ANTONIONI, Michelangelo

Enciclopedia del Cinema (2003)

Antonioni, Michelangelo

Altiero Scicchitano

Regista cinematografico, nato a Ferrara il 29 settembre 1912. Considerato uno dei massimi autori del dopoguerra, tra difficoltà produttive e malgrado l'incomprensione del pubblico ha ottenuto il riconoscimento internazionale con Il grido (1957) e L'avventura (1960), quest'ultimo vincitore del premio speciale della giuria al Festival di Cannes. Sono seguiti La notte (1961), L'eclisse (1962), premio speciale della giuria al Festival di Cannes, e Deserto rosso (1964), Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia. A partire da Blow-up (1966), vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1967, e Professione: reporter (1975), girati in lingua inglese, ha approfondito la ricerca di innovazioni formali, nel tentativo di rappresentare, non solo narrativamente, i conflitti dell'individuo alle prese con una realtà sempre più inafferrabile.

Proveniente da una famiglia medio-borghese, durante gli studi in economia e commercio animò un gruppo teatrale, fondò un circolo letterario con G. Bassani e L. Caretti e si avvicinò al cinema collaborando come critico al "Corriere padano". Nel 1939 si trasferì a Roma, dove frequentò per alcuni mesi il Centro sperimentale di cinematografia ed entrò nella redazione di "Cinema". All'inizio degli anni Quaranta, collaborò alla sceneggiatura di Un pilota ritorna (1942) di Roberto Rossellini e lavorò come aiuto regista di Marcel Carné nella Francia occupata. Tornato in Italia, realizzò nel 1943 un breve documentario nella sua terra d'origine, Gente del Po, che con Ossessione di Luchino Visconti viene considerato il primo esempio di cinema neorealista, ma la guerra gli impedirà fino al 1947 di terminarne il montaggio. Nel dopoguerra riprese l'attività di critico e sceneggiatore (Caccia tragica, 1947, di Giuseppe De Santis, e successivamente Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini). Alcuni suoi cortometraggi documentari, quali N.U. (Nettezza Urbana) (1948) e L'amorosa menzogna (1949) destarono frattanto l'attenzione della critica. In essi, come in Gente del Po, si trovano già alcune delle principali caratteristiche della poetica di A., e più precisamente il desiderio di rottura con la narrazione classica, tramite un montaggio che privilegia una discontinuità più vicina allo scorrere dell'esistenza che alla logica della causalità. È questa una tensione contraddittoria che segnerà più tardi il cinema di A.: da una parte, il rifiuto di rispettare la tradizionale successione dei fatti e la coerenza prevedibile dei comportamenti, dall'altra l'inseguimento, il pedinamento quasi (il piano-sequenza è la cifra stilistica più evidente) dei personaggi nei tempi morti, con un'attenzione più rivolta agli effetti prodotti dagli eventi che agli eventi stessi, ai sintomi che alle cause.Nel 1950, A. realizzò il suo primo film a soggetto, Cronaca di un amore, dramma dalle venature gialle ambientato nella borghesia di Milano e Ferrara. I vinti (1953), film a episodi sulla crisi della gioventù europea del dopoguerra, e La signora senza camelie (1953), feroce rappresentazione del mondo del cinema, segnarono l'inizio delle difficoltà con la critica e la censura. Seguirono Le amiche (1955), tratto liberamente da un racconto di C. Pavese, e Il grido, che racconta il vagabondaggio nella Pianura padana di un operaio disoccupato e abbandonato dalla compagna, fino al suicidio. Quest'ultimo film rappresenta forse l'apice della prima fase creativa di A., e si avvale dell'affascinante fotografia di Gianni Di Venanzo: nel paesaggio nebbioso e nell'architettura industriale è figurato chiaramente il rapporto tra individuo e sfondo che sarà uno dei principali temi visivi dei film seguenti. Dopo aver attraversato molte difficoltà produttive, A. riuscì a realizzare L'avventura, presentato a Cannes nel 1960. Alla proiezione, il film provocò reazioni estreme di plauso o di rigetto. Con questa opera, ispirata a un evento realmente accaduto (una ragazza scomparsa misteriosamente nelle isole Eolie e mai più ritrovata), A. ottenne la definitiva attenzione della critica mondiale, prima fra tutte quella francese che coniò la definizione di neorealismo interiore (il regista stesso parlerà di 'neorealismo senza bicicletta'). La notte e L'eclisse completano la 'trilogia esistenziale' di Antonioni. Il regista proseguì la sua ricerca di nuove forme sperimentando per la prima volta il colore con accentuazioni espressionistiche in Deserto rosso.Grazie alla raggiunta fama internazionale, firmò un contratto con la Metro Goldwyn Mayer per tre film in lingua inglese. Il primo è Blow-up, ambientato a Londra e unico vero successo di pubblico di Antonioni. Liberamente adattato da un racconto di J. Cortázar, il film segna una data fondamentale nella storia del cinema. A partire da una trama gialla (la scoperta di un omicidio nel dettaglio ingrandito di una fotografia), A. osserva borgesianamente l'ambiguità del reale e obbliga lo spettatore ad accettarne la frustrante imperscrutabilità. Il tema verrà ripreso più volte da altri registi, come metafora per eccellenza del cinema e della sua commistione inestricabile di vero e falso (basti pensare a The conver- sation di Francis Ford Coppola, a Blow out di Brian De Palma, o alla sequenza dell'ingrandimento computerizzato in Blade runner di Ridley Scott).

Nel 1970 A. realizzò negli Stati Uniti Zabriskie Point. Sul film gravano cascami ideologici e moralistici già presenti nelle descrizioni della swinging London di Blow-up, ma resta celebre la sequenza finale, che riprende a varie velocità e da 17 punti di vista diversi l'esplosione di una villa di F. L. Wright, capolavoro d'architettura già usato da Alfred Hitchcock in North by Northwest. Dopo aver girato assieme ad Andrea Barbato un documentario sulla Cina della Rivoluzione culturale (Chung Kuo ‒ Cina, 1972), A. diresse Jack Nicholson in Professione: reporter, un'amara riflessione sul tema del doppio, ambientata in Africa e nella Barcellona di A. Gaudí. Anche qui è la scena finale a essere memorabile: un lungo piano-sequenza tecnicamente prodigioso (la macchina da presa attraversa letteralmente una grata), che ha lo scopo contrario rispetto a quello ricercato dalla stessa figura di stile nell'A. dei primi anni: non si tratta più di inseguire i personaggi, di pedinarli costantemente, ma di allontanarsi da essi a tutti i costi, in un movimento di fuga. A. si cimentò anche con il mezzo televisivo, realizzando da un testo teatrale di J. Cocteau (L'aigle à deux têtes) un lungometraggio in digitale, Il mistero di Oberwald (1980), ma l'esperienza lo lasciò insoddisfatto. Tornò al cinema con Identificazione di una donna (1982), ma problemi di salute e difficoltà produttive hanno poi di fatto impedito la sua presenza fino al 1995, quando grazie all'aiuto di Wim Wenders è riuscito a realizzare un film a episodi, Al di là delle nuvole, tratto da alcuni racconti presenti nella sua raccolta Quel bowling sul Tevere (1983). A. ha inseguito lungo tutta la sua opera una realtà che sembra sfuggire prima allo sguardo, poi all'analisi e al giudizio. Per questo l'etichetta di regista fenomenologo, soprattutto se usata in senso behavioristico, si rivela limitata, o comunque calzante solo per quanto riguarda alcuni elementi non sempre riusciti dell'opera (un po' invecchiata appare oggi la tendenza in alcuni film a rincorrere in modo cronachistico mode, costumi e comportamenti). Negli anni Sessanta, si è voluto ridurne la poetica ai suoi contenuti più appariscenti, racchiudendola dentro le categorie ‒ discusse fino a divenire oggetto di parodico scherno ‒ della 'alienazione'e della 'incomunicabilità': una lettura che oggi sembra eccessivamente sociologica, per non dire fuorviante. La struttura stessa dell'inchiesta o del giallo, che caratterizza molti film di A., incarna narrativamente il desiderio di indagare aspetti del reale che tendono a sottrarsi continuamente, lungi dal compiacimento di chi ne accetta a priori l'ambiguità. È dal conflitto più o meno dichiarato tra l'ambizione di un tutto visibile e la ricerca di una verità nascosta nelle cose e nei personaggi (tema evidente in Blow-up, con il cadavere che appare e scompare senza che l'ingrandimento riesca a provarne con certezza l'esistenza effettiva) che A. ottiene i risultati migliori e non a caso celebri, dando prova di un inesauribile inventività tecnica e stilistica. L'avventura è girato all'insegna di un'illimitata visibilità del reale, ottenuta grazie alla scelta di obiettivi a focale relativamente corta che permettono di conservare profondità di campo anche nei primi piani e di restituire con precisione contorni e profili. Eppure, a tale scelta fotografica viene contrapposta una opacità di significati, come se la macchina da presa non riuscisse a carpire il mistero (che non è solo quello della donna scomparsa sullo scoglio di Lisca Bianca) di una realtà che pure si concede interamente come oggetto visibile. Viene così a manifestarsi un sentimento di vacuità nell'individuo di A., spesso senza passato biografico, e sempre privo di memoria storica (fatto non irrilevante, se si considera che il periodo di maggiore attività del regista copre un lasso di tempo che va dal dopoguerra alla contestazione studentesca, passando per il boom economico degli anni Sessanta), confrontato con uno sfondo 'ottuso', sociale e fisico, che non riesce mai a modificare. Uno sfondo preesistente, naturale (l'isola di L'avventura), artificiale (il paesaggio industriale in Deserto rosso), o ambedue (il parco dell'East End in Blow-up), che tenderà man mano a prendere il sopravvento sul personaggio, in un processo di maligna astrazione mai pienamente risolto ma sempre in agguato (il regista ha più volte dichiarato di essere tentato dal cinema astratto, ma ancora una volta la sua potenzialità sembra affascinarlo più del salto deciso). Così, la nebbia di Il grido e la luce abbacinante delle Eolie in L'avventura finiscono per inghiottire i protagonisti quando essi non vengono ripresi in primo piano. Fin dall'inizio non si contano gli indugi della macchina da presa prima e dopo che il personaggio ha abbandonato l'inquadratura, per non parlare delle sequenze in cui un quartiere o un'intera città appaiono deserti (la cittadina fantasma nella Sicilia di L'avventura o il finale di L'eclisse). A partire da Blow-up la scelta si fa ancora più netta, conferendo ad alcune sequenze un sapore fantastico: alla fine del film il protagonista scompare letteralmente dall'inquadratura; Zabriskie Point trova invece uno dei suoi culmini nella sequenza erotica ambientata nella Valle della Morte; l'esecuzione del giornalista di Professione: reporter avviene fuori campo mentre la cinepresa, dopo aver sfidato le leggi naturali, inquadra uno spiazzo misero (forse per evitare di finire assassinata assieme alla sua creazione: "fare un film è per me vivere" è infatti una delle più note dichiarazioni del regista); infine, Identificazione di una donna si chiude con una lunga inquadratura del sole.

Il rifiuto precocissimo della forma tradizionale del narrare trova quindi in A. un'espressione puramente cinematografica: nel liberare i tasselli narrativi dalle connessioni di causa ed effetto, opponendo alla continuità imposta dal montaggio quella del piano-sequenza spinto oltre l'estenuazione, nella sottile descrizione di comportamenti non prevedibili ma sempre verosimili, nel rifiuto dell'evento drammatico, privilegiando i momenti precedenti o successivi, infine nella desertificazione progressiva dell'inquadratura. Già in L'avventura, basta che la macchina da presa si allontani dai protagonisti perché essi siano persi di vista, indistinti nell'assoluta nitidezza del paesaggio, che equipara tutto a reale fuorché, forse, l'individuo stesso. E così avviene alla fine di Blow-up, dove perfino una partita a tennis mimata riesce a concretizzarsi grazie alla colonna sonora che restituisce il rumore della palla mentre è il protagonista a svanire dal campo visivo.Tra le numerose edizioni delle sue sceneggiature da ricordare Deserto rosso (1964) e Professione: reporter (1975), curate da C. Di Carlo, Zabriskie Point (1970), con introduzione di A. Moravia, L'avventura (1989), a cura di S. Chatman e G. Fink, e la raccolta Sei film. Le amiche, Il grido, L'avventura, La notte, L'eclisse, Deserto rosso (1964). A. è autore, oltre che di racconti, anche di saggi come la raccolta a cura di C. Di Carlo e G. Tinazzi Fare un film è per me vivere ‒ Scritti sul cinema (1994).

Bibliografia

P. Leprohon, Michelangelo Antonioni, Paris 1969.

R. Barthes, Cher Antonioni…, in "Cahiers du cinéma", mai 1980 (ora in R. Barthes, Œuvres complètes, t. 3, Paris 1995).

S. Chatman, Antonioni or the surface of the world, Berkeley 1985.

G. Deleuze, L'image-temps, Paris 1985.

Ente Gestione Cinema, Michelangelo Antonioni, Roma 1987.

J. Giaume Mayet, Michelangelo Antonioni. Le fil intérieur, Paris 1990.

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