelici compresi sotto il nome di metafisica sono costituiti, di fatto, da diverse trattazioni, alcune delle quali nate in un periodo in cui Aristotele si sente ancora legato alla scuola platonica e pur criticando la dottrina delle idee vede in essa il problema centrale della filosofia, e altre rispondenti a una fase di sviluppo spirituale in cui il suo pensiero ha raggiunto un'autonomia più decisa. Ma, pur nella varietà dei loro atteggiamenti, tanto le une quanto le altre vertono sugli stessi problemi fondamentali dell'interpretazione della realtà. Quel che in esse si propone Aristotele è la determinazione dei principî ultimi, da cui si debba far dipendere l'esistenza di tutte le cose. Per ciò egli critica l'idealismo platonico e accademico enucleando le difficoltà implicite nel concetto di un'esistenza indipendente delle idee o dei numeri, da cui debba dipendere ogni realtà particolare; per ciò elabora il suo concetto della sostanza individua, a cui il principio ideale è immanente in quanto ne costituisce la forma che vi si determina nella materia, e interpreta il binomio di materia e forma nel senso dinamico di quello di potenza e atto; per ciò, infine, considera la gerarchia delle sostanze come perenne processo della potenza verso l'atto e pone al suo vertice la divinità, che come forma e atto puro di materia e di potenza rappresenta l'ideale a cui tende tutto il divenire cosmico, e ne è così l'immobile motore. A questa scienza che studia la realtà assoluta Aristotele dà il nome di "filosofia prima" (πρώτη ϕιλοσοϕία); e la definisce come teoria dell'"ente in quanto ente" (ὄν ᾗ ὄν, ens qua ens), cioè della realtà considerata in quei soli caratteri universalissimi che la fanno esser tale, ed esclusi tutti quei caratteri specifici che le conferiscono la natura di realtà determinata, oggetto di una scienza particolare. Tale definizione corrisponde invero, nell'evoluzione del pensiero di Aristotele, a una fase ulteriore a quella per cui oggetto della suprema scienza filosofica non è ancora l'ente nella sua universalità, ma solo l'ente divino: ma tale distinzione, chiarita soltanto dalla più recente critica storica (W. Jaeger), non ha importanza, dal punto di vista dell'influsso esercitato dal pensiero aristotelico su tutta la storia della filosofia fin quasi all'età presente, appunto in quanto la sua metafisica influì sulla metafisica posteriore nella forma complessiva in cui essa si presentava nell'opera che le aveva dato il nome.

Si vede dunque come dal contenuto della "filosofia prima" di Aristotele, sia derivato il senso che nella tradizione è rimasto legato al nome di "metafisica", da quello dell'opera in cui essa appariva esposta. Intrinseco alla metafisica è il concetto di una fondamentale distinzione, onde una realtà assoluta e universale si contrapponga a una realtà relativa e particolare, costituendone la base ultima, e conferendo così alla conoscenza teoretica di quella realtà il carattere di conoscenza assoluta, rispetto alla relatività di tutte le altre. Si parla quindi in generale di metafisica in occasione di qualsiasi dottrina che ponendosi come scienza della realtà assoluta si presenti come fondamentale rispetto alle scienze delle realtà che da quella dipendono: per quanto, s'intende, estremamente vario possa essere il modo in cui vien concepito tanto quell'assoluto quanto la sua relazione al relativo, e di conseguenza la natura e il rapporto reciproco delle scienze che vi si riferiscono. Così, p. es., nei sistemi filosofici realistici o oggettivistici, scorgenti comunque il fondamento ultimo delle cose in una realtà esistente in sé antecedentemente al pensiero, la metafisica appare come ontologia, o teoria dell'essere, nel più alto senso della parola; mentre nei sistemi idealistici o soggettivistici, che la realtà ultima vedono invece nel principio conoscitivo e intellettivo, la metafisica viene a identificarsi con la psicologia o con la gnoseologia o con la logica o con la dialettica, o anche con l'etica, quando il regno dell'assoluto sia scorto soltanto nella sfera dei valori morali. Né la superiorità della metafisica sulle altre scienze si presenta sempre sotto l'aspetto del rapporto onde la suprema forma speculativa sovrasta alle particolari discipline filosofiche: perché non sempre sussiste la distinzione tra scienze speculative e scienze empiriche, e la metafisica domina sulle altre discipline o come unica scienza generale (e perciò filosofica) della natura sulle sue scienze particolari, o come "prima" fra tutte le scienze filosofiche, ma in un sistema in cui queste esauriscano pienamente il mondo dello scibile e non abbiano quindi al disotto di sé ulteriori discipline empiriche. E quest'ultima, di fatto, è la posizione che nel sistema aristotelico ha quella "prima filosofia", dalla cui tradizione editoriale derivò il nome della "metafisica".

Definito in questo modo il senso generale del termine, si vede quella dell'uso che di tale termine venne fatto. Esiste, anzitutto, una metafisica classica, sia prearistotelica sia postaristotelica, nonostante che tanto l'una quanto l'altra siano, come si è detto, precedenti alla data d'ingresso del nome di "metafisica" nella terminologia filosofica. Non sono anzi mancati interpreti che hanno fatto coincidere l'inizio della storia del problema metafisico addirittura con quella della storia del pensiero greco, osservando come gli stessi "principi" posti dai "fisiologi" della scuola di Mileto a fondamento delle cose trascendessero, nella loro universalità ed eternità, il mondo empirico, e fossero quindi realtà metafisica: per quanto tale "metafisicità" del "principio" non fosse certo asserita consapevolmente dai Milesî, almeno da Talete e da Anassimene la cui acqua e aria primordiali non erano di natura dissimile da quelle empiricamente osservabili. Realtà superiore all'esperienza sensibile era bensì, per lo meno sotto certo aspetto, l'infinito di Anassimandro, così come lo erano i numeri dei Pitagorici, e più tardi il logos eracliteo concepito come legge immutabile dell'incessante divenire delle cose. Ma la prima netta e consapevole distinzione di una realtà assoluta dalla realtà empirica è opera della scuola eleatica, che con Parmenide contrappone il puro e unico ente alla varietà molteplice e transeunte delle cose sensibili. Il primo, che risponde alla semplice affermazione onde si dice che qualcosa "è", non infirmata da alcuna ulteriore determinazione che quell'"essere" contraddica con un "non-essere", è l'unica realtà vera; mentre tutti gli aspetti molteplici del mondo non sono che forme dell'arbitraria sintesi dell'essere col non essere, e veri appaiono soltanto dall'illusorio punto di vista dell'"opinione".

La prima esplicita affermazione di una realtà metafisica sovrastante alla realtà fisica vien dunque a essere un'assoluta svalutazione di quest'ultima di fronte alla prima. Questa concezione si mantiene salda durante tutto lo sviluppo della scuola eleatica; ma Melisso, considerando come carattere determinante dell'assoluta realtà e verità dell'ente non tanto il motivo parmenideo della purità dell'"è" che lo afferma da ogni "non è" che contrapponendoglisi lo determini, quanto quello, da lui più propriamente sviluppato, della sua eterna costanza di natura attraverso l'infinita serie del tempo, orienta in modo diverso l'utilizzazione che della metafisica eleatica compie il pluralismo di Empedocle, Anassagora e Democrito. Questi infatti accettano il principio melissiano della necessaria costanza della realtà vera, concependo come immutabili i rizomi, le omeomerie e gli atomi; ma nello stesso tempo non condannano come soltanto apparente la realtà che per composizione ne deriva, nello stesso modo in cui i cosmologi della scuola di Mileto spiegavano il mondo coi loro "principî", ma non lo consideravano come illusorio di fronte all'esclusiva realtà di quelli. Torna quindi, anche nella filosofia pluralistica, quella relativa fusione della metafisica con la fisica che già si osservava nelle più antiche concezioni greche della natura; per quanto una certa tendenza scettica, che si fa palese nell'ultimo e maggiore dei pluralisti, Democrito, tenda a considerare come soltanto apparente, e condizionata dalla relatività delle percezioni sensibili, la divergenza tra la realtà empirica e quella dei suoi principî, e quindi a sommergere ancora una volta, almeno implicitamente, la fisica nella metafisica.

La distinzione delle due sfere torna invece nettissima nel sistema di Platone, che è il primo a fornire una vera e propria giustificazione della relativa sussistenza del mondo fisico rispetto alla sussistenza assoluta di quello metafisico. Quest'ultimo, costituito dalle idee, o forme universali di ogni particolare realtà, è anch'esso determinato in primo luogo dal carattere eleatico e melissiano dell'immutabile costanza nel tempo, mentre il mondo fisico partecipa del carattere transeunte del divenire eracliteo. L'essere è identificato col permanere eterno: le idee meritano il nome di ὄντως ὄντα ("realtà che sono essenzialmente, veramente") in quanto restano sempre identiche a sé stesse (ἀεὶ αὐτὰ κατὰ ταὐτὰ μένοντα). D'altra parte, attraverso la sopravalutazione socratica del mondo dei concetti umani rispetto a quello della natura, il metafisico viene a sovrastare al fisico non solo come l'eterno al transeunte, ma anche come il valore e il dover essere all'essere scevro di valore. Il dualismo del fisico e del metafisico determina così l'intero sistema platonico, non solo nell'aspetto ontologico, ma anche in quelli della psicologia, della religione, dell'etica. E se tale dualismo è combattuto da Aristotele, per quel che concerne il problema fondamentale della relazione ontologica del mondo ideale a quello reale, esso sussiste comunque come distinzione della scienza universale dell'ens qua ens dalle scienze particolari delle singole forme di realtà: quella scienza universale per la quale appunto, come si è visto, si viene a costituire nella tradizione il nome di "metafisica".

Nelle tre grandi correnti postaristoteliche dello stoicismo, dell'epicureismo e dello scetticismo, la distinzione della sfera metafisica dalla sfera fisica passa invece in seconda linea, quando non vien meno del tutto. È evidente come ciò debba accadere nello scetticismo, posta la sua sfiducia nella possibilità di qualsiasi dottrina oggettiva del reale. Nello stoicismo e nell'epicureismo i problemi metafisici rientrano in quella sezione della filosofia, che in entrambi tali sistemi ha il nome di "fisica": e già questo termine, pur non esprimendo, naturalmente, una consapevole opposizione a quello ancora inesistente di metafisica, allude a una considerazione monistica della realtà naturale. Essi infatti risalgono, nelle loro teorie ontologiche, l'uno al sistema di Eraclito e l'altro a quello di Democrito: la loro distinzione del metafisico dal fisico torna con ciò al grado d'indeterminatezza in cui essa si presentava in quelle concezioni presocratiche. Tipicamente metafisico è invece il neoplatonismo, che, pur correggendo il dualismo platonico e mirando anzi a dimostrare come anche le inferiori zone della realtà derivino per emanazione dal principio supremo, concentra tutto il suo interesse nella teorizzazione della gerarchia soprasensibile delle ipostasi, in cui si raccolgono in sistema tutti i più importanti principî dell'eleatismo, del platonismo e dell'aristotelismo.

Nel Medioevo torna in grande onore la metafisica del periodo greco classico, tanto la teologia quanto l'escatologia del cristianesimo favorendo la distinzione dualistica di un mondo assoluto dal mondo empirico. Nell'età patristica, la metafisica-teologia cristiana si avvale soprattutto delle forme teoretiche del platonismo e del neoplatonismo, adattandole alle proprie peculiari esigenze: così, p. es., la trinità delle ipostasi metafisiche del neoplatonismo riappare sotto varî aspetti nelle formulazioni e interpretazioni del dogma trinitario. Nell'età scolastica trionfa la metafisica aristotelica, soprattutto per opera di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino: il nome stesso di metaphysica (accanto al quale si presenta anche, come si è detto, quello di transphysica) si afferma stabilmente nell'uso. Anche per San Tommaso la metafisica è tanto teologia (come scientia adquisita circa res divinas) quanto suprema ontologia (come scienza che tratta de ente in communi et de ente primo, quod est a materia separatum, e che considerat ens et ea quae sequuntur ipsum), conservando cioè il duplice carattere che aveva nell'opera aristotelica, e serbando il rango di scienza suprema, dominatrice di tutte le altre (scientia reliquarum scientiarum gubernatrix et rectrix). Intrinsecamente antimetafisica è invece, nel pensiero scolastico, tutta la corrente nominalistica e concettualistica che lo attraversa quasi fin dagl'inizî, negando che gli universali, sia nel senso platonico sia in quello aristotelico, sussistano effettivamente nella realtà, e risolvendoli in mere espressioni verbali o per lo meno in concetti della mente umana. Per quanto, infatti, anche tale corrente professi ossequio alle verità teologiche, in genere, distinguendo il dominio della fede da quello dell'intelletto raziocinante, essa scalza di fatto le basi dell'edificio metafisico al culmine del quale si erge la teologia scolastica, non potendo esso reggersi senza il presupposto dell'oggettiva realtà delle forme universali, nella loro gerarchia platonico-aristotelica. S'intende cosi com'essa costituisca uno dei principali motivi dissolventi della filosofia medievale, e come trionfi nel secolo della crisi della scolastica, il XIV, col "terminismo" di Guglielmo di Occam. Questi accentua da un lato l'efficacia negativa che il volontarismo della tradizione francescana e scotistica, asserente l'assoluta libertà del volere divino, esercitava sul razionalismo teologico, domenicano e tomistico, che determinando comunque la natura e la funzione dell'assoluto ne limitava e distruggeva l'onnipotente libertà; e, considerando la conoscenza degli universali come risultato di un processo di astrazione dalle conoscenze particolari, apre la via a quella sopravalutazione dell'esperienza sensibile rispetto alla deduzione razionale, che richiamando l'attenzione sul mondo della realtà fisica l'allontanava da quello, affidato a una professione sempre più generica di fede religiosa, della realtà metafisica.

Dall'occamismo del Trecento deriva così, attraverso l'empirismo scettico di Nicola di Autrecourt e l'empirismo scientifico di Nicola di Oresme, il naturalismo del Quattro e del Cinquecento, intrinsecamente antimetafisico nel suo intento di studiare il mondo naturale iuxta propria principia e di giustificarlo senza far ricorso a realtà trascendenti, anche se le sue dottrine circa i principî e gli aspetti universali della natura vengano talora ad assumere un'inevitabile fisionomia metafisica. Ma se il pensiero moderno, per reazione alla trascendenza medievale, nasce sostanzialmente antimetafisico, esso non tarda poi a sviluppare i suoi problemi in una metafisica nuova, il cui campo d'azione è senza confronto più vasto di quello dell'antica. La metafisica degli antichi è essenzialmente realistica, e anche quando ipostatizza platonicamente i concetti dell'intelletto non li considera come funzioni e attività del pensiero ma come entità oggettive e immobili, ché anzi la natura attiva del pensare, considerata nella sua creatività e cioè nella sua capacità di elaborare e trasformare soggettivamente i dati esterni, è per la filosofia greca piuttosto argomento di negazione scettica di ogni sapere che motivo per la scoperta di una nuova sfera di realtà. Con la riaffermazione campanelliana e cartesiana del principio, già balenato alla mente di Sant'Agostino, della certezza interiore, il regno del pensiero pensante diventa invece proprio il punto d'appoggio per il superamento dello scetticismo: e in esso si apre allo sguardo un fecondo campo di ricerca, che non si percorre con l'aiuto dell'osservazione e della constatazione empirica, ma con la riflessione scoprente in sé stessa la propria inevitabile necessità, e determinante quindi nei suoi aspetti universali una realtà non meno fondamentale e assoluta di quella studiata dall'antica metafisica. La prima forma della metafisica moderna, quale si viene costituendo nel Seicento e nella prima metà del Settecento, è così caratterizzata dal parallelismo onde la teoria dell'assoluta realtà spirituale si affianca a quella dell'assoluta realtà naturale.

Il dualismo di queste realtà implica d'altronde il problema del loro rapporto, tanto più in quanto questo rapporto si realizza tipicamente nell'uomo stesso, che se da un lato è nel suo corpo sostanza estesa e nella sua anima sostanza pensante, dall'altro adegua, conoscendo, il pensante all'esteso, e, volendo e agendo, l'esteso al pensante. La metafisica di questa età è quindi essenzialmente una scienza della legge assoluta che connette e armonizza le due sfere del reale, e culmina nella concezione occasionalistica, se con tale nome si vuole universalmente designare il principio della concordia che a ogni singolo atto del pensare e del volere corrisponda nel mondo esterno la congrua modificazione. Questa metafisica non è quindi più soltanto ontologia, ma nello stesso tempo anche gnoseologia ed etica, determinando insieme i fondamenti del reale e le modalità del conoscere e del volere umano: così in Cartesio essa contiene i prima cognitionis humanae principia, in A. Geulincx e in Malebranche si riferisce ai supremi principî della coincidenza fra l'esteso e il pensante e della contemplazione delle idee in Dio, in Spinoza viene sostanzialmente a risolversi nell'Ethica, le cui conclusioni morali sono direttamente collegate con la sua costruzione teologico-ontologica. E così, infine, Cristiano Wolff, sistemando nelle sue scolastiche sintesi le concezioni della monadologia leibniziana (supremo esempio di questa metafisica che, pur tendendo a risolvere l'esteso nel pensante, seguita tuttavia a concepire il mondo dei pensanti come mondo esteso) manifesta chiaramente l'universalità ontologico-gnoseologica della metafisica dividendone l'ambito in quello delle quattro principali scienze filosofiche, ontologia, cosmologia, psicologia razionale e teologia razionale.

La crisi di questo tipo sei- e settecentesco di metafisica è determinata in primo luogo dalla critica gnoseologica dell'empirismo inglese e in secondo luogo dalla grande riforma operata dal Kant. Con la sua tendenza a far risalire ogni dato conoscitivo all'esperienza sensibile, anzi a risolvere in tale esperienza ogni realtà oggettiva che essa sembri presupporre, l'empirismo è intrinsecamente ostile a ogni asserzione metafisica di realtà assolute. Così l'associazionismo del Locke, col suo nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensibus e con la conseguente negazione di ogni innatismo, rappresenta un aspro scoglio per il Leibniz, che deve aggirarlo coi concetti della coscienza oscura e della virtualità per poter fondare la sua metafisica spiritualistica. D'altra parte, la soggettiva percezione conduce a un certo punto a una metafisica monadologica non dissimile da quella del Leibniz: come accade al Berkeley, che in nome della riduzione dell'esse al percipi considera l'universo come unicamente costituito di sostanze percipienti. Ma s'intende che a una simile dissoluzione empiristica della sostanza estesa non può non seguire un'analoga dissoluzione della sostanza pensante, concepita come entità metafisica in sé sussistente e quindi dotata di tutti i caratteri oggettivi tradizionalmente proprî della sostanza estesa. Così il Hume, che dimostra come anche la presupposta sostanza pensante si riduca soltanto a un fascio di percezioni e di ricordi, sorretti solo dalla puntuale, e indefinitamente labile, attività presente del pensiero, può senz'altro escludere la possibilità di ogni metafisica, considerando malsicura e inutile ogni conoscenza che tenti di superare i limiti dell'immediata esperienza umana.

Singolare e complessa è invece, rispetto alla metafisica, la posizione del Kant. Com'è noto, la sua indagine filosofica è soprattutto spronata dall'esigenza di ritrovare comunque la via per una conoscenza razionale dell'assoluto, dopo la crisi a cui l'empirismo humiano aveva condotto la sua adesione alla metafisica leibniz-wolffiana. Questa esigenza di ricostruire il crollato edificio della metafisica resta in tal modo determinante in tutta la speculazione kantiana, per quanto la scienza a cui egli mira sia affatto diversa, per intrinseca giustificazione critica, da quella alla cui dissoluzione egli ha assistito, e che gli appare illusoria come ogni altra metafisica "dogmatico-razionale" del passato. E soltanto come controllo e accertamento dei mezzi che il pensiero umano possiede per giungere alla costruzione di tale nuova metafisica, senza ricadere nelle escogitazioni pseudo-razionali dell'antica, gli si presenta quindi la grande ricerca filosofica che egli istituisce e attua nelle sue tre Critiche, com'è chiaro anche dal titolo dell'opera che riassume la prima e maggiore di esse, e cioè dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza. D'altra parte, in quanto questa ricerca critica finisce per occupare essa stessa la parte più grande e importante di tutto il sistema della filosofia, almeno nella forma che riesce a dargli col suo indefesso lavoro il Kant, e a contenere essa stessa in massima copia quelle proposizioni assolute, riconosciute immediatamente mercé una riflessione a priori sulle condizioni necessarie di ogni forma di attività dello spirito umano, che nella loro forma appaiono caratteristiche del pensiero metafisico, s'intende come il Kant sia insensibilmente tratto a considerare questa critica come costituente essa stessa la desiderata metafisica.

Di qui la sua contrapposizione della "metafisica critica" alla "metafisica dogmatica", e la sua definizione di quella come "filosofia dei fondamenti primi della conoscenza" o come "scienza dei limiti della ragione umana". Lo strumento conoscitivo viene in tal modo a prendere il posto della scienza alla cui conquista doveva servire: e la conoscenza dell'assoluto e del trascendente, che doveva caratterizzare la metafisica nel vecchio senso, assume invece l'aspetto di quella via dell'illusione e dell'errore, che l'intelletto percorre quando oltrepassa i limiti dell'esperienza possibile e s'impiglia nelle insolubili antinomie della dialettica. Ma d'altra parte è anche vero che al di là dei confini teoretici dell'intelletto giacciono quelle supreme realtà noumeniche, che sono intrinsecamente presupposte dalla destinazione morale dell'uomo: come la libertà, che l'intelletto esclude affatto da quella natura a cui impone la sua categoria causale e che deve pur sussistere perché abbia senso la responsabilità e l'obbligazione del dovere, e come l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, che l'intelletto, legato alla determinatezza spaziale e temporale dell'esperienza, non può mai dimostrare e che sono tuttavia necessarie perché la virtù possa trovare la sua perfezione nella beatitudine. Prima subordinata, quanto alla sua costruttibilità, al risultato del preliminare esame critico delle facoltà conoscitive, e poi risolta in questo stesso esame, la metafisica viene così ad assumere ancora una fisionomia indipendente, come scienza di quelle idee della ragione che svelano la loro efficacia regolativa agli occhi dell'esperienza morale, e in genere come scienza del mondo morale, in sé noumenico in antitesi alla fenomenicità del mondo della natura. S'intende così come il Kant, che non poté mai scrivere una metafisica della natura (nonostante che in una sua definizione la metafisica si suddividesse ancora, in modo leibniz-wollfiano, in ontologia, fisiologia, cosmologia e teologia razionali, e che col titolo di Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft egli designasse un suo scritto, concernente in realtà i principî fisici, e non metafisici, della natura stessa) abbia invece composto la Fondazione della metafisica dei costumi e la Metafisica dei costumi.

La complessa e oscillante situazione della metafisica in seno al criticismo kantiano si semplifica col passaggio che da questo conduce all'idealismo assoluto del primo Ottocento. Eliminato col Fichte il presupposto della cosa in sé, e con ciò la differenza del noumenico dal fenomenico e di un mondo morale da quello della natura, non aveva più ragione d'essere la distinzione di una scienza dell'assoluto dalla critica circa la sua possibile costruzione, e doveva quindi trionfare in pieno quella tendenza a identificare la metafisica con la stessa teoria critica dello spirito, che si è già veduta presente nel pensiero kantiano. Nascono così i grandi sistemi della metafisica idealistica, che in fondo rinnova il tipo di quella del Sei e Settecento per la fiducia nella propria capacità a penetrare integralmente il sistema del reale, pur distinguendosene essenzialmente in quanto non concepisce più alcuna metafisica della natura diversa dalla metafisica del pensiero, e pone a fondamento genetico dell'universo quello stesso principio dialettico in cui Kant aveva invece veduto il difetto del pensiero errante oltre i suoi giusti limiti. Questo assunto di un'interpretazione dialettico-metafisica dell'intera realtà conduce d'altronde, specialmente nei sistemi (come quelli dello Schelling e del Hegel) che più esplicitamente si propongono di estendere tale interpretazione anche agli aspetti più determinati della realtà naturale, a una continua trasvalutazione dei dati della scienza empirica. Da tale lotta fra il principio dialettico-metafisico e la realtà empirica, riluttante a sottomettersi al suo giogo, deriva così la decadenza della stessa metafisica idealistica. Da un lato, infatti, il metodo dialettico, che nei grandi rappresentanti dell'idealismo postkantiano era stato sorretto da un energico contenuto speculativo, decade nei loro epigoni a formula estrinseca, e manifesta sempre meglio gli aspetti piu astratti della sua natura nelle applicazioni per cui viene adoperato; dall'altro lato il grande sviluppo delle scienze sperimentali, che contemporaneamente si effettua, fa meglio risaltare con i suoi successi la sterilità del formale metodo dialettico, e della sua pretesa di sistemare e interpretare ultimamente i risultati di quelle.

Tipico della grande ripresa empiristica e positivistica che si manifesta nella seconda metà dell'Ottocento è quindi il grido Keine Metaphysik mehr! ("Non più metafisica!"), in cui si esprime l'insofferenza dei nuovi ricercatori e sperimentatori per ciò che appare soltanto come residuo dell'antico dogmatismo e teologismo. Il maestro del positivismo, A. Comte, giunge a considerare esplicitamente l'"età metafisica" come uno degli stadî, ormai definitivamente superati, attraverso i quali è passato il progresso umano: lo stadio in cui per spiegare la realtà si ricorre alla presupposizione di entità astratte, così come nel precedente stadio "teologico" si ricorreva all'ammissione di personalità soprannaturali. Si può dire, peraltro, che la metafisica si vendichi implicitamente anche del Comte, il quale si svela animato di spirito non empiristico ma metafisico nella sua concezione della filosofia come sistema e culmine delle altre scienze e nella sua intuizione religiosa del progresso umano. E così altri positivisti o finiscono per cadere, volenti o nolenti, nella metafisica, come lo Spencer con la sua asserzione dell'Inconoscibile giacente al di là dei limiti dell'esperienza scientifica, o a essa fanno più o meno luogo, sia pure soltanto nella forma di sintesi delle scienze empiriche o di teoria generale del loro metodo, come in genere i positivisti italiani.

Nella rinascita idealistica svoltasi tra la fine dell'Otto e il principio del Novecento la giustificazione della metafisica ha preso in generale il nuovo aspetto di una rivendicazione di quei valori spirituafi che sfuggivano all'indagine delle scienze sperimentali, di necessità portate dal loro metodo ad abbassare lo spirito a natura e la libertà a causa. Per non ricordare che le manifestazioni principalissime di questo risorgimento della metafisica, in Germania essa è rinata come "metafisica dei valori" (Wertmetaphysik: Windelband, Rickert, ecc.), e cioè come rivalutazione dei valori umani e della conoscenza storica che, superando le schematizzazioni della scienza naturalistica, li rivive e intende; in Francia, il Bergson ha veduto in essa la suprema conoscenza del reale, a cui giunge l'intuizione che oltrepassando le immobili leggi della scienza coglie l'individuale creatività del divenire. In Italia, la rinascita idealistica, che col Croce si è ricollegata alla tradizione vichiana, ha assunto un aspetto antimetafisico in quanto, concependo la filosofia come filosofia dello spirito e questa come metodologia della storia, ha del tutto abbandonato la cosiddetta realtà esterna alle classificazioni e schematizzazioni delle scienze naturalistiche, e ha quindi nello stesso tempo relegato fra le anticaglie teologizzanti il problema metafisico dell'essere o della realtà assoluta. Tuttavia, per il suo carattere di scienza vera e universale della realtà, che l'empirismo naturalistico deforma invece per scopi pratici nelle sue classi e leggi, anche la crociana metodologia della storia è a suo modo una scienza dell'assoluto, e quindi una metafisica. E tale significato metafisico dell'idealismo italiano contemporaneo è venuto più nettamente in luce nell'attualismo del Gentile, che ricollegandosi a Bertrando Spaventa, ma per certi rispetti anche a Rosmini e a Gioberti, non ha mai perduto il tradizionale interesse per i sommi problemi dell'ontologia e della gnoseologia. Risolvendo ogni realtà nell'atto del pensiero pensante, questa teoria la vede infatti tutta fondata nell'assoluto, ed è quindi universalmente metafisica, anche se esclude definitivamente, con tale risoluzione, la possibilità di ogni metafisica oggettivistica dell'essere.

Bibl.: Manca una storia generale della metafisica, anche per le grandi interferenze che essa presenta rispetto a quella di altre discipline filosofiche. Un breve compendio è dato da M. Wundt, Geschichte der Metaphysik, Berlino 1931; molte, ma disordinate indicazioni circa la storia del termine si trovano in R. Eisler, Wörterbuch der philos. Begriffe, II, 4ª ed., Berlino 1929, pp. 126-39. Per la metafisica dell'antichità classica v., in generale, J. Stenzel, Metaphysik des Altertums, Monaco 1931; per quella di Aristotele, W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Arist., Berlino 1912, e Aristoteles, Berlino 1923 (traduzione ital. di G. Calogero, con integrazioni dell'autore, Firenze 1934), e specialmente pp. 171-236. Per l'età medievale e moderna si vedano le trattazioni generali di storia della filosofia (per cui v. filosofia, XV, p. 373), e le bibliografie date alle voci sui singoli autori.

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