METODOLOGIE DI RESTAURO DEI BENI LIBRARI

XXI Secolo (2010)

Metodologie di restauro dei beni librari

Simonetta Iannuccelli
Silvia Sotgiu

I manufatti librari sono caratterizzati da una complessa interazione tra materiali di diversa natura: ciascuno di essi, nella progettazione di un intervento conservativo, necessita di un’attenzione particolare e di studi specifici che spazino in diversi e articolati settori conoscitivi, dalle scienze applicate alla diagnostica, alla storia della cultura scritta, delle tecniche di manifattura e della decorazione, secondo i dettami di un approccio codicologico (Sotgiu 2004) che riconosce a tutte le componenti materiali non più solo la funzione di veicolo e contenitore testuale, ma anche quello di testimonianza di una data cultura materiale. Se nel corso del 20° sec. si è fatto spesso riferimento alla professione medico-chirurgica per descrivere metaforicamente l’attività di conservazione e restauro, attualmente tale disciplina si sta trasformando in una sorta di scienza olistica, caratterizzata da un approccio multidisciplinare e dallo studio di problematiche che prevedono interazioni tra diversi ambiti di ricerca senza, tuttavia, mai perdere di vista la centralità del manufatto e il significato culturale che ne emerge. Riconosciuto il valore di unicità a ogni singolo libro nella sua articolata struttura di manufatto composito, si manifesta la necessità di un restauro laddove tale integrità sia stata compromessa e le materie che la garantivano rischino di degradarsi ulteriormente. Le metodologie di intervento recentemente adottate vengono, dunque, concepite ad hoc per ogni singolo manufatto, nell’ottica di limitare ai casi più problematici la prassi dello smontaggio totale dell’opera e la conseguente realizzazione di nuove legature conservative. Questa pratica, invalsa per necessità a seguito dell’alluvione di Firenze (1966), divenne poi una sorta di regola esecutiva negli anni a seguire, e prevedeva la pedissequa sostituzione delle legature originali, per l’appunto considerate non più funzionali, con moderne legature di conservazione, adatte quindi a preservare, meglio di quanto non avesse fatto l’originale, il testo contenuto in un volume. La nascita e lo sviluppo di discipline quali l’archeologia del libro e la disponibilità di sistemi di duplicazione dei testi, dapprima in formato analogico e poi anche elettronico (digitalizzazione), consente a chi opera nel settore di agire con maggior cautela, calibrando l’entità dell’intervento di restauro che, talvolta, a ben guardare, può addirittura risultare inutile. L’attività di conservazione e restauro ha assunto ormai le chiare connotazioni di un vero e proprio scavo archeologico, in cui l’attenzione di tutte le professionalità coinvolte – direttamente o indirettamente – è rivolta al rilevamento delle caratteristiche materiali che emergono dal documento, a partire dalla semplice osservazione obiettiva fino all’esecuzione di indagini per mezzo di tecnologie avanzate, preferibilmente non distruttive o microdistruttive. Soltanto a seguito di uno studio approfondito del manufatto e del suo stato di conservazione è, infatti, possibile pianificare un corretto ed efficace intervento di restauro nelle sue varie fasi.

La pulitura superficiale

Per pulitura superficiale dei materiali costituenti il bene librario s’intende l’intervento volto all’allontanamento di sostanze inorganiche e organiche che, nel tempo, si sono depositate e parzialmente inglobate sulle sue superfici. Dato il suo carattere completamente irreversibile, l’operazione dev’essere effettuata evitando di rimuovere la patina, ciò che Cesare Brandi (1906-1988) definiva la sedimentazione del tempo sull’opera, avendo come riferimento la differenza di solubilità tra le sostanze presenti nei materiali originali e ciò che deve essere asportato. La composizione delle sostanze di deposizione può variare in maniera significativa a seconda dell’uso specifico del manufatto e delle sue condizioni conservative; in generale, la maggior parte di queste sostanze proviene dall’aria ed esprime il normale processo di sedimentazione del particellato atmosferico che si trova nell’ambiente di conservazione. Tuttavia, la morfologia dei materiali costituenti i libri antichi, nel tempo, subisce a sua volta trasformazioni complesse, indotte dall’invecchiamento naturale, dall’alterazione chimica di sostanze impiegate durante il processo di manifattura oppure aggiunte nel corso di successivi interventi di restauro o di manutenzione. Le interazioni che si stabiliscono tra i manufatti e i suddetti depositi solidi possono essere determinate da differenti fattori, quali le dimensioni del particellato, il grado più o meno elevato di igroscopicità del materiale originale e le forze fisiche (di Coulomb, ioniche o interazioni secondarie deboli quali legami a idrogeno e forze di van der Waals) che si sviluppano per trattenere tali depositi in superficie. In presenza di umidità relativa molto alta (generalmente >65%), per es., l’acqua può condensare tra il particellato atmosferico e le superfici del manufatto, agendo tra loro come un adesivo. In generale, più un materiale è permeabile all’umidità, più è igroscopica la sua superficie e più facilmente l’acqua vi può condensare, trattenendo il particellato di deposizione; viceversa, più il materiale è idrofobo, meno l’acqua potrà agire da adesivo dopo la sua condensazione (Wolbers 2000). Nel particolato atmosferico sono fra l’altro presenti spore di funghi e batteri cellulosolitici e proteolitici che, in presenza di un’adeguata quantità di acqua sotto forma di vapore acqueo o condensata, da uno stato di vita latente possono attivarsi, dando luogo a colonie fungine e batteriche in grado di utilizzare come fonti di nutrimento sia i supporti scrittori sia i materiali impiegati nelle legature.

Se impiegata come solvente, invece, l’acqua può svolgere un ruolo molto importante nel ridurre in maniera significativa la barriera di energia superficiale delle forze di adesione specifiche per molti tipi di particellato solido di deposizione. Oltre a esplicare il suo intrinseco potere solvente nei confronti di materiali idrofili organici e inorganici, in qualità di medium ad alta costante dielettrica, essa è molto efficace nell’eliminare (parzialmente o del tutto) le interazioni basate su forze elettriche. Tuttavia, lo stato di conservazione e le caratteristiche morfologiche dei materiali originali possono rappresentare un fattore di rischio nell’utilizzo dell’acqua (o di altri solventi) allo stato libero. Data l’elevata porosità e igroscopicità che caratterizzano il cuoio, la pergamena e la carta, qualsiasi intervento di pulitura superficiale effettuato immettendo sostanze liquide libere potrebbe determinare la dispersione dei suddetti depositi negli strati più interni dei materiali, dando luogo ad alterazioni cromatiche considerevoli, deformazioni e variazioni dimensionali, nonché processi di degradazione chimica. L’acqua, essendo un liquido ad alta tensione superficiale, mostra infatti uno scarso potere bagnante, un’elevata penetrazione sottosuperficiale e quindi, secondo la legge di Jurin, una risalita capillare altrettanto forte. Inoltre, anche se tale liquido da solo può essere efficace nell’eseguire la solubilizzazione, alcune sostanze di deposizione saranno comunque trattenute da interazioni superficiali che possono essere superate grazie a determinati materiali in sinergia con le proprietà solventi dell’acqua. Le metodologie di pulitura superficiale recentemente impiegate nell’ambito degli interventi di restauro di beni librari si basano sull’azione solvente dell’acqua sotto forma di gel acquosi rigidi, di schiume e di emulsioni tensioattive gelificate che hanno la capacità di modificare le suddette proprietà superficiali dell’acqua in maniera da conferire al solvente un incremento del suo potere bagnante e la sua diffusione orizzontale rispetto alle superfici da trattare. Dal punto di vista metodologico non potrà comunque che essere eseguita un’azione graduale (eventualmente coadiuvata da un’attenta osservazione al videomicroscopio) e un trattamento con sistemi di pulitura distinti – a volte anche nell’ambito della medesima superficie – secondo la natura e la stratificazione delle sostanze da rimuovere.

La pulitura superficiale del cuoio e della pergamena

Per minimizzare il contatto delle superfici del cuoio e della pergamena con l’acqua allo stato libero, l’intervento di pulitura superficiale può essere effettuato utilizzando una dispersione colloidale ottenuta me­diante una prolungata agitazione meccanica dell’acqua, che consente la formazione di schiuma. Per incrementare la stabilità della schiuma e prevenirne la coalescenza, si ricorre all’aggiunta di piccole percentuali di tensioattivi. Tali sostanze determinano la diminuzione della tensione superficiale in corrispondenza delle pellicole acquose che circondano le molecole gassose di aria, in modo da conferire loro il grado di elasticità sufficiente a sostenere le sollecitazioni meccaniche cui sono sottoposte nell’intervento di pulitura. In ambito conservativo, i tensioattivi trovano impiego grazie alla loro polivalenza poiché, a seconda della concentrazione impiegata, oltre a impartire le suddette proprietà superficiali al liquido (acqua o solvente) al quale vengono aggiunti, possono svolgere ulteriori attività. Quando la concentrazione del tensioattivo raggiunge un determinato livello, denominato concentrazione micellare critica (CMC) – specifica per ogni tensioattivo –, le molecole si associano spontaneamente a formare aggregati sferici orientati, detti micelle, responsabili dell’attività detergente, emulsionante e solubilizzante delle soluzioni in cui sono disciolte tali sostanze. Tra i vari tipi di tensioattivi impiegati, rivestono particolare importanza quelli detti non ionici (derivati polietossilati o poliossietilenici) che, oltre a non dare luogo a specie cariche in soluzione acquosa, garantiscono attività detergente anche a percentuali molto basse. Il rilascio più controllato dell’acqua da parte della schiuma e una maggiore persistenza di quest’ultima possono essere agevolmente ottenuti incrementando la viscosità dell’acqua mediante l’aggiunta di addensanti, quali gli eteri di cellulosa, come specificato in Guidelines for the conservation of leather and parchment bookbindings (KB, ICN 1999), traduzione inglese di un importante manuale edito nei Paesi Bassi dalla Biblioteca nazionale (KB, Koninklijke Bibliotheek) e dall’Istituto per i beni culturali (ICN, Instituut Collectie Nederland). Tra le sostanze più innovative, è stata recentemente sperimentata, presso il Laboratorio di restauro del patrimonio librario dell’ICPAL (Istituto Centrale per il restauro e la conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario), la gomma di xantano, un polisaccaride ad alto peso molecolare derivato dalla cellulosa e ottenuto per fermentazione in coltura pura di un idrato di carbonio con ceppi naturali del batterio Xanthomonas campestris. Le dispersioni acquose realizzate con questo idrocolloide, oltre a essere neutre, presentano una strutturazione tridimensionale a rete che circonda le cellule d’aria collegandole con continuità, conferendo in tal modo viscosità strutturale, rigidità meccanica e quindi maggiore stabilità alla schiuma. Al fine di effettuare l’asportazione delle sostanze di deposito, la schiuma viene applicata sulla superficie da trattare e sottoposta a una sollecitazione meccanica esercitata per mezzo di un pennello o di un tampone di cotone idrofilo. L’energia meccanica applicata favorisce il processo di rolling-up, durante il quale si verifica il distacco dei materiali di deposito che, dopo essere stati inglobati all’interno delle micelle del tensioattivo, rimangono in sospensione nella schiuma. Al termine del trattamento, la rimozione dei residui del composto viene eseguita mediante tamponi di cotone idrofilo umidificati con acqua deionizzata.

Nei cuoi antichi, talvolta, per l’intervento di pulitura superficiale può essere necessario l’impiego di procedimenti differenziati secondo la loro selettività, la natura dei materiali da rimuovere e l’organizzazione stratigrafica di questi ultimi. Oltre al particellato atmosferico, le legature antiche realizzate in cuoio mostrano, talvolta, l’affioramento in superficie di eccessi di sostanze grasse o dei loro prodotti di degradazione chimica, che si manifestano sotto forma di efflorescenze bianche o di essudati resinosi. La percentuale di sostanze grasse presenti all’interno di un cuoio antico – introdotte durante il processo di manifattura della pelle o nel corso di successivi trattamenti – è di basilare importanza ai fini della conservazione del materiale, poiché tali sostanze svolgono un ruolo fondamentale inerente al meccanismo di scambio di molecole di acqua tra il cuoio e l’ambiente di conservazione. Tuttavia, una quantità eccessiva di grassi (superiore al 5% in peso) comporta la disidratazione del materiale, poiché inibisce la capacità delle fibre di collagene di assorbire acqua. La rimozione di tali depositi si effettua mediante l’impiego di una dispersione di piccole quantità di acqua emulsionata in un idrocarburo leggero – altrimenti denominata emulsione acqua in olio – dove la fase dispersa è costituita dall’acqua e la fase continua è idrofoba. Questo tipo di emulsione è particolarmente efficace nei casi di superfici, come i cuoi antichi, sensibili al solvente acquoso: la percentuale di acqua (10%) contenuta nella dispersione è sufficiente per eseguire l’intervento di pulitura senza causare interferenze con il materiale originale, interessato principalmente dal solvente apolare (89%). L’emulsione, stabilizzata mediante l’aggiunta di un tensioattivo non ionico (1%), è applicata sulla superficie da trattare e sottoposta, per qualche istante, a una blanda sollecitazione meccanica mediante un pennello e, successivamente, asportata con tamponi di cotone umidificati con il medesimo idrocarburo impiegato per l’emulsione (Iannuccelli 2001).

La pulitura superficiale dei supporti cartacei

Secondo le esigenze conservative, la pulitura superficiale dei supporti cartacei può essere condotta in più fasi: pulitura a secco, a umido, chimica e tramite lavaggio. L’intervento che si effettua su questa tipologia di supporti è caratterizzato da una complessità indotta dalle caratteristiche morfologiche che li contraddistiguono rispetto a quelli precedentemente descritti. Se lo stato di conservazione dei media grafici presenti sulla carta lo consente, l’allontanamento dei depositi superficiali incoerenti può essere eseguito a secco, mediante l’impiego di un pennello molto morbido o di spugne in lattice naturale e prive di solventi, in grado di captare il particellato atmosferico senza impartire sollecitazioni meccaniche alle superfici da trattare. Data la peculiare capacità di assorbenza del materiale (nel tempo), le sostanze di deposizione, distribuite solo in superficie, migrano all’interno dei supporti veicolate dalle molecole di acqua che la carta assorbe nel suo continuo tentativo di raggiungere un equilibrio igrometrico con l’ambiente circostante.

In previsione di un intervento di pulitura superficiale, occorre valutare con attenzione il livello di interazione e le modificazioni che le tecniche tradizionalmente adottate (utilizzo di eteri di cellulosa in soluzione acquosa) possono provocare su questa tipologia di materiale, anche quando siano eseguite a regola d’arte. A tal fine, presso il citato Laboratorio di restauro dell’ICPAL è stata sperimentata una metodologia di pulitura superficiale con gel rigidi acquosi di gellano, un eteropolisaccaride ad alto peso molecolare costituito dalla ripetizione di unità tetracicliche di ramnosio, acido glucuronico e glucosio, ottenuto per fermentazione di prodotti di colture batteriche di Pseudomonas elodea (Bajaj, Survase, Saudagar, Singhal 2007). La preparazione si effettua riscaldando la dispersione acquosa a una concentrazione suscettibile di variazione tra il 2% e il 4% in peso o in volume. Al raffreddamento del composto si ottiene il gel: una pellicola spessa e omogenea, facilmente manipolabile e totalmente trasparente. La gelazione avviene, tra i 27 e i 30 °C, in funzione della concentrazione del polimero, della temperatura e della presenza in acqua di cationi mono o bivalenti che favoriscono il passaggio dalla fase sol alla fase gel del composto. Il pH di stabilità del gel varia da 3,5 fino a 8: un intervallo talmente ampio da permetterne l’impiego anche su supporti cartacei, il cui pH ottimale oscilla tra 7,5 e 8,5. Il posizionamento diretto del gel sul supporto cartaceo innesca un processo di scambio tra le due superfici. Mentre il gel rilascia gradualmente molecole di acqua sulla carta sottostante, gli agenti di degradazione più comuni presenti su di essa vengono captati dal film di gellano che, a seguito dell’applicazione, ingiallisce visibilmente. Una delle possibili cause di tale alterazione cromatica è dovuta verosimilmente alla migrazione di prodotti dovuti alla degradazione acida della carta, e cioè di acidi organici liberi idrosolubili (R‒C=O‒OH) che si trasferiscono nel gel dal supporto cartaceo il cui pH finale risulta sempre innalzato a seguito del contatto con il film (in merito a questi risultati, è stato avviato dal 2003 presso l’ICPAL il progetto di ricerca Gel rigidi polisaccaridici per il trattamento di pulitura di materiale cartaceo, consultabile in rete all’indirizzo http://www.icpal.beniculturali.it/progetti_ricerca.html, 14 luglio 2010). Il trattamento, quindi, non si limiterebbe solo alla rimozione di depositi polverulenti di origine ambientale, ma verosimilmente è in grado di effettuare un’azione di pulitura assimilabile a quella di un vero e proprio lavaggio (Iannuccelli, Sotgiu 2009). In tal modo, l’azione solvente dell’acqua viene ottimizzata sfruttando le proprietà del gel che contiene la sua evaporazione, assicura l’uniformità del suo passaggio sul supporto e ne garantisce l’azione costante sull’intera superficie o su aree circoscritte del foglio su cui viene applicato. Questa innovativa metodologia ha un unico limite applicativo, rappresentato dalla presenza di mediazioni grafiche non resistenti all’azione solvente dell’acqua e/o instabili dal punto di vista meccanico perché parzialmente decoese. Si tratta, peraltro, delle medesime limitazioni esistenti nel caso degli eteri di cellulosa in mezzo acquoso; è dunque necessario eseguire sistematicamente test di solubilità all’acqua e di stabilità fisico-meccanica dei media grafici presenti prima di procedere con l’applicazione.

Durante l’intervento di restauro di un libro antico, non è raro imbattersi in casi di restauri pregressi – finalizzati al consolidamento di aree danneggiate del manufatto – applicati con adesivi amilacei o proteici che manifestano, nella gran parte dei casi, alterazioni cromatiche associate a modificazioni strutturali. Queste ultime, di conseguenza, al variare dei valori termoigrometrici dell’ambiente di conservazione diventano causa di deformazioni, di tensioni nonché di imbrunimenti superficiali dei supporti al punto tale da comprometterne la fruizione. La rimozione degli adesivi, previa identificazione tramite test con specifici reagenti, può essere eseguita effettuando un intervento di pulitura chimica, mediante l’uso di enzimi specifici, una classe di proteine finalizzate a promuovere una vera e propria depolimerizzazione per idrolisi delle sostanze da rimuovere. Com’è noto, l’attività enzimatica è direttamente dipendente dalla presenza dell’acqua: ogni enzima, in ambiente acquoso, acquisisce la sua peculiare configurazione spaziale, con la conseguente formazione del sito attivo, un punto specifico della molecola responsabile dell’elevata selettività che ogni enzima mostra per un determinato tipo di sostanza, che viene definita substrato. Dopo aver selezionato l’enzima specifico, verificata la compresenza di sostanze che possano avere effetto di inibizione sull’attività enzimatica (per es., metalli pesanti presenti nei media grafici), nonché la compatibilità dell’opera con il mezzo acquoso, si procede al trattamento. Le modalità applicative più recenti prevedono l’impiego di soluzioni enzimatiche gelificate o in compresse (Iannuccelli, Sotgiu, Missori 2006) che consentono di ridurre notevolmente la concentrazione dell’enzima, la quantità e la diffusione dell’acqua all’interno del materiale cartaceo e, non ultimo, di controllare alcuni parametri indispensabili perché si sviluppi la massima attività enzimatica. La forma degli enzimi, e di conseguenza le loro proprietà, dipendono infatti da una serie di legami deboli secondari che si stabiliscono tra le catene polipeptidiche di queste molecole in presenza di acqua, e la cui integrità dipende dalla stabilità della temperatura e del valore di pH (entrambi specifici di ogni enzima) della soluzione acquosa in cui sono disciolti. Per le ragioni suddette, i gel enzimatici si preparano utilizzando soluzioni tamponate (al pH di attività dell’enzima) e gelificate con gomma di xantano (1-2%) a una temperatura compatibile con il supporto cartaceo e il cui valore rientri nell’intervallo ottimale per l’attività enzimatica (ossia 30-40 °C). La soluzione gelificata contenente l’enzima viene distribuita a tampone su piccole aree della superficie da trattare e lasciata agire per il tempo di applicazione che viene stabilito, di volta in volta, secondo la natura dell’adesivo e le alterazioni strutturali che ha subito nel tempo. Al termine dell’intervento, si asporta il composto con tamponi di cotone idrofilo asciutto. Essendo le preparazioni enzimatiche costituite da un mezzo acquoso contenente materiali solidi idrosolubili, l’unica procedura in grado di garantire la completa rimozione dei residui del gel impiegato è il lavaggio acquoso (Cremonesi 20022). Recentemente sono stati eseguiti trattamenti a base di α-amilasi utilizzando come carrier enzimatico un gel rigido di gellano che, a parità di efficacia con altri gelificanti, dopo il trattamento non lascia residui sul supporto. L’allontanamento di eventuali tracce di enzima e/o adesivo depolimerizzato presenti sul supporto può essere effettuato reiterando il trattamento di pulitura con un semplice gel acquoso di gellano (Iannuccelli, Sotgiu, in Materiali & prodotti per il restauro librario, 2010) oppure mediante l’intervento di lavaggio.

Il lavaggio dei supporti cartacei consente, oltre all’eliminazione dei residui di adesivo depolimerizzato durante la pulitura enzimatica, un’efficace eliminazione degli acidi organici idrosolubili formatisi come prodotti di degradazione della cellulosa. Il solvente impiegato è l’acqua deionizzata tamponata a pH pari a 7-7,5, con eventuale aggiunta di una percentuale di alcol etilico che, riducendo la tensione superficiale dell’acqua, ne aumenta la sua capacità di imbibizione nei confronti dei supporti. Anche il lavaggio rientra in un ambito di trattamenti sostanzialmente irreversibili, ed è dunque fondamentale selezionare metodiche che permettano di rispettare tutte le caratteristiche codicologiche ed estetiche proprie del materiale. Inoltre, la presenza di mediazioni grafiche rende sempre necessaria la preventiva esecuzione di un test di solubilità e stabilità dei pigmenti o degli inchiostri all’azione del solvente. Durante il lavaggio, la struttura fisica di un foglio viene temporaneamente alterata per la presenza di un elevato numero di molecole di acqua che penetrano all’interno delle fibre di cellulosa, e questo fenomeno si ripercuote sull’intera morfologia del foglio. Il lavaggio di carte provenienti dallo smontaggio di un volume avviene di norma in immersione; per ridurre le inevitabili variazioni dimensionali indotte nel corso del trattamento e limitare l’azione dilavante dell’acqua nei confronti dei media grafici si impiegano tecniche alternative. Queste ultime consentono di ottimizzare l’efficacia dell’acqua, minimizzando, allo stesso tempo, gli effetti dell’isteresi igrometrica, nel rispetto delle peculiarità morfologiche originarie che derivano al materiale dalla metodologia di preparazione dell’impasto fibroso e dalle tecniche di asciugatura adottate durante il suo processo di manifattura.

Il lavaggio per capillarità su piano inclinato è una tecnica che sfrutta sia il principio di capillarità tipico dell’acqua sia la forza di gravità. Il supporto cartaceo viene collocato su un tessuto non tessuto in fibre di viscosa che, posto su di un piano inclinato, capta l’acqua contenuta in una vasca posizionata sulla sommità del piano, drenandola verso un bacino di raccolta, collocato in basso (Iannuccelli, Sotgiu, Missori 2006). Il vantaggio che offre questa tecnica consiste nel passaggio uniforme e costante di molecole di acqua incontaminata e nel contenimento delle sollecitazioni meccaniche subite dai supporti cartacei. Un principio simile a quello sopra descritto si sfrutta con la tecnica del lavaggio con tavolo a bassa pressione. Lo strumento, provvisto di un sistema di aspirazione forzata e regolabile, consente lo scorrimento continuo del solvente attraverso l’intero spessore della carta. I vantaggi applicativi di tale metodologia risiedono nella riduzione considerevole dei tempi di contatto tra i supporti cartacei e l’acqua, inibendo, in tal modo, la dispersione del solvente in superficie e l’eventuale solubilizzazione delle mediazioni grafiche.

Il desorbimento delle molecole di acqua in eccesso, acquisite dai supporti cartacei durante i trattamenti di lavaggio, si configura come uno dei momenti critici dell’intervento conservativo, durante il quale il conseguimento di un determinato livello di planarità, tipico del materiale, deve avvenire nel pieno rispetto delle sue caratteristiche morfologiche quali possono essere, per es., l’opacità, la texture superficiale, il rilievo tipografico, xilografico oppure calcografico, soltanto per citare le più importanti.

La metodologia adottata prevede che la cessione dell’acqua in eccesso avvenga interponendo le carte trattate tra feltri di lana pura; questi ultimi, fungendo da ricettori di umidità, consentono il graduale riassetto planare dei supporti cartacei evitando in questo modo eventuali alterazioni della geometria originale del network fibroso.

La reidratazione e la distensione dei materiali

Il trattamento si effettua con l’intento di restituire un certo grado di planarità ai materiali che nel corso del tempo, per invecchiamento naturale, a causa di un’incauta conservazione o a seguito di catastrofi perdono l’assetto morfologico originario, con gravi conseguenze per la loro futura sopravvivenza (Iannuccelli 2004). La pergamena dimostra una forte sensibilità a brusche oscillazioni termoigrometriche, poiché di per sé caratterizzata da una forte igroscopicità. Se il tasso di umidità relativa ambientale si attesta stabilmente al di sotto del 40%, la pergamena tende a cedere l’acqua libera che le serve da lubrificante, con forte diminuzione della sua naturale flessibilità, perdita della planarità e possibili infragilimenti strutturali. L’intervento consiste nell’iniziale rilassamento della struttura collagenica introducendovi molecole di acqua in una cella di umidificazione a ultrasuoni, e nella successiva eliminazione o riduzione delle deformazioni in fase di desorbimento. Quando lo stato di conservazione lo permette, il riassetto planare si ottiene mediante asciugatura sotto tensione su un telaio ligneo. Occorre, tuttavia, sottolineare che esiste un limite in­valicabile rispetto ai risultati ottenibili con tale metodica. Alcune ondulazioni sono, infatti, il risultato dello specifico assetto fibroso di una pelle, che tenderà quindi a conservare nel corso del tempo la memoria della morfologia originaria prodottasi durante l’accrescimento dell’animale, e solo parzialmente corretta nel corso della sua trasformazione in pergamena. Inoltre, specifiche limitazioni si impongono quando il materiale funga da supporto a un testo, e in particolare a una miniatura. In tal caso il trattamento potrebbe influenzare il grado di coesione e di adesione dei media grafici e dei pigmenti, nonché degli strati preparatori sottostanti. È dunque necessario valutare bene a priori la necessità effettiva di un intervento di reidratazione e tensionamento, per verificare cosa si può ottenere, tenendo in considerazione tutti gli aspetti costitutivi del manufatto nella loro specifica interrelazione.

La reidratazione del cuoio, per lo più impiegato su libri come materiale di copertura, aumenta il grado di elasticità e resistenza del materiale alle sollecitazioni di natura meccanica, che interessano in particolare l’area del dorso e le cerniere. L’intervento è strettamente dipendente dalla verifica, in sede diagnostica, del quantitativo di sostanze grasse presenti nel materiale. Se la percentuale di lubrificanti immessi nel corso della manifattura, o reintrodotti in interventi di manutenzione successivi, oscilla tra il 2% e il 5% in peso, si può optare per un trattamento di reidratazione in cella di umidificazione a ultrasuoni. Al di sotto della soglia minima (2%) è consigliabile eseguire anche un trattamento di lubrificazione con miscele di grassi e solventi (olio di piede di bue e lanolina anidra veicolati da un idrocarburo con tensione di vapore adeguata), appositamente selezionati per la loro stabilità e inerzia fisico-chimica (KB, ICN 1999; Iannuccelli 2001). L’umidificazione di supporti cartacei si esegue per preparare il materiale al trattamento di distacco di restauri o foderature inidonee, alla pulitura enzimatica o prima del lavaggio. Si esegue in cella di umidificazione a ultrasuoni o, per via indiretta, tramite contatto con membrane costituite da laminati di poliesteri e polieteri su cui si vaporizza acqua. Presso il Laboratorio di restauro dell’ICPAL è stata sviluppata una tecnica di reidratazione per apposizione diretta di un gel rigido di gomma di gellano che, oltre a essere impiegato nell’intervento di pulitura superficiale, può costituire una valida alternativa alle tecniche sopra descritte, consentendo di effettuare contestualmente un’umidificazione costante e controllata.

La stabilizzazione chimica dei materiali con sostanze tampone

Mentre la pergamena si dimostra generalmente più stabile rispetto a processi di degradazione idrolitica grazie alla naturale carica alcalina derivante dal processo di manifattura, il cuoio e la carta sono più frequentemente soggetti a processi di degradazione acida, che necessitano di specifici trattamenti volti a rallentare o bloccare le reazioni in corso. Una tipica manifestazione di degradazione di natura idrolitica sul cuoio è il red rot, originato dall’impiego di sostanze concianti più facilmente degradabili in presenza di agenti atmosferici inquinanti. La carta, in particolare quella prodotta a partire dalla metà del 17° sec., può contenere invece fonti di acidità intrinseche derivanti, per es., dall’impiego di allume nel corso della sua manifattura, utilizzato come additivo per la collatura (Zappalà, in Libri e documenti, 2007).

La stabilizzazione chimica dei supporti cartacei

La deacidificazione dei supporti cartacei è finalizzata a contrastare la degradazione idrolitica attraverso la salificazione degli acidi organici legati alle molecole della cellulosa che il trattamento di lavaggio non è riuscito a eliminare (Bicchieri, in Libri e documenti, 2007). L’intervento risulta efficace quando, ad asciugatura ultimata, la carta raggiunge un contenuto di cariche alcaline sufficienti a proteggere la cellulosa da futuri apporti di acidità. Lo si può eseguire in mezzo acquoso o in soluzioni alcoliche, secondo le caratteristiche e lo stato di conservazione del materiale. Tradizionalmente l’intervento viene effettuato mediante l’immersione dei supporti cartacei in soluzioni di bicarbonato di calcio in mezzo acquoso o di propionato di calcio in mezzo alcolico. È innovativo (Giorgi, Poggi, Baglioni 2008) un trattamento di deacidificazione tramite dispersione di nanoparticelle di idrossido di calcio in solventi apolari (fluorurati) o a bassa polarità (alcoli).

La deacidificazione dei supporti cartacei, sia che avvenga in mezzo acquoso oppure in mezzo alcolico, non consente di agire contestualmente sugli altri gruppi ossidati sviluppatisi sulla catena cellulosica. I gruppi carbonilici, chetonici e aldeidici presenti possono, invece, essere sottoposti a un trattamento di ossidoriduzione che è in grado di ridurre tali funzioni ossidate. Il prodotto riducente selezionato dal Laboratorio di chimica dell’ICPAL è il terz-butilamminoborano, che è in grado di solubilizzarsi e agire anche in mezzo alcolico, contrastando così la degradazione ossidativa e permettendo in tal modo il ripristino di legami idrogeno intercatena (Bicchieri, in Libri e documenti, 2007). Il trattamento con riducente produce inoltre, come effetto collaterale, un discreto aumento del grado di bianco del supporto, a tutto vantaggio del recupero della fruibilità estetica e della lettura del documento. Tale trattamento può essere effettuato contestualmente a quello di deacidificazione sia in mezzo alcolico sia in mezzo acquoso.

La stabilizzazione chimica dei cuoi antichi

Il trattamento si esegue solo su cuoi che manifestano un valore di pH inferiore a 3, e può essere effettuato introducendo una sostanza tampone (imidazolo) disciolta in un solvente apolare (cherosene inodoro o white spirit), fino al raggiungimento di un valore di pH non superiore a 4. Una metodologia alternativa prevede l’impiego di alcossidi di alluminio (derivati dell’isopropilato di alluminio) e offre una maggiore stabilità chimica nel tempo. L’alluminio svolge una duplice funzione: neutralizza l’acidità presente nella struttura fibrosa combinandosi con gli ioni solfato (formando solfato di alluminio) e stabilisce legami chimici con i tannini vegetali conferendo maggiore stabilità alle molecole di collagene (KB, ICN 1999).

Il risarcimento dei materiali

L’intervento comporta l’inserimento di materiali estranei rispetto al manufatto, ed è pertanto fondamentale valutare la sua effettiva necessità. Talvolta è, infatti, possibile rinunciare all’esecuzione pedissequa dei risarcimenti, quando il danno non comporti ulteriore pericolo di perdita e – soprattutto – se al manufatto sarà poi garantita un’attenta conservazione e una corretta manipolazione. Inoltre, scegliere di non intervenire su un danno fisico-meccanico può risultare di estremo interesse da un punto di vista filologico: non è raro, infatti, che alcuni elementi significativi da un punto di vista storico vengano evidenziati proprio dalla presenza di una lacuna che consenta di ispezionare, per es., gli strati sottostanti. Quando, invece, la perdita di materiale è localizzata in aree soggette a una manipolazione assidua, o comunque vi è il rischio che il danno peggiori nel corso del tempo, è necessario eseguire, oltre al risarcimento fisico-meccanico, anche un’integrazione cromatica che permetta all’osservatore di percepire un buon livello di uniformità tra i restauri e l’originale, evitando al tempo stesso un effetto perfettamente mimetico. La reintegrazione cromatica si esegue tradizionalmente all’acquerello o con apposite miscele di coloranti reattivi utilizzati nella tintura di materiali fibrosi per lo più in ambito tessile (Norton 2002). Le lacune presenti su carta antica sono di norma risarcite con carta giapponese, che possiede ottime caratteristiche di resistenza fisico-meccanica, elasticità e stabilità fisico-chimica. Questo materiale, estremamente versatile, risulta disponibile in un’ampia gamma di campionature, secondo la tipologia di fibre dell’impasto, la texture superficiale, la grammatura e le diverse tonalità di colore. La tecnica di reintegrazione consiste nell’adesione lungo i margini della lacuna di uno o più spesso due strati di carta o velo giapponese. In questi casi la classe di adesivi più utilizzata è quella degli eteri di cellulosa in soluzione acquosa, alcolica o idroalcolica. Talvolta, in caso di supporti o media grafici sensibili all’acqua o all’alcol, è possibile impiegare veli e carte giapponesi pretrattati con eteri di cellulosa e miscele di resine acriliche da attivare con acetone (Botti, Pascalicchio, in Materiali &prodotti per il restauro librario, 2010).

Un’alternativa alla tecnica manuale è il leaf casting (restauro meccanico), che prevede l’esecuzione del risarcimento a umido con un impasto di fibre di cellulosa mediante ponitrice meccanica. Un interessante sviluppo di questa tecnica si è avuto nel corso degli anni Ottanta del 20° sec., quando Robert Futernick pensò di sostituire la ponitrice meccanica con il tavolo aspirante. Nel decennio successivo, la tecnica del leaf casting, debitamente modificata, è stata saltuariamente adottata anche per reintegrazioni di pergamene, sebbene generalmente si preferisca, anche in questo caso, l’uso di carte giapponesi. Pur trattandosi di materiali intrinsecamente diversi tra loro, la dimostrata versatilità della carta giapponese e il simile assetto planare permettono l’esecuzione di risarcimenti su materiale membranaceo, garantendo un minimo livello d’interferenza. Talvolta se ne preferisce l’utilizzo anche nel restauro di coperte membranacee, poiché la carta giapponese, possedendo una maggiore duttilità rispetto alla pergamena, garantisce alle aree reintegrate una migliore flessibilità, che è requisito indispensabile soprattutto in quelle aree particolarmente soggette a sollecitazioni fisico-meccaniche. La metodica è in tutto simile rispetto ai risarcimenti su supporti cartacei, sebbene in tal caso si prediligano adesivi più tenaci, quali colle d’amido di riso, di grano o di mais modificato. Per la sutura di strappi o tagli su pergamene manoscritte si ricorre invece al peritoneo bovino, una membrana molto sottile, ottenuta per tensionamento, previo sgrassaggio e pulitura con soluzioni saline (Kite, Thomson 2006). Oltre che con carta giapponese, i risarcimenti possono comunque essere eseguiti anche con pergamena tramite intarsio. La tecnica comporta l’assottigliamento perimetrale delle aree da risarcire al fine di garantire solidità e uniformità nelle zone di sovrapposizione con la pergamena nuova, appositamente sagomata: quest’ultima deve, inoltre, essere scelta con estrema cura tra campionature prodotte rigorosamente a mano, selezionando pergamene realizzate a partire da pelli di animale simili all’originale, e impiegandone parti provenienti da un’area anatomica analoga a quella precedentemente individuata sul materiale da risarcire. Gli adesivi di norma utilizzati in questo caso sono colle di origine proteica.

La reintegrazione di lacune e lacerazioni su coperte in cuoio si effettua tradizionalmente con la tecnica dell’intarsio, che consiste nell’adesione dal lato carne di cuoio nuovo, appositamente selezionato. Spesso si utilizza cuoio di vitello, indipendentemente dalla specie animale di provenienza dell’originale, poiché il suo strato dermico è contraddistinto da un’ottima resistenza fisico-meccanica; inoltre, l’uniformità della sua texture superficiale rende questo materiale esteticamente meno invasivo rispetto ai cuoi di altra origine, caratterizzati da una grana più evidente. Altro parametro importante da tenere in considerazione è il tipo di concia. Il materiale migliore è il pellame trasformato in cuoio tramite un processo di semiconcia al vegetale, con tannini idrolizzabili, e una seconda fase di concia con alcossidi di alluminio. Si esclude, perciò, a priori l’impiego di materiale conciato con tannini condensati, i quali sono soggetti a una repentina e irreversibile instabilità chimico-fisica. L’adesivo di norma impiegato è la colla d’amido modificato di mais ad alta concentrazione, che consente di ovviare a eventuali imbrunimenti del cuoio.

Consolidamento strutturale delle legature

Questa tipologia di interventi è finalizzata a limitare e – quando possibile – bloccare il progredire di forme di degradazione, per lo più fisico-meccaniche, che interessano le componenti strutturali della legatura. Per valutare con attenzione l’effettiva necessità di un intervento e pianificarlo correttamente, è fondamentale identificare le origini della degradazione in atto, perché l’intervento sarà efficace solo se si riesce a ridurne o rimuoverne le cause. Anche quando l’origine di un danno risieda nell’errata concezione progettuale del manufatto stesso, l’esecuzione di un intervento non invasivo deve limitarsi al solo consolidamento dei danni presenti, senza interferire eccessivamente con l’originalità della struttura, la cui permanenza in buono stato dovrà essere garantita piuttosto da una cauta attività di consultazione (Sotgiu 2005). La verifica dello stato di conservazione si esegue ripercorrendo idealmente le fasi di realizzazione del manufatto, realizzando se necessario dei facsimilia. Si inizia perciò dall’esame della cucitura e dei capitelli, che costituiscono la struttura portante del volume, su cui di norma si scaricano tensioni di natura statica e dinamica. I materiali e le tecniche esecutive testimoniate dai volumi a noi pervenuti sono assai diversificate secondo la localizzazione geografica e il periodo storico di manifattura (Szirmai 1999), ma la funzione svolta (anche quando si tratti di legature prive di supporti di cucitura) consiste nel sostenere il peso della compagine sullo scaffale e nell’assorbire, con un certo grado di elasticità, l’azione di contrazione ed espansione della struttura in fase di apertura, consultazione e chiusura del volume. Il consolidamento strutturale di queste componenti si esegue preferibilmente con tecniche meccaniche, tramite l’impiego di aghi e/o lesene e filati in fibra naturale, quali il lino, la canapa e, talvolta, il cotone non trattati, mentre gli interventi su altre aree critiche (quali le cerniere e l’indorsatura) si eseguono in fasi successive, partendo dal rinforzo dei nervi di cucitura con supporti ausiliari in pelle allumata, sfruttati anche per rinsaldare l’ancoraggio del volume alle assi. In questa tipologia di intervento è di cruciale importanza la selezione di materiali idonei, e in particolare di adesivi che offrano buone prestazioni meccaniche di resistenza, elasticità e durevolezza nel corso del tempo (per lo più colle di amido di mais modificato ed eteri di cellulosa ad alta concentrazione). Si evita, in tal modo, un eccessivo irrigidimento della struttura e in particolare del dorso, prevenendo, in apertura del volume, la formazione di fratture longitudinali che possono ripercuotersi esternamente sulla coperta e internamente sui nervi di cucitura. Da ultimo, si provvede al risarcimento dei materiali di copertura con intarsi in situ, evitando, se possibile, il distacco totale della coperta.

Su legature in cartoncino o in pergamena, flosce o semiflosce (16°-18° sec.), gli interventi di conservazione sopra descritti si realizzano, generalmente, previo distacco totale del materiale di copertura, di norma collegato meccanicamente al volume tramite il passaggio dei supporti di cucitura e dei capitelli in appositi fori e l’adesione delle sole controguardie. Per danni localizzati lungo le aree delle cerniere, una valida alternativa, concepita per materiale più recente o comunque provvisto di quadranti in cartone, consiste nel board slotting: una tecnica ideata da Christopher Clarckson e successivamente perfezionata da altri conservatori (Peachey 2006), che prevede l’inserimento di materiali di rinforzo applicati sul dorso all’interno di una sede realizzata meccanicamente (tramite una lama circolare) nello spessore dei piatti.

Si conclude questa sintetica disamina metodologica sottolineando come le tecniche qui succintamente esposte non possano di per sé garantire l’esecuzione di un intervento non invasivo. Il presupposto irrinunciabile di quest’ultimo risiede, infatti, nell’esecuzione di un progetto conservativo interdisciplinare, realizzato ad hoc per ogni singolo documento. Risulta, pertanto, necessario rinunciare, per quanto possibile, a soluzioni standardizzate che rischiano di cancellare le vestigia di una specifica cultura materiale e artigianale, testimoniata dal documento nella sua integrità e che l’intervento di conservazione deve sempre garantire intatta ed eventualmente valorizzare.

Bibliografia

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Materiali & prodotti per il restauro librario. Nuove ricerche, a cura di R. Rotili, Roma 2010 (in partic. F. Botti, F. Pascalicchio, Resine acriliche nel restauro di libri e documenti, pp. 33-72; S. Iannuccelli, S. Sotgiu, La pulitura superficiale di opere grafiche a stampa con gel rigidi polisaccaridici, pp. 73-94).

Si veda inoltre:

J.S. Peachey, New possibilities for board slotting, «The bonefolder. An e-journal for the bookbinder and book artist», 2006, 2, 2, pp. 28-32, http://www.archive.org/download/TheBonefolderE-journalForTheBookbinderAndBookArtist/BonefolderVol2No2.pdf (14 luglio 2010).