Michelangelo pittore

Enciclopedia on line

Cristina Acidini

La formazione

Quando Michelangelo Buonarroti morì a Roma il 18 febbraio 1564, alla prodigiosa età di ottantanove anni, i protagonisti della politica, della religione, della cultura e delle arti del tempo furono concordi nel percepire e nell’affermare che era scomparso un uomo eccezionale, che aveva riunito in sé la padronanza delle tre arti «maggiori» a livelli eccelsi ed era inoltre stimato poeta e letterato. Nel rendergli omaggio con un funerale di Stato il 14 luglio 1564 nella basilica di San Lorenzo, chiesa di famiglia dei Medici, Firenze si inchinava riconoscente, attraverso il grande lavoro degli Accademici delle Arti del Disegno sostenuti dal duca Cosimo, «all’eccellenza e virtù del maggior pittore, scultore et architettore che sia mai stato»1.

La sua propensione per le arti si era manifestata in giovanissima età, come una vocazione irresistibile. Nato a Caprese, presso Anghiari, nell’Aretino, il 6 marzo 1475, era figlio di Ludovico Buonarroti Simoni, che vantava antiche e nobili origini, ritenendosi imparentato con i conti di Canossa; ma era solo un funzionario della Repubblica fiorentina, in quel tempo nel ruolo di podestà. La madre Francesca di Neri di Miniato del Sera, morendo nel 1481, lasciò presto orfano Michelangelo con i suoi quattro fratelli.

In età avanzata l’artista – che si considerava principalmente scultore – asserì d’aver succhiato l’inclinazione alla scultura con il latte della balia, che era figlia e moglie di scalpellini di Settignano, il borgo sotto Fiesole famoso per le cave della bella pietra serena, che vi veniva estratta e lavorata: «Il latte della nutrice in noi ha tanta forza, che spesse volte, trasmutando la temperatura del corpo, d’una inclinazione ne introduca un’altra, dalla natural molto diversa»2. Tuttavia, la prima forma di apprendistato artistico fu sperimentata da Michelangelo nel campo della pittura. Messo a imparare la «grammatica» da Ludovico, che sognava per il figlio una carriera giuridico-umanistica, il ragazzo verso i dodici anni si esercitava di nascosto nel disegno, fondamento di tutte le arti. Nella scelta di questa strada fu contrastato duramente dal padre, che vedeva nel mestiere di artista un regresso sociale, ma trovò l’appoggio di un amico pittore maggiore di sei anni, Francesco Granacci, che lo introdusse in una delle maggiori botteghe fiorentine, quella dei Ghirlandaio, guidata da Domenico. Il 28 giugno 1487 Michelangelo riscosse il credito mensile del Ghirlandaio per l’Adorazione dei Magi dello Spedale degli Innocenti. In seguito fu stipulato fra Ludovico Buonarroti e Domenico e David Ghirlandaio un contratto di cui si ha notizia grazie a Giorgio Vasari, che lo vide presso il figlio di quest’ultimo, Ridolfo3. Al tirocinante fu riconosciuto un rango speciale fin dagli esordi, poiché egli veniva compensato dal maestro con un «giusto e onesto salario» (otto fiorini l’anno per tre anni), anziché pagare il maestro com’era più comune usanza. Il disegno e la pittura su tavola e a fresco sul muro furono certo fra gli insegnamenti impartiti.

L’eccezionale apprendista, secondo il Vasari, si permise di correggere un disegno di figura femminile del maestro, che in vecchiaia avrebbe ricordato come «invidiosetto» ed egoista. In quegli anni Novanta la bottega ghirlandaiesca era impegnata nel gran cantiere di pittura murale della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, ma si è finora rivelato impossibile identificare zone di pittura riconducibili al nostro artista. Al Vasari dobbiamo la descrizione di un suo disegno (forse esistito solo nella finzione letteraria), raffigurante il ponteggio per gli affreschi in Santa Maria Novella, con gli attrezzi e i giovani all’opera, di fronte al quale il Ghirlandaio sarebbe rimasto sbigottito4.

In età avanzata però, Michelangelo tenne a sottolineare – entro la costruzione del mito di se stesso come artista senza maestri – che l’insegnamento più autentico gli era giunto dai muri delle cappelle fiorentine, dove poteva studiare e copiare gli affreschi di Giotto e di Masaccio: versione confermata dall’esistenza di suoi disegni giovanili, tratti da opere d’arte del Gotico e del primo Rinascimento. D’altronde, lo studio dai maestri delle generazioni precedenti era tutt’altro che inusuale nelle botteghe fiorentine. Un curioso episodio riferito dal Condivi, il biografo che più direttamente raccolse i ricordi del Buonarroti, riguarda la contraffazione di un disegno antico, che il giovane Michelangelo avrebbe copiato fedelmente invecchiando poi il foglio col fumo, così da ingannare perfino il proprietario.

La copia da Schongauer

Un esercizio ben diverso, per così dire interpretativo e creativo, ebbe per modello, sempre secondo i biografi, un’incisione di Martin Schongauer da Colmar raffigurante Le tentazioni di Sant’Antonio(variamente datata a partire dal 1470). Nel periodo di apprendistato Michelangelo, su suggerimento del Granacci, non solo la copiò su una tavola di legno delineando i contorni, ma colorì attribuendo al santo e all’orrendo viluppo di demoni tinte di sua fantasia. È probabile che il giovanissimo pittore fosse attratto dal nodo dei corpi in volo, deformati – quelli dei diavoli – in angolazioni sforzate e in attitudini feroci. Secondo il Condivi, per rendere in pittura i caratteri di bizzarra mostruosità dei diavoli Michelangelo, in cerca di modelli naturali, «andatosene in pescheria, considerava di che forma e colore fusser l’alie de’ pesci, di che colore gl’occhi e ogn’altra parte»5. Se autentico, l’aneddoto farebbe luce su un iniziale interesse del Buonarroti per l’imitazione di elementi del mondo animale studiati sul vero, quale poi non si sarebbe più ritrovato nel suo corpus di pittore, concentrato in modo quasi esclusivo sulla figura umana. Non si può escludere d’altronde, guardando la balena del Giona nella volta della Cappella Sistina così somigliante a un luccio, che Michelangelo dedicasse qualche occasionale attenzione ai pesci di fiume, dai quali avrebbe tratto i profili sfrangiati delle ali e le iridescenze delle epidermidi6.

Ammirata già dai contemporanei, la tavola viene oggi identificata da una parte della critica nel quadro acquistato nel 2009 dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas, che era stata mostrata a Firenze dieci anni prima, entro il contesto dell’attività giovanile di Michelangelo come una fedele testimonianza quattrocentesca di questo esercizio, prossima al dipinto originale scomparso7. Vengono fatti osservare elementi a favore dell’autografia michelangiolesca: il dipinto è più grande dell’incisione e la composizione non appare riportata tramite quadrettatura, anzi disegnata a mano libera, con pentimenti; la tecnica è compatibile col Ghirlandaio: rispetto all’originale la composizione è più compatta; i demoni denotano l’osservazione di pesci e animali repellenti. È poi data molta importanza alla veduta acquatica vista dall’alto con rupi in primo piano, un’invenzione ex novo del pittore della tavola, di cui vengono sottolineate le affinità con i paesaggi del Ghirlandaio e del Granacci8. Ma, per esempio, il modo d’alleggerire l’azzurrino delle montagne fino all’evanescenza e di scaldare i contorni delle figure illuminandoli di riflessi rossi non sconverrebbe a Piero di Cosimo. Un tratto ‘fiorentino’ ulteriore sarebbe da vedere nel bastone del diavolo-pesce a sinistra, che nel dipinto sprigiona lingue di fuoco (nell’incisione no), e in questo modo rammenta l’impresa medicea del «broncone» spirante fiamme. Pur nella difficoltà di corroborare l’attribuzione a Michelangelo, essendo impossibili dei confronti puntuali, resta interessante l’esistenza di questo esercizio grafico-pittorico coerente con i racconti dei suoi biografi. Dai documenti si sa che esiste un’altra copia colorata dal foglio tedesco, forse coincidente con una versione in collezione privata a Roma, che mostra un ductus pittorico cinquecentesco di più smagliante cromia.

A completamento di una formazione precoce e versatile, dopo i tre anni trascorsi con i Ghirlandaio, Michelangelo fu accolto nella cerchia del massimo protettore degli artisti di Firenze, Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico, predominante nella politica e nell’economia della città toscana. Per due anni, dal 1490 alla morte di Lorenzo nel 1492, Michelangelo poté prendere visione diretta delle fonti originali della cultura visiva improntata alla reviviscenza della scultura antica: le preziose gemme e gli inestimabili vasi in pietre dure del Tesoro, i marmi e i bronzi antichi acquistati a caro prezzo dai Medici e divisi tra il palazzo di famiglia in via Larga e il Giardino pure mediceo presso San Marco. In quest’ultimo luogo, che con ogni probabilità ospitava marmi antichi, erano ammessi giovani artisti di talento a esercitarsi nel disegno da quei prestigiosi modelli giovani, con la guida dell’anziano Bertoldo di Giovanni, l’ultimo allievo di Donatello.

Risalgono al periodo del Giardino le due prime sculture a noi note, la Madonna della Scala e la Battaglia dei Centauri e Lapiti – entrambe in marmo ed entrambe nel museo di Casa Buonarroti a Firenze –, in cui il giovane scultore mostra il suo debito ai modelli offerti dai rilievi antichi e da Donatello, ma anche la sua potente e spiccata personalità. Una testa di fauno vecchio, scolpita sotto l’occhio bonario e vigile di Lorenzo il Magnifico, si crede perduta.

Studi anatomici e viaggi

La morte prematura di Lorenzo (l’8 aprile 1492) privò Michelangelo del protettore influente che lo aveva ammesso nelle proprie dimore e collezioni. Ebbe inizio allora per il giovane artista una serie di spostamenti e di viaggi, con la famiglia a Firenze come costante punto di riferimento, anche se tra le incomprensioni e le tensioni che per tutta la vita avrebbero caratterizzato il rapporto con il padre Ludovico. Tra le esperienze decisive di quegli anni difficili fu certamente il soggiorno fra il 1492 e i primi del 1494 presso il convento agostiniano di Santo Spirito, dove lo ospitò il priore Nicolò di Lapo Bichielli. Qui Michelangelo poté studiare l’anatomia umana attraverso la dissezione dei cadaveri provenienti dall’ospedale, che segretamente gli venivano messi a disposizione in una stanza: «ebbe col detto priore molto intrinseca pratica, sì per ricever da lui molte cortesie, sì per essere accomodato e di stanza e di corpi da poter fare notomia, del che maggior piacer far non gli si poteva»9. La conoscenza del corpo, e specialmente della muscolatura che ne determina e ne asseconda i movimenti, fu fondamentale per ogni successiva manifestazione artistica di Michelangelo, incardinata – in pittura come in scultura – sulla figura umana come somma espressione della Creazione.

Il corpo di Cristo, nel quale la natura divina prende la sembianza umana più alta e perfetta, proprio in Santo Spirito fu celebrato da Michelangelo scolpendo quale dono al priore un Crocifisso in legno, che probabilmente egli stesso dipinse con accurata policromia. La figura affusolata, percorsa da un’onda armonica di rotazioni e di torsioni, corrisponde ai criteri di dolcezza e delicatezza prescritti per raffigurare Cristo dal veemente predicatore domenicano fra’ Girolamo Savonarola, il quale fino alla scomunica e al rogo, nel 1498, scosse la città con i suoi sermoni apocalittici e visionari, che Michelangelo in vecchiaia dichiarò di ricordare vividamente.

Da Santo Spirito, Michelangelo tornò nel palazzo dei Medici nel gennaio 1494 ma, stimando poco Piero di Lorenzo e temendo i rivolgimenti politici annunciati, fuggì prima della cacciata dei Medici, il 9 novembre 1494, per recarsi a Bologna. Qui (dopo un breve viaggio a Venezia) si stabilì per oltre un anno sotto la protezione di Giovan Francesco Aldrovandi, che gli ottenne la commissione per tre statue marmoree per l’Arca di San Domenico, nella chiesa omonima, lasciata incompiuta a causa della morte dello scultore Niccolò detto dell’Arca: un Angelo reggicandelabro, San Petronio, San Procolo. È più che probabile che in quell’anno oltre Appennino Michelangelo facesse tesoro delle opportunità di vedere opere d’arte, comprese quelle dei pittori ferraresi Ercole de’ Roberti e Francesco del Cossa che lasciarono certo su di lui durature impressioni, specie in ragione della saldezza plastica e quasi minerale dei corpi e dei panneggi.

Tornato a Firenze per il Natale del 1495 e riavvicinatosi ai Medici del ramo detto ‘Popolano’ ch’erano rimasti dopo la cacciata di Piero, Michelangelo scolpì un Cupido dormiente in marmo, descritto dal Condivi come «un Dio d’amore, d’età di sei anni in sette, a iacere in guisa d’uom che dorma», che seguendo il consiglio di Lorenzo di Pierfrancesco Medici l’artista fece vendere al cardinal Raffaele Riario a Roma, come pezzo antico di scavo. Ebbe inizio così, con questa ingenua falsificazione, la prima grande avventura romana di Michelangelo perché il cardinale, scoperto ben presto l’inganno, volle conoscere l’abile scultore e lo fece trasferire a Roma presso il banchiere di sua fiducia, Jacopo Galli.

Cinque anni durò questo primo soggiorno romano dell’artista, dal 1496 al 1501, sufficienti a farlo diventare famoso grazie ad alcune sculture in cui, per unanime consenso, si riconoscono i suoi primi capolavori: per Jacopo Galli il Bacco oggi nel Museo Nazionale del Bargello a Firenze e un Cupido-Apollo (lo si crede l’Arciere di New York); per il cardinale Jean de Bilhères-Lagraulas la Pietà, passata dall’antica cappella dei re di Francia alla basilica di San Pietro. A Firenze sarebbe tornato nel 1501, per il desiderio di farsi assegnare il grande blocco di marmo abbandonato nel cortile dell’Opera del Duomo, da cui avrebbe ricavato il David.

È a questo primo periodo romano che vengono riferiti, sia pure con ampi margini di dubbio, due dipinti su tavola a lui attribuiti: gli unici dipinti su tavola, oltre al certissimo Tondo Doni nella Galleria degli Uffizi a Firenze, credibili come suoi. Il primo è la cosiddetta Madonna di Manchester, una Madonna col Bambino, san Giovannino e quattro angeli (Londra, National Gallery), per la quale viene proposta la data del 1497. L’attribuzione ha oscillato a lungo da Michelangelo a un suo seguace, il Maestro della Madonna di Manchester, variamente identificato e probabilmente, a causa dei suoi stilemi ferraresi, sovrapponibile al collaboratore e domestico Piero d’Argenta.

Nel suo evidente stato d’incompiutezza, il dipinto si presenta discontinuo, con parti molto avanzate e altre, al contrario, allo stato di segno grafico o di preparazione. La composizione, che a prima vista rinvia alle Madonne fiorentine (botticelliane o lippesche) della fine del Quattrocento, è di originale complessità, con la Madonna seduta su una pietra sorgente da una piattaforma di roccia, il Bambino che scala le sue ginocchia per sottrarle il libro, san Giovannino incuneato di lato, e due coppie di angeli lettori o cantori in atteggiamenti di solidale confidenza, con gesti e pose che paiono anticipare i nudi del Tondo Doni e i fanciulli presso i Veggenti della Volta Sistina. Il seno di Maria, che allude all’allattamento e dunque alla carnalità del Dio fatto Uomo, è esposto, ma non è alla fonte del nutrimento che il Bambino tende: scalando il panneggio della veste materna con decisione mira invece al libro e lo afferra infilandovi le dita in un gesto quanto mai originale, con risvolti teologici. Il motivo dinamico del bambino teso verso un oggetto ricorreva in quegli anni negli studi di Leonardo da Vinci, con il quale Michelangelo manteneva sempre aperto il confronto.

Dal punto di vista tecnico, l’esecuzione del quadro viene ritenuta affine ai dipinti del Ghirlandaio, compresa la stesura a base di terra verde sotto gli incarnati, secondo un uso ormai in via di scomparsa10. Anche se parti di colore sono alterate o mancanti, vi sono passaggi pittorici compatibili con la futura maniera di Michelangelo negli incarnati plasticamente modulati, nelle chiome ricce e compatte, negli accenni di cangiantismo. E non mancano tratti di somiglianza con sculture come il Bacco (l’angelo esterno a destra), la Madonna di Bruges (la Madonna e il Bambino), il David-Apollo e altre «figure serpentinate» (l’angelo esterno a sinistra). Questi confronti con le creazioni di Michelangelo degli anni 1494-1504 fanno ritenere che il quadro sia suo; resta ignoto il committente e si propongono la data del 1497 e l’ubicazione a Roma, con la quale non contrasta la presenza, due secoli dopo, del dipinto nelle raccolte Borghese.

Un altro quadro che, come il precedente, vien riferito incertamente a Michelangelo giovane (e in alternativa, al Maestro della Madonna di Manchester) è il dipinto su tavola noto come Entombment, il Seppellimento di Cristo o la Deposizione nel sepolcro, anch’esso nella National Gallery di Londra e anch’esso non finito, con zone prive di colore o di disegno.

Il fulcro della composizione è il corpo nudo di Cristo morto, sorretto con le mani o con fasce e strisce tessili da tre portatori che lo spostano scendendo evidentemente con fatica i gradini di una rustica scala. Le pie donne, fra cui la Maddalena meditabonda con la corona di spine e i chiodi in mano (studiata nuda in un disegno a Parigi, Louvre, DAG, n. 726), fanno da quinte viventi alla scena confortando la Madonna. Nel paesaggio roccioso si scorge una sagoma, forse la ‘pietra dell’unzione’, trasportata da alcuni uomini. Come e più della Madonna londinese, il Seppellimento trova confronto con motivi di tipo iconografico, compositivo e stilistico, ricorrenti nel corpus del nostro artista. Il Cristo morto tenuto in posizione eretta e frontale comparirà negli studi grafici e nei gruppi marmorei di Pietà a partire dagli anni Cinquanta del secolo, mentre per le torsioni e le rotazioni del corpo sottile viene in mente il Crocifisso ligneo di Santo Spirito. Mostrano caratteri michelangioleschi la posa sforzata e attorta del giovane a sinistra, san Giovanni (in atto di calpestare una striscia di stoffa, strana invenzione che anticipa un dettaglio della Sibilla libica), la profusione di lunghe strisce tessili che stringono le carni in sintonia con la sua sensibilità artistica e poetica11, le assonanze fra l’anziano al centro e il san Giuseppe del Tondo Doni. Sono compatibili con Michelangelo anche i contorni articolati e risentiti, nonché i vivi contrasti cromatici, pur non equilibrati per l’incompiutezza antica e le alterazioni poi subite. Ma soprattutto risulta originale e coinvolgente il concetto compositivo della scena sospesa fra azione e contemplazione: l’osservatore si trova nella posizione singolarissima di attendere, ‘da dentro’ l’invisibile cavità del sepolcro, che Cristo lo raggiunga, come in una somministrazione eucaristica attraverso gli occhi anziché la bocca.

Per le circostanze della creazione (e dell’interruzione) del dipinto, si fa riferimento a un pagamento del 1500 fatto all’artista dai frati di Sant’Agostino a Roma per una pittura su tavola destinata alla cappella della Pietà, del defunto vescovo di Crotone Giovanni Ebu. Ma l’opera non fu consegnata e da Firenze, dov’era tornato nel 1501, Michelangelo restituì la somma ricevuta12.

Con il Seppellimento – se è suo ed è del 1500 –, Michelangelo rivela un rapido e stupefacente apporto di innovazioni nella pittura, che prelude alle folgoranti invenzioni della Volta Sistina passando per il Tondo Doni.

Ancora a Roma, in questo periodo Michelangelo ideò un quadro con San Francesco che riceve le stigmate. Secondo il Vasari egli preparò il cartone con la scena e lo diede poi a dipingere a un barbiere-pittore al servizio del cardinal Riario, ch’era forse proprio Pietro d’Argenta. Il quadro fu collocato in San Pietro in Montorio, chiesa della nazione spagnola a Roma. Nel XVII secolo lo vide il grande conoscitore milanese padre Sebastiano Resta, che ne trasse un minuscolo disegno e scrisse un breve commento: era una scena di formato orizzontale, con l’inconfondibile profilo de La Verna sullo sfondo e Francesco inginocchiato in un mistico slancio. Era solo il primo di una lunga serie di ‘doni’ artistici con cui Michelangelo avrebbe beneficato assistenti poco dotati o sfortunati.

Sebbene scarsi, questi indizi di un’attività pittorica contribuiscono a giustificare l’affermazione di Pomponio Gaurico, il quale nel 1504, citando il Buonarroti tra i massimi scultori viventi, aggiunse che era anche pittore, «etiam pictor».

La Battaglia di Cascina

Nel maggio 1501 Michelangelo tornò a Firenze, con lo scopo (raggiunto) di farsi affidare il grande blocco di marmo giacente presso l’Opera di Santa Maria del Fiore – sbozzato e intaccato da Agostino di Duccio nel 1464, da Bernardo Rossellino nel 1476 e poi abbandonato –, che temeva fosse assegnato a un altro scultore. In base al contratto firmato il 15 agosto, egli ne cavò il colossale David marmoreo che, per decisione di una commissione di esperti, fu installato in piazza dei Signori davanti al Palazzo Pubblico e inaugurato l’8 settembre 1504. Quel biblico simbolo di vittoria del debole sul forte, coll’aiuto di Dio – simbolo nel quale la città si riconosceva – divenne nella sua interpretazione un gigante risoluto e bellissimo, canone delle proporzioni maschili. Nel frattempo Michelangelo assunse altri incarichi: un David di bronzo, come dono diplomatico a Pierre de Rohan, maresciallo di Gié, alla testa dell’esercito francese rimasto in città; statue di marmo per il prospetto marmoreo della cappella Piccolomini nel Duomo di Siena (scolpì solo quattro delle quindici previste nel contratto); la Madonna col Bambino in marmo per la cappella dei mercanti Mouscron in Notre-Dame a Bruges, prima del gennaio 1506; due tondi marmorei non finiti raffiguranti entrambi la Madonna col Bambino e san Giovannino, detti dai cognomi dei committenti Tondo Pitti (Firenze, Museo Nazionale del Bargello) e Tondo Taddei (Londra, Royal Academy). Nel 1503 aveva firmato un altro contratto per scolpire dodici Apostoli destinati al Duomo fiorentino, ma riuscì solo ad avviare il San Matteo, oggi nella Galleria dell’Accademia a Firenze.

In pittura, una prestigiosissima committenza pubblica gli fu affidata nell’estate del 1504 dal gonfaloniere Pier Soderini: una scena di dimensioni monumentali con la Battaglia di Cascina (1364), nella Sala del Maggior Consiglio repubblicano del Palazzo dei Signori, meglio noto come Palazzo Vecchio, la grande sala voluta dal Savonarola e costruita da Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca. Probabilmente il luogo prescelto era la metà nord della parete est, mentre già Leonardo da Vinci aveva ricevuto l’incarico di dipingere sulla stessa parete, a sud, la Battaglia di Anghiari (1440).

Le notizie storiche furono fornite ai pittori, si crede, dal primo cancelliere Marcello Adriani, il quale a Michelangelo mise probabilmente a disposizione la Historia Florentini Populi di Leonardo Bruni nella traduzione in volgare di Donato Acciaiuoli13. Michelangelo si preparò con studi compositivi generali per la parte centrale, corredati di studi di teste e di figure, e prese appunti per gli sviluppi laterali della scena spiccatamente orizzontale, si crede di 7 × 17,5 m, equivalenti a circa 12 × 30 braccia fiorentine da panno. Come è noto, l’artista giunse allo stadio del cartone, ovvero della stesura grafica al vero (proporzione 1:1) per la sola parte centrale, lavorando nella gran sala messa a disposizione dallo Spedale dei Tintori. Ma nel marzo 1505 tornò a Roma, dove Giulio II intendeva affidargli la propria tomba, senza aver mai dipinto sulla parete. Leonardo da Vinci, dopo aver messo in opera una coloritura sperimentale insoddisfacente, a sua volta abbandonò l’impresa.

Della battaglia Michelangelo aveva fissato nella sua composizione il momento, singolare e decisivo, in cui i soldati fiorentini, che per il gran caldo si bagnano in Arno, odono l’allarme e risalgono a riva per rivestirsi e combattere. L’episodio si prestava a raffigurare nudi maschili in pose e scorci diversi, in attitudini sforzate esprimenti subitanee e concitate reazioni. Nel Quattrocento fiorentino, anche Maso Finiguerra e Antonio del Pollaiolo avevano rappresentato combattimenti di nudi con effetti di esagitata violenza, ma qui Michelangelo superò di gran lunga i precedenti, sviluppando nello spazio le complesse dinamiche del gruppo e insieme curando le singole figure con splendidi studi grafici preparatori, in cui era messa a frutto l’acquisita competenza anatomica.

Michelangelo si occupò del cartone nei suoi ritorni a Firenze, ma quando ebbe abbandonato l’impresa, esso finì nel palazzo dei Medici, dove gli artisti del tempo affluirono per copiarlo cosicché esso divenne, come ricordò Benvenuto Cellini, la «scuola del mondo» e fu fatto a pezzi per l’eccessivo studio. L’unica copia nota del cartone è la tavola monocroma di Bastiano di Lorenzo d’Antonio, detto Aristotile da Sangallo (1542, conservato a Holkham Hall, in Gran Bretagna).

In quest’ambito di studi di nudo sembra rientrare – pur se l’autografia resta discussa – il cosiddetto Tritone di Settignano, disegno a carbone su intonaco ritrovato in una villa dei dintorni di Firenze appartenuta ai Buonarroti. L’uomo, dal torso robusto sottoposto a rotazione, potrebb’essere un trombettiere.

Il Tondo Doni

Tra il 1504 e il 1507 circa si situa la prima e per ora unica pittura certa di Michelangelo su tavola, la Sacra Famiglia che, dal nome del committente, è nota come Tondo Doni (Firenze, Galleria degli Uffizi). Benché fosse celebre come scultore, la fiducia nella sua capacità di pittore, già nota anch’essa ai contemporanei, era stata confermata dall’incarico cittadino della Battaglia di Cascina.

Interessato al formato circolare, tanto amato nelle botteghe artistiche fiorentine del Quattrocento, in quel periodo Michelangelo lo sperimentò in scultura con i tondi marmorei Pitti e Taddei. La dipintura del Tondo Doni coincise con un periodo di pressanti impegni e di viaggi nel quale sembra, dalle parole del Condivi, che in collegamento con l’impresa della Battaglia Michelangelo accettasse la commissione «per non lasciare affatto la pittura»14. La data resta incerta: si pensa che fosse avviato nel 1504, in relazione al matrimonio di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi (committenti anche del ventenne Raffaello, che ne fece i ritratti), ma per il ruolo preminente della Madonna è stato anche messo in relazione con la nascita della loro figlia Maria, nel 1507, dopo la morte di quattro maschi l’uno dopo l’altro, tutti chiamati Giovanni Battista. Probabilmente Michelangelo completò il tondo nell’arco del 1506, durante uno dei soggiorni fiorentini, dopo aver visto il Laocoonte scoperto a Roma in gennaio. Nella Deposizione per Atalanta Baglioni datata 1507 (nella Pinacoteca Vaticana), Raffaello riprese la posa di Maria nella pia donna inginocchiata, senza che questo però costituisca un elemento certo di datazione.

L’eccezionalità del dipinto è evidente in ogni suo aspetto, dalla grandezza (120 cm di diametro) alla ricchezza della cornice scolpita e dipinta da Francesco e Marco Del Tasso (autori anche dell’arredo ligneo della camera matrimoniale dei Doni, ornato di grottesche da Morto da Feltre), dalla singolarità dell’invenzione all’inedito fulgore delle tinte. Il dipinto aveva scarsi e parziali precedenti, e fu solo indirettamente imitato e poco copiato, così da restare in un magnifico isolamento entro il percorso della storia dell’arte italiana e fiorentina. Michelangelo privilegiò una interpretazione della Sacra Famiglia concentrata sulla Madonna, tanto che i biografi definirono il soggetto una «Nostra Donna» senza indugiare sulle altre figure. Ella, seduta in un prato secondo l’iconografia tre-quattrocentesca della Madonna dell’Umiltà, forma la base di un gruppo piramidale comprendente il Bambino Gesù e san Giuseppe. Mentre è evidente che il Bambino, robusto e atletico come un piccolo Ercole, passa tra i due adulti, è stata diversamente interpretata la direzione del passaggio: secondo il Vasari, la Madonna lo porge a san Giuseppe, secondo la maggioranza dei commentatori moderni, invece, lo riceve da lui. Certo la Vergine compie un’ampia mossa ruotante del busto sollevando le braccia e volgendo lo sguardo in alto, in estatica contemplazione amorosa del Figlio, che la ricambia con una penetrante occhiata di sotto le palpebre abbassate, a sua volta fissato e tenuto con vigile attenzione da san Giuseppe. Per la complessa e dinamica gestualità che lega i tre personaggi è verosimile che Michelangelo rielaborasse pensieri compositivi che Leonardo aveva già messo a punto e mostrato anche a Firenze in quegli anni con il cartone della Sant’Anna. La complicata invenzione ha suscitato nella critica novecentesca commenti perspicaci, quale la celebre esclamazione di Roberto Longhi: «Quale divina famiglia di giocolieri, e quale immaginazione di movimenti puramente estetici!» (1914) e l’intuitiva osservazione di Luciano Berti: «Michelangelo sembra sempre lottare contro resistenze e difficoltà insolite» (1985), dove sembra di sentir l’eco dell’osservazione di Jacob Burkhardt: «La difficoltà della posizione ricercata [...] non è interamente risolta: quando si hanno simili intenti non bisogna dipingere Sacre Famiglie»15. E difatti, la ricomposizione di studi singoli di membra nude o panneggiate, che vedremo poi ricorrere nella pittura michelangiolesca, finisce per adombrare ‘difficoltà’ non pienamente superate: la lunghezza dello snodato braccio destro della Madonna, l’espansione del suo corpo dalla vita in giù. Ma sia la posa elaborata della Vergine che si avvita a spirale tendendo verso l’alto, così come gli atteggiamenti dei nudi dello sfondo, saranno da ricondurre all’ossequio, non privo di competitività, riservato da Michelangelo alla statuaria ellenistica, che generosamente il suolo di Roma in quegli anni restituiva in quantità e che secondo Vasari ispirò negli artisti un fare più grandioso e patetico, presupposto della Maniera moderna.

Una vera antologia di citazioni da statue antiche è stata individuata nelle figure del tondo grazie ai confronti con modelli celebri come la Prassilla di Lisippo, l’Apollo del Belvedere, il Laocoonte scoperto nel gennaio 150616: tanto che nel rinnovato allestimento della sala 35 nella Galleria degli Uffizi, nel 2013 dinanzi al tondo è stata posta la cosiddetta Ariadne, marmo romano di donna giacente, così da ricomporre il dialogo, caro a Michelangelo e al suo tempo, tra l’Antico e i moderni.

Al di là di un muretto e di un sottile corso d’acqua, il piccolo Giovanni Battista contempla estatico la scena, senza prendervi parte. E a concludere la composizione sullo sfondo del paesaggio montuoso lontano, si vede più in basso un emiciclo (murato o di rocce naturali) lungo il quale sono appoggiati o seduti dei giovani nudi, di cui cinque visibili in atteggiamenti vari, formanti un misterioso consesso. Il disegno possente e sicuro definisce quasi scolpendoli i contorni dei volumi torniti in primo piano, mentre verso il fondo prevale una tecnica più indistinta, di suggestione leonardesca, a indicare una distanza più spirituale che fisica.

Dal possente gruppo in primo piano irradia un cromatismo deciso e sfolgorante, che vede protagonisti i colori primari rosso, giallo, azzurro, e presenti in altri dettagli i colori complementari verde, arancio, viola. I forti sbalzi di luminosità, che quasi fanno sbiancare nelle zone di massimo chiarore i colori vividi e saturi, indicano una sicura padronanza ma anche una schietta originalità di Michelangelo pittore, qualità che raggiungono un ulteriore grado nella Volta Sistina (iniziata nel 1508), così da fare dell’artista l’indiscutibile iniziatore della «maniera moderna», su tavola e su muro. Tutta l’esuberanza cromatica della pittura toscana, dalle origini al Ghirlandaio e all’Albertinelli, si manifesta nel tondo preparando non solo l’esplosione cromatica della Volta Sistina, ma anche i dissonanti e sulfurei esperimenti dei pittori della prima «maniera», Andrea del Sarto per certi aspetti e poi Pontormo, Rosso Fiorentino, Domenico Beccafumi. L’autentica e sorprendente tavolozza manovrata da Michelangelo fu rivelata nel restauro del 1986, quando una sapiente pulitura liberò la superficie dalle sovrapposizioni di vernici alterate che ne smorzavano e offuscavano l’equilibrio generale. Si poté osservare allora, e tuttora si ammira, quanto le stesure pittoriche a tempera siano curate, così da campire con modulazione nitida e vigorosa le grandi masse degli abiti e dei mantelli, da tornire gli incarnati sfiorati dalla luce, e anche da conferire sostanza e credibilità ai più minuti dettagli: il nastro roseo toccato d’oro che ferma i capelli di Gesù affondando nei ricci, la cuffia della Madonna verde scuro con risvolto ceruleo e orlo a cordoncino, il fermaglio dalla forma indefinibile che le trattiene la veste sul seno. Il prato, con l’erba dipinta filo a filo, rivela un’attenzione al dato naturale che non si ritroverà più nelle grandi imprese romane di Michelangelo frescante. Si distinguono trifogli, anemoni e uno svettante issopo contro il muricciolo, pianta citata nelle Sacre Scritture. Un’ispirazione al vero si riscontrerebbe anche nel paesaggio montano sullo sfondo, dove si propone di riconoscere la conformazione de La Verna.Il celebre Santuario francescano sarà stato certo noto a Michelangelo (che a Firenze abitava nel quartiere di Santa Croce, la basilica dei frati minori, come del resto anche i Doni), tanto che perfino dallo schizzo con il San Francesco che padre Resta trasse dal quadro di San Pietro in Montorio risulta che Michelangelo, autore del disegno, conosceva l’orografia del luogo.

Nell’originalità generale dell’impianto (e anche di alcuni dettagli, come la nudità del braccio e della spalla sinistra della Vergine), risalta la singolarità della scena al di là del prato, con i giovani nudi e san Giovannino in contemplazione. Per questa ripartizione resta assai convincente la lettura di Charles de Tolnay, che nei suoi fondamentali contributi su Michelangelo (1943-1975) vedeva nei nudi il tempo ante legem dell’umanità pagana, in Giovannino, Maria e Giuseppe l’umanità prima del Battesimo sub legem, in Gesù l’avvento della Redenzione, sub Gratia. I giovani, nudi ma con nastri fra i capelli e mantelli drappeggiati intorno, si muovono in atti amichevoli, perfino giocosi. Sulla loro interpretazione molto si è discusso e si discute, anche in riferimento a possibili precedenti quali i due dipinti di Luca Signorelli – le Madonne nella Galleria degli Uffizi e nella Alte Pinakothek a Monaco (1487-1497) – che mostrano sul fondo di paesaggio uno o più nudi, indifferenti ai sacri personaggi in primo piano. Tra le varie ipotesi espresse – che si tratti di angeli senz’ali, di pastori, di omosessuali – e accantonando quelle improbabili come il riferimento alla sodomia, continuo a ritenere interessante quella delle anime dei giusti non battezzati e non redenti confinate nel Limbo, il luogo ultraterreno che, secondo la tradizione cristiana più antica, le accoglie in una condizione temporanea di serenità: il Limbus patrum (distinto dal Limbo dei bambini), dove gli adulti nati prima della Redenzione attendono l’ammissione al Regno dei Cieli17. In Firenze la dottrina del Limbo era specialmente propagata dai domenicani di San Marco, tra i quali vi era stato il Savonarola.

Alla magnificenza generale del grande tondo collabora la cornice lignea intagliata, dipinta e dorata, di altissima qualità nel rilievo e di fine policromia, certamente concepita ed eseguita in collegamento col dipinto e in armonia con il restante arredo della camera Doni, opera dei Del Tasso. Dai cinque clipei disposti sulla fascia a grottesche sporgono teste: in alto Cristo e sotto, si crede, due Profeti e due Sibille autori di profezie e di oracoli sulla venuta del Salvatore. Tra gli ornati in rilievo i crescenti Strozzi e, forse, i leoni Doni rappresentano citazioni dall’araldica delle due famiglie. L’esistenza di un disegno progettuale di Michelangelo per la cornice, pur senza che vi siano prove, resta molto probabile.

Questa straordinaria invenzione pittorica non fu al suo tempo popolare anche perché poco visibile, chiusa com’era in una casa privata: se ne conoscono solo due copie antiche, una di mano forse fiamminga conservata al Fogg Art Museum di Cambridge, in Massachusetts, e una attribuita a Francesco Bachiacca, senza i nudi, in ubicazione sconosciuta. Col declinare delle fortune dei Doni, nel 1594 il granduca Ferdinando I de’ Medici acquistò il tondo e lo fece appendere nella sua camera da letto a Palazzo Pitti, per poi installarlo nella Tribuna degli Uffizi in posizione di privilegio, a dominare i tesori d’arte ivi raccolti dalla sua famiglia.

La Volta Sistina

L’incarico

Nel marzo 1505 Michelangelo iniziò a lavorare per Giulio II (Giuliano Della Rovere, papa dal dicembre 1503), che per la sua fama di scultore lo incaricò di creare la propria sepoltura, incoraggiandolo a progettare un grandioso mausoleo marmoreo ornato di decine di statue, cosicché l’artista, entusiasta, si dedicò per mesi a far cavare marmi sulle Apuane. Era l’inizio di un’impresa tribolata, destinata a durare quarant’anni, definita dall’artista stesso «la tragedia della sepoltura»18. Nell’aprile 1506 uno scontro col papa, che rifiutava di riceverlo e di rimborsarlo, lo indusse ad abbandonare Roma e l’impresa per tornare a Firenze; ma già nel novembre di quell’anno si riconciliò con Giulio II a Bologna, ricevendo l’incarico per una sua statua monumentale in bronzo, finita nel 1508 e in seguito distrutta. Di ritorno a Roma, Giulio II non gli permise di lavorare alla Sepoltura, ma gli commissionò la dipintura a fresco della volta della Cappella Sistina nel Palazzo Apostolico, fatta costruire e affrescare alle pareti dallo zio Sisto IV fra il 1475 e il 1482. Secondo le fonti biografiche più antiche, nel cambiamento d’idea del papa ebbe un ruolo Donato Bramante, l’architetto e artista di nascita urbinate che era a capo della fabbrica del nuovo San Pietro. Per svantaggiare Michelangelo nei confronti del compatriota Raffaello da Urbino (responsabile dal 1504 degli affreschi nelle stanze dell’appartamento di Giulio II) egli avrebbe, col suo nuovo progetto della basilica di San Pietro, reso impossibile la collocazione della Sepoltura monumentale e al tempo stesso avrebbe suggerito al papa di mettere alla prova il fiorentino nella pittura murale, di cui era meno pratico, perché mostrasse i suoi limiti. Questa la versione dei fatti riportata dal Condivi nel 1553 e poi ripresa dal Vasari nel 1568.

I rapporti tra Michelangelo e Giulio II furono discontinui e difficili dal primo incarico, nel 1505, alla morte del papa, nel 1513. L’artista suscettibile e diffidente e il pontefice impaziente, collerico, guerriero, furono protagonisti di una vicenda unica nella storia della committenza d’arte, tale da dar materia a rielaborazioni letterarie e cinematografiche di cui la più nota è il romanzo Il tormento e l’estasi di Irving Stone, del 1961, trasposto in pellicola con la regia di Carol Reed nel 1965. Soprattutto, però, portò alla creazione di capolavori assoluti come il Mosè e i Prigioni marmorei per la tomba e, appunto, la volta della Cappella Sistina nell’affresco.

Dalla preesistenza ai primi pensieri

La Cappella «magna» vaticana era stata trasformata nella grande Cappella, nota come Sistina, su progetto di Baccio Pontelli con la supervisione di Giovannino de’ Dolci fra il 1477 e il 1481: l’aula lunga e vasta svolgeva funzioni di Capella papalis e ospitava, come ora, il conclave. Al tempo di Giulio II essa aveva già il pavimento a intarsio in marmi policromi in stile cosmatesco, la transenna e la cantoria. Alle pareti, cicli pittorici con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento e con Pontefici erano stati dipinti da artisti dell’Italia centrale: Perugino e Signorelli nonché, grazie alla compiacenza di Lorenzo il Magnifico dopo la fine delle ostilità col papa causate dalla Guerra dei Pazzi, dai fiorentini Botticelli, Ghirlandaio, Rosselli. Sulla parete dell’altare, un’Assunzione della Madonna del Perugino esprimeva la dedicazione della cappella, consacrata da Sisto IV il 15 agosto 1483, festa dell’Assunta.

La volta misura 40,93 × 13,41 m circa (proporzione 6:1), ad altezza di oltre 20 m. Si tramanda che Pier Matteo d’Amelia la decorasse a stelle dorate su fondo azzurro.

Si vorrebbe poter conoscere ogni fase della preparazione di Michelangelo a questa impresa grandiosa: chi gli prescrisse il soggetto, con chi elaborò e discusse lo schema delle partizioni, per quali passaggi giunse alle decisioni audacemente innovative che fecero della Volta l’incubatore delle esperienze più avanzate nell’affresco dal Rinascimento al Barocco. E invece si deve far tesoro delle pochissime informazioni che vengono dai documenti coevi, dalla storiografia più tarda, dai rari disegni, per comporre un mosaico dove permangono larghe zone indistinte.

Secondo un primo programma iconografico, databile intorno al contratto dell’8 maggio 1508 (perduto), dovevano esservi dipinti i dodici Apostoli in altrettanti pennacchi e poi, in campi geometrici, storie e figure: «un certo partimento ripieno d’adornamenti chome si usa», nelle parole di Michelangelo stesso.

Due disegni autografi, uno a Londra (British Museum, inv. 1869-6-25-567) e uno a Detroit (The Detroit Institute of Arts, inv. 27.2 recto) dimostrano che Michelangelo cominciò a studiare per un soffitto a scomparti geometrici, secondo l’uso del tardo Quattrocento, che rielaborava gli schemi delle pitture romane antiche nella Domus Aurea e nella Villa Adriana a Tivoli, dove gli Apostoli avrebbero trovato posto su troni dall’elaborata morfologia plastico-architettonica.

Un altro schizzo veloce e sommario (Londra, British Museum, inv. 1887-5-2-118) contiene già elementi della soluzione definitiva per la ripartizione della volta: la cornice tutt’intorno alla lunga corsia centrale, le posizioni dei Profeti e delle Sibille, i campi per i soggetti biblici, i tondi color bronzo dorato.

L’iconografia: quale libertà?

Tra le questioni irrisolte che maggiormente appassionano la critica, specialmente negli ultimi anni, vi è quella del soggetto della Volta e, in particolare, di chi lo decise e lo definì: un soggetto che come è stato osservato non ha un titolo, ma che comprende in un sistema articolato e interconnesso di scene figurate la storia dell’umanità, dalla creazione del mondo alla genealogia di Cristo secondo l’Antico Testamento, includendo cinque figure femminili dell’antichità pagana, le Sibille.

Nel dare per scontato un ruolo del committente nella scelta del tema e dei soggetti, si sono proposti nel tempo vari nomi per il suggeritore dell’iconografia, da cercare nell’ambito dei teologi, dei biblisti e degli eruditi presenti nella Curia romana, tra i quali l’agostiniano Egidio da Viterbo, il francescano e parente del papa cardinal Marco Vigerio I Della Rovere, il discepolo del Savonarola Sante Pagnini, studioso dell’Antico Testamento in ebraico. Anche sulle fonti testuali del programma figurativo le ipotesi sono molteplici: sono stati proposti De Civitate Dei di sant’Agostino, Lignum Vitae di san Bonaventura da Bagnorea, e con maggior consenso il Liber de concordia Veteris ac Novi Testamenti di Gioacchino da Fiore, molto diffuso presso l’ordine agostiniano, contenente il Liber Generationis Jesus Christi. Per quanto riguarda i Veggenti – Profeti e Sibille – una recente teoria collega ciascuno di loro con un articolo dell’antico Credo o Simbolo apostolico (sostituito nell’attuale liturgia dal Credo niceno-costantinopolitano del 381), preghiera suddivisa appunto in dodici articoli, che in tal modo richiamerebbe la presenza, non espressa in termini figurativi, degli apostoli quali autori dei fondamenti della fede cristiana.

È anche possibile che il programma non provenisse da una sola fonte o da una rosa ristretta di esse, ma da una «teologia del Rinascimento»19, ovvero un corpus di contributi teologici di stampo umanistico convergenti nel delineare attraverso l’intera Cappella Sistina il percorso dell’umanità dalla creazione al peccato, al giudizio e alla possibilità della salvezza, grazie alla Redenzione.

Un ulteriore e cruciale quesito riguarda il ruolo di Michelangelo nella scelta dell’iconografia, e specialmente nel modo di esprimere il soggetto generale attraverso una serie di episodi e di figure. La sua diretta testimonianza su questo punto si trova in due lettere scritte assai dopo, nel 1523, a Giovan Francesco Fattucci, cappellano di Santa Maria del Fiore e segretario di Clemente VII, già cardinal Giulio de’ Medici. In entrambe egli riferì dei ragionamenti intercorsi tra lui e il papa a proposito degli apostoli, che l’artista temeva riuscissero «cosa povera», finché Giulio II acconsentì alla sua richiesta: «mi decte nuova chommissione che io facessi ciò che io volevo». Sovente interpretata come indicazione di una totale libertà inventiva concessa a Michelangelo, l’affermazione (ripetuta nelle due lettere) potrebbe riferirsi alla quantità di superfici che egli venne autorizzato a coprire di pittura, con i relativi compensi definiti per contratto20, così come alla declinazione dei soggetti nei termini esclusivamente artistici di schemi, proporzioni, dimensioni, scorci, pose, colori decisi in autonomia.

La struttura, vera e immaginaria

La volta è un elemento architettonico complesso di costruzione policentrica, con lunette sopra le finestre, cinque per ogni lato lungo e due per ogni testata; al di sopra delle lunette vi sono vele (campi triangolari sferici) in alternanza a peducci o pseudo-pennacchi (porzioni triangolari discendenti dalla volta), che s’indicheranno per brevità come pennacchi. Sia gli storici e gli studiosi, sia gli osservatori non addetti ai lavori, nel percepire la volta per parti (poiché la veduta d’insieme corrisponde a pochi punti di vista obbligati e si presenta in forte scorcio), tendono a concentrarsi sulle figure e sulle scene, ovvero sugli elementi umani a carattere narrativo. E tuttavia, l’affollato sistema figurativo è tenuto insieme in un sistema di rapporti dalla salda coerenza interna grazie allo schema che Michelangelo impostò e poi probabilmente sviluppò perfezionandolo in corso d’opera, che sovrappone alla struttura reale una finta architettura corredata di elementi plastici per ottenere il controllo di una spazialità illusionistica dai molteplici livelli riconducibili a tre principali: uno coincidente con la superficie del muro; uno ‘al di qua’ di essa, che si espande sporgendo nel ‘nostro’ ambiente; uno ‘al di là’ di essa, che sfonda verso l’orizzonte o in un infinito privo di punti di riferimento. Quest’alternanza di qui e di altrove, di incombente e di remoto, trova il suo elemento unificante nella cornice in finto marmo che delimita la lunga porzione piana centrale entro la quale si susseguono nove scene, quattro maggiori e quattro minori alternate: è dalla cornice che si spiccano verso il basso i troni dei Veggenti (troni sono comunemente definiti questi ornati scriptoria, che saranno meglio descritti più avanti), incastrati nelle porzioni discendenti di volta, ovvero nei pennacchi. Nei pennacchi angolari, contigui due a due, le storie dall’intricata narrativa si espandono in una profondità maggiore, sia in scenari esterni sia in ambienti confinati.

Ulteriori elementi architettonici, fasce piane che collegano come ‘ponti’ i lati lunghi della cornice, spartiscono tra loro le nove scene. Questa la descrizione ispirata al Condivi da Michelangelo stesso: «[…] una cornice che intorno cinge tutta l’opera, lasciando nel mezzo della volta, da capo a’ piè, come uno aperto cielo. Questa apertura è distinta in nove liste, percioché dalla cornice sopra i pilastri si muoveno alcuni archi scorniciati, i quali passano per l’ultima altezza della volta e vanno a trovare la cornice dell’opposita parte, lasciando tra arco e arco nove vani, un grande e un picciolo». Per ognuno dei cinque «vani» di dimensioni minori, su plinti a dado sorgenti dalle pareti laterali dei troni sottostanti, siedono due coppie di Ignudi con festoni sorreggenti un medaglione per coppia. L’architettura aggettante, gli Ignudi, i medaglioni (così come i Veggenti sui troni) sporgono con effetto illusionistico nel ‘nostro’ spazio fisico, mentre le scene recedono nello spazio virtuale che si apre al di là delle incorniciature. Le cornici sono minuziosamente dipinte in finto rilievo con motivi architettonici classici, quali bucrani, perle e fusaruole, valve di conchiglie, ghiande allusive all’arme Della Rovere.

I Veggenti nei pennacchi hanno sotto il trono ognuno una targa retta da un fanciullo, maschio o femmina. Essi sono collegati alle scene minori, mentre alle scene maggiori corrispondono le vele: nei doppi campi triangolari residui sopra le vele, fra i troni contigui alle scene maggiori, sono dipinte a mo’ di altorilievo su fondo imitante il marmo violaceo coppie di nudi color bronzo dorato, in vari atteggiamenti specularmente simmetrici. Nelle vele, le famiglie ebree accosciate occupano una limitata profondità, in una sorta di penombra. Le lunette sono in realtà semicorone circolari a causa della finestra centinata al centro di ciascuna: trasformate dalla pittura in vani poco profondi ma dotati di sedili e d’altri pochi arredi, ospitano gli Antenati di Cristo a coppie o gruppi familiari, divisi al centro da una targa.

Come per ogni altro elemento della Volta, per la lettura visiva e l’apprezzamento dei ricercatissimi effetti pittorici messi in opera da Michelangelo nelle finte architetture (come del resto nelle figure) risulta decisiva la visibilità riacquisita da questi e da altri dettagli grazie alla pulitura eseguita nell’ambito dell’intervento di restauro (1980-1989). La superficie, nonostante le difficoltà dipendenti dall’estensione e dall’altezza, era stata restaurata più volte nei secoli, a causa delle crepe e delle efflorescenze di salnitro causate dalle infiltrazioni e dell’oscuramento dipendente dagli accumuli di nerofumo, che avevano formato nel tempo consistenti spessori. Un altro fattore di scurimento era l’alterazione delle colle e sostanze applicate per ravvivare le tinte. Il restauro, condotto con criteri scientifici e dettagliatamente documentato, provvide al consolidamento dell’intonaco, ma soprattutto alla pulitura dello strato pittorico (che si rivelò di eccellente fattura), comprendendo anche la rimozione di alcune porzioni dipinte a secco ritenute ridipinture successive alla stesura originale. Queste ultime operazioni suscitarono vivaci polemiche da parte di chi riteneva che si rimuovessero in tal modo aggiunte michelangiolesche e lavorazioni originali a base di nerofumo. Tuttavia il confronto con il Tondo Doni – il cui restauro, nei primi anni Ottanta del Novecento quasi fece da guida alla pulitura dell’intonaco sistino – indica che lo splendore e il cangiante dei colori, così come la stesura delle ombre colorate in tinte contrastanti, appartenevano al fare pittorico di Michelangelo prima della grande impresa romana.

Scene e figure

Per commentare le scene narrative nel grande sistema figurativo è opportuno attenersi alla loro sequenza nella fonte scritturale, l’Antico Testamento, anche se nella porzione piana centrale Michelangelo le dipinse nell’ordine inverso. Per diffuso consenso, le nove storie si considerano raggruppate con criterio ternario (e con simbologia trinitaria): tre dedicate alla Creazione, tre ai Progenitori, tre alla caduta e al riscatto della prima umanità peccatrice.

Separazione della luce dalle tenebre (Genesi 1, 1-5).Nel principio della Creazione Dio Padre aleggia nello spazio con il volto levato e compresso nello scorcio, il corpo poderoso si avvita sprigionando energia dalle braccia spalancate. La prima luce sgorga dalle nubi, il buio è relegato in margine del cielo appena creato.

Creazione delle piante e degli astri (Genesi 1, 11-19). Dio trascorre nel cielo in due pose, di fronte e di spalle (qui mostrando le piante dei piedi nudi); reca nel manto le Parti del Giorno, all’origine del Tempo. Nel comandare l’esistenza dei Luminari, Egli esprime con severità e decisione la Sua terribile potenza.

Separazione della terra dalle acque, o Benedizione del creato (Genesi 1, 9-10). Accompagnato da tre angeli, o personificazioni, Dio abbassa lo sguardo a considerare il mondo sottostante.

Creazione dell’uomo (Genesi 2, 7).Scena celebre nella pittura di tutti i tempi, giustappone la massa volante di Dio col manto affollato di spiriti celesti al nudo Adamo, che si desta alla vita porgendo l’indice sinistro al tocco creatore della mano divina. Per l’Adamo della Creazione si conosce un solo disegno, dedicato alla posa del gran corpo giacente che si desta alla vita, ruotando il torso sul bacino: la testa è solo lievemente tracciata, delle mani invece vi sono reiterati studi. Tra questi vi è un foglio a Londra (British Museum, inv. 1926-10-9-1 recto, che ha sul verso una testa di giovane a matita rossa per l’Ignudo a sinistra sopra la Persica, di attribuzione discussa, del 1511 circa)21.

La descrizione del Condivi, ispirata da Michelangelo, attribuisce al gesto di Dio un ulteriore significato che di solito non viene colto dai commentatori, di ammonimento contestuale al dono della vita: «si vede Iddio col braccio e colla mano distesa dar quasi i precetti ad Adamo di quel che far debbe e non fare»22 (Genesi 2, 17).

Creazione di Eva (Genesi 2, 18-25). Da Adamo profondamente addormentato Dio trae la prima donna, figura nuda di profilo che si leva in preghiera verso il Creatore assorto e paterno.

Tentazione e Cacciata dal Paradiso terrestre (Genesi 3, 1-13, 22-24). Le scene sono riunite, con l’Albero della conoscenza a far da elemento divisorio. Nel peccato originale, non è come di solito Eva che porge il frutto proibito ad Adamo, ma entrambi lo cercano e lo accettano con la medesima prontezza dall’iridescente serpe-donna. Nella Cacciata, che mostra reminiscenze da Masaccio nella cappella Brancacci al Carmine, dove Michelangelo giovanissimo aveva studiato, le pose dei Progenitori manifestano il rimorso e la vergogna.

Le tre storie finali (in realtà dipinte per prime) riguardano Noè e l’umanità peccatrice.

Sacrificio di Noè (Genesi 8, 15-20). Qui il patriarca, uscito dall’Arca con le donne e i figli, abbigliato in veste rossa officia il primo sacrificio per la riconciliazione di Dio con gli uomini. La scena è affollata e animata da gesti alacri, tra gli animali spaventati e immolati. L’ignudo che attizza il fuoco riprende in controparte la posa di un personaggio nella Battaglia dei centauri.

Diluvio Universale (Genesi 6, 5-8, 20). Qui, all’inizio dell’impresa, probabilmente dipinsero gli aiuti, tra i quali Granacci e Bugiardini, e qui comparve la muffa per l’inesperienza di Michelangelo, che dovette distruggere e rifare gran parte della scena già dipinta: della prima stesura resta l’isoletta a destra. Legato alle convenzioni compositive apprese nell’adolescenza, Michelangelo adottò una narrativa diacronica che dal primo piano, dove ancora alcuni sperano di salvare sé stessi, i beni e le bestie, conduce ai piani intermedi dove si profila la tragedia, fra l’isolotto assediato dalle acque e la barca che si rovescia, per arrivare all’Arca oggetto di un ultimo vano assalto, da dove già è partito il corvo e la colomba attende d’esser liberata per annunciare la fine del Diluvio. Alla luce di Genesi (7 e 8), oltre dieci mesi separano il primo piano dal fondo. Un nuotatore aggrappato all’isola rammenta i soldati nudi che si arrampicano nella Battaglia di Cascina. Fin dai primi commenti, del Diluvio (pur poco visibile da lontano, con le sue figure piccole) fu esaltata la capacità di rappresentare il cataclisma e il terrore23.

Ebbrezza di Noè (Genesi 9, 20-27). L’episodio segna il ritorno dell’umanità allo stato di peccato, poiché Cam deride il padre ubriaco e nudo (mentre Sem e Iafet lo ricoprono) e sarà da lui maledetto al risveglio. Michelangelo, a qualche anno di distanza dal Tondo Doni, continua a rivelare le impressioni ricevute dalla scultura antica: il patriarca giacente evoca il tipo del ‘dio fluviale’, i tre figli vicini tra loro ricordano gli ignudi del Tondo fiorentino. In un sereno scorcio rurale a sinistra si vede l’antefatto, ovvero Noè che lavora la terra per piantare la vigna.

Gli Ignudi sono tra le figure più misteriose e memorabili della Volta. Venti in tutto (dieci coppie ai lati delle cinque scene minori), furono descritti dai biografi con entusiastica ammirazione, ma senza che ne spiegassero il significato. Nella fisicità atletica e nella nudità appena mitigata, in alcuni, da nastri e da mantelli, sembrano rappresentare un eroico e moderno sviluppo delle figure degli ‘spiritelli’, putti o adolescenti posti abitualmente, nell’arte fiorentina del Quattrocento, a sorreggere scudi o ghirlande. Addetti a mostrare i pesantissimi medaglioni bronzei e a tenere i grevi festoni di quercia ricchi di ghiande allusive all’arme Della Rovere, gli Ignudi sono atteggiati in pose diverse eppure tutte studiatissime (come attestano i numerosi disegni), molte sforzate e alcune insostenibili, al limite della verosimiglianza. Variano anche i colori delle chiome ricciute e abbondanti e i timbri degl’incarnati, che dopo la pulitura delle superfici si sono rivelati variabili dal livido all’arrossato, dal pallido all’ambrato. In essi s’invera quel precetto della varietà che Michelangelo privilegiava anche a scapito della perfezione: «se tu vòi far bene, varia sempre e fa’ più tosto male»24.

Molti Ignudi hanno punti di contatto con la statuaria: quella antica, con riprese di pezzi celebri come il Torso del Belvedere e il Laocoonte da poco trovato, e quella futura, con presentimenti dei Prigioni destinati alla tomba di Giulio II. Nel loro insieme gli Ignudi formano una corona di trionfante bellezza maschile, che sembra riflettere e serbare l’originaria perfezione di Adamo prima della caduta.

I dieci Medaglioni raffigurano gli episodi biblici degli Asmonei, che dopo aver guidato la resistenza contro i Seleucidi, governarono la Giudea tra il 134 e il 36 a.C. con il soprannome di Maccabei (Libri dei Re): un soggetto guerresco quale si conveniva a Giulio II. Le storie rappresentano a coppie, venendo dall’ingresso, Antioco che cade dal carro e Ioab che uccide Abner; Abbattimento di un idolo e Punizione di Eliodoro; Morte di Nicanor e Alessandro davanti al gran Sacerdote; un soggetto incomprensibile che forse raffigurava in origine Assalonne che violenta una delle concubine di suo padre David e Morte di Assalonne; Elia ascende su un carro di fuoco e Sacrificio d’Abramo. Alessandro Magno, il grande conquistatore, è presente in quanto morendo senza eredi fu all’origine della suddivisione del Medio Oriente in regni, e quindi causa dell’ascesa al trono di Antioco Epifane, contro il quale Mattatia iniziò la sua rivolta. È stato suggerito che le coppie esemplifichino la prima, la superbia; la seconda e la terza, l’irreligione; la quarta, l’oltraggio al padre; la quinta, la pietà e il timor di Dio25. Michelangelo dipinse le scene a secco su una base color bruno a fresco, e per aumentare l’effetto del rilievo applicò tocchi e profili dorati.

La narrazione biblica prosegue nei pennacchi ‘doppi’ angolari, con quattro episodi riguardanti la salvezza d’Israele.

Giuditta e Oloferne (Libro di Giuditta). Sono esaltate le figure splendenti delle due donne di spalle, colte nella rapidità del gesto efficiente e impavido di coprire col panno la testa del capitano nemico, che giace decapitato nel cubicolo.

David e Golia (1° Libro di Samuele). Qui l’eroico pastorello è colto nell’attimo in cui, atterrato il gigante Golia con la fionda, lo assale per decapitarlo con la sua stessa arma.

Il Serpente di bronzo (Numeri 21, 4-9). Nella scena gremita, i personaggi si addensano ai lati lasciando spazio all’idolo centrale: a destra i supplicanti, a sinistra in un groviglio gli avvelenati. L’equilibrio cromatico della scena sembra alterato, poiché due o più figure furono coperte di panni chiari, certo al tempo della censura dell’adiacente Giudizio Universale.

Punizione di Aman (Libro di Ester). Con supremo artificio prospettico, il corpo in scorcio di Aman crocifisso divide lo spazio con la sua estrema e disperata torsione. Ai lati si svolgono gli episodi della storia di Assuero, Ester, Mardocheo, che culmina nella condanna del consigliere nemico di Israele.

Lungo i quattro lati i Veggenti, con la loro ambientazione, provvedono alla Volta il costrutto architettonico-figurativo in assoluto più impressionante. Probabilmente per questo il Condivi iniziò da loro la sua descrizione del complesso sistema d’immagini, contro ogni logica distributiva e iconografica, e certo li aveva in mente quando parlò di «figurone», poiché la loro altezza va dai 260 cm della prima campagna di pittura ai 298 cm della conclusione. Ciascuno dispone di uno spazio ben delimitato, che si suol denominare «trono», ma che è qualcosa di più e di diverso, per il quale è difficile coniare una definizione, poiché sta fra lo studio quale stanzetta raccolta, lo scriptorium, in quanto modulo architettonico dedicato alla lettura e alla scrittura, e la cattedra come sedile monumentale dotato di pedana. In questo spazio, delimitato da setti sporgenti ornati in testata da coppie speculari di putti in finto rilievo marmoreo, Profeti e Sibille svolgono attività intellettuali ma anche specifiche azioni di vita quotidiana; ognuno ha per compagni due fanciulli, dei quali è difficile definire il ruolo, se non in termini generici di assistenti, poiché coadiuvano il Veggente o spiegano e amplificano le indicazioni che ne provengono.

La loro fascia spaziale è ulteriormente arricchita da figure di complemento. Sotto ogni trono, dei fanciulli reggono una targa col nome di ciascun Veggente. Fra un trono e l’altro, in spazi triangolari sono inserite artificiosamente coppie di ignudi color bronzo a finto rilievo.

Sulla presenza di questi personaggi dell’Antico Testamento e dell’Antichità pagana ci si è molto interrogati. Se è evidente che il loro contributo al percorso della Redenzione dell’uomo operata da Cristo fu negli elementi di Rivelazione che ognuno ne offrì, è tuttavia ricca la letteratura interpretativa che ne approfondisce la possibile simbologia. La recente teoria di collegare ogni Veggente a uno dei dodici versetti del Credo degli Apostoli adombra il recupero, per così dire, dell’iconografia apostolica originaria altrimenti assente26. I Veggenti – in Vaticano visibili anche nelle lunette del Pintoricchio nell’Appartamento Borgia – denotano l’unità spirituale del mondo antico nell’attesa messianica.

La costrizione dei corpi potenti entro i confini dei troni e la compresenza degli assistenti nel poco spazio vitale offrirono a Michelangelo occasioni, mirabilmente create e sviluppate, di forzare le posture accentuando le virtuosistiche torsioni e l’enfasi volumetrica delle membra e dei panneggi. Già dal Vasari veniva percepito il «disagio» di certe posizioni scomode e precarie. Tutto si esalta poi nella vivezza ardita della gamma cromatica nelle stoffe, dove le massime luci sfolgorano al calor bianco e i fantastici passaggi cangianti giustappongono le tinte al di fuori da ogni criterio naturalistico. A queste vesti rutilanti, Michelangelo non fece mancare accessori eccentrici come piastre, borchie, cordicelle e altro ancora, all’inseguimento di un’elusiva verisimiglianza sartoriale.

Anche negli atteggiamenti, la varietà corrisponde a momenti e stati d’animo individuali commentati specialmente da Vasari. Zaccaria cerca un passo nel suo libro senza trovarlo, la bellissima Delfica si concede una pausa assorta, Gioele (proposto come ritratto di Bramante) si concentra sul rotolo, Isaia concede signorile attenzione a un fanciullo agitato, la diafana Eritrea riflette nell’ora del crepuscolo, la Cumea o Cumana riversa nella lettura la sua energia di anziana risoluta, Ezechiele discute con un assistente, Daniele «scrivendo in un gran libro, cava di certe scritte alcune cose e le copia con una avidità incredibile»27 gravando su un giovanissimo telamone che riceve luce da sotto, la Persica magra e adunca si gira su se stessa nella lettura. La fiorente Libica chiude il libro (cercando con difficoltà di liberare il lembo della veste impigliato sotto il dado poggiapiedi) e, avendo già iniziato a spogliarsi a partire dalle maniche, si alza per andare a dormire, mentre i suoi assistenti parlottano, già infagottati nelle coltri. È la figura dove con maggior dovizia (e con una sorta di rispettoso divertimento) Michelangelo disseminò indizi relativi all’ora del giorno, alle feriali azioni in corso o imminenti, all’attitudine «donnesca»28. In realtà la posa ruotata della Libica fu studiata dal vero su un giovane garzone (New York, The Metropolitan Museum, inv. 24-197-2 recto e verso, del 1511-1513)29 e nel «montaggio» degli studi preparatori separati per il torso e le gambe, la donna ebbe la coscia allungata fuor di misura. Viene in mente la finissima osservazione di Eugène Delacroix: «Sembra che, facendo un braccio o una gamba, non pensi che a quel braccio o a quella gamba, ignorandone del tutto qualunque rapporto [...] perfino con quella del personaggio di cui delinea gli arti. [...] In ciò risiede il suo grande merito: conferire grandezza e terribilità anche a un arto isolato». (Journal 1822-1863) In Geremia si videro «la malinconia, i pensieri, la cogitazione e l’amaritudine»30 in rapporto con le sue severe profezie.

Una posizione di prevalenza sulla parete d’altare fu conferita a Giona, il profeta della Resurrezione, ma anche della penitenza e del perdono nel suo rapporto con Ninive. A partire dai biografi si ammira l’artificio pittorico grazie al quale il profeta, investito dalla parola di Dio, è rappresentato mentre si ritrae all’indietro con un sobbalzo, in contraddizione con la parete ricurva, «opera stupenda e che ci dichiara quanta scienza sia in questo uomo nella facultà del girar le linee, ne’ scorci e nella perspettiva»31. Come studio per la testa di Giona si considera il foglio con una Testa volta verso l’alto (Firenze, Casa Buonarroti, inv. 1 verso, avente per modello l’Alessandro morente, scultura di età ellenistica nelle collezioni medicee, oggi nella Galleria degli Uffizi).

Le vele e le lunette sono dedicate alla Genealogia (o Generazione) di Cristo secondo varie fonti, tra le quali il Vangelo di Matteo e il commento di Origene al Libro dei numeri. Tra i precedenti figurativi di questa rara iconografia, saranno da considerare le quindici vetrate quattrocentesche in Santa Maria del Fiore a Firenze dove, con disegni di Lorenzo Ghiberti e aiuti, erano stati raffigurati sessanta personaggi scelti fra gli Antenati di Cristo.

Nelle vele gruppi familiari di adulti e bambini, anch’essi Antenati collegati a quelli indicati nelle lunette sottostanti, sono accasciati a terra in pose compresse, come in un temporaneo riposo durante una tribolata migrazione del popolo d’Israele. La stesura pittorica, con i suoi effetti di indistinto verso il fondo scuro, assorbe queste figure in una dimensione sfuggente.

Nelle lunette (rimaste in numero di quattordici), i nomi nelle tabelle indicano le generazioni di appartenenza dei personaggi dipinti, anche qui adulti con bambini. L’assenza di attributi specifici dei personaggi permise a Michelangelo di proporre una gran varietà di tipi fisici e di età, di atteggiamenti e di umori, di abbigliamenti antichi e moderni e di accessori singolari (forse ispirati alle fogge in uso presso gli ebrei del tempo) nel mobile e sapiente gioco chiaroscurale dei vani immaginari poco profondi, rischiarati dalle finestre reali. Nel predisporre agli Antenati questi limitati alloggiamenti, Michelangelo non rinunciò a toccare il tasto dell’inganno visivo che percorre l’intera Volta. Alcune figure sporgono i piedi nel vuoto e un bambino, a sinistra di Achim, nell’oltrepassare il limite dello spazio pittorico che gli appartiene intuisce il pericolo e si aggrappa all’adulto con visibile spavento. La modulazione luministica a sua volta allude alla capienza illusoria dei siti: la luce sfiora i risalti sporgenti in avanti mentre sul fondo si stagliano, riemerse grazie alla pulitura, eteree ombre portate.

Scelte brillanti e perfino ardite nelle pose e nei volti (qualcuno dei quali al limite del caricato) fanno di questa ‘galleria’ di ritratti arbitrari una comunità d’incisiva presenza. Se le donne hanno piccoli arnesi per le tipiche attività femminili o intrattengono i bambini, negli uomini prevalgono gli atteggiamenti di meditazione, di lettura e di scrittura. Ma quel che affascina è la gamma amplissima degli stati d’animo suggeriti da sguardi e gesti, che include la tenerezza, il sospetto, la stanchezza, la concentrazione, l’attesa, l’inquietudine e altro ancora, in una sorta di esercitazione da parte del pittore che ha per risultato un autentico campionario emotivo, ciò che Roberto Longhi definì «quei suoi incredibili ricuperi di paleostoria biblica a forza di sarcasmi e di blasfemia».

Le tinte piene e pure sono accostate in audaci contrasti, che ebbero l’immediata conseguenza di una svolta nella pittura di quel momento, via via che i pittori – specialmente i toscani come Andrea del Sarto, Beccafumi, Rosso e Pontormo – registrarono gli splendori e i cangiamenti della tavolozza di Michelangelo (annunciati dal Tondo Doni) e vi si adeguarono dando luogo allo stile della prima Maniera.

Ancor più a lungo nel tempo si protrasse l’effetto della costruzione illusionistica della Volta, fondata sul maneggio inventivo e flessibile della prospettiva e del chiaroscuro da considerare capostipite degli inganni ottici a venire, fino al virtuosistico quadraturismo fiorito nel XVII secolo.

Chi si occupa della Volta Sistina, si trova a confrontarsi con almeno tre ordini di smisurata grandezza senza precedenti: la vastità del luogo, accompagnata dal fattore della vertiginosa altezza; l’altissimo tenore del soggetto trattato, dalla Creazione all’avvio – profetico e genealogico – della Redenzione dell’umanità; l’immensità dell’esito artistico, che avrebbe cambiato il corso della pittura e non soltanto fin dal suo apparire.

A questa molteplice grandezza corrisponde, da parte degli specialisti, uno strenuo impegno nell’approfondimento degli aspetti tecnici, documentari, storico-artistici, interpretativi. Dopo l’avanzamento conoscitivo reso possibile dal restauro del 1979-1989, hanno preso speciale risalto gli studi dedicati all’iconografia, con proposte assai diverse tra loro per l’interpretazione del grandioso ciclo pittorico, sia in sé, sia in rapporto con le pitture preesistenti e con il conclusivo Giudizio Universale di Michelangelo stesso. Da parte del pubblico internazionale si è intensificata, se possibile, l’ammirazione per questo capolavoro unico delle arti di tutti i tempi.

Un lungo intervallo

Conclusa l’immensa impresa della Volta Sistina, Michelangelo poté tornare alla scultura e occuparsi di architettura e d’ingegneria militare, anche a causa di circostanze politiche e dinastiche bruscamente mutevoli: questo periodo travagliato, ma coincidente con la creazione di statue di suprema qualità e notorietà (e, naturalmente, con una ininterrotta pratica del disegno), durò circa venticinque anni.

Il successore di Giulio II, morto nel 1513, era stato Leone X, ovvero Giovanni de’ Medici, suo coetaneo e figlio del suo primo protettore Lorenzo il Magnifico, che lo aveva accolto nel palazzo di via Larga a Firenze. Già dal 1512 i Medici erano rientrati nella loro città indebolendo il regime repubblicano e oltre ai giovani capitani Lorenzo, duca d’Urbino, e Giuliano, duca di Nemours, al governo cittadino era il cardinal Giulio, cugino del papa. A Roma, Michelangelo proseguiva la Sepoltura di Giulio II grazie a un nuovo contratto con gli eredi: sono di questo tempo i due Prigioni oggi al Louvre, il Morente e il Ribelle, nonché il celeberrimo Mosè. Ben presto però Leone X lo incaricò di imprese gravose e dopo la cappella papale in Castel Sant’Angelo (1514) affidò all’artista, vincitore di un concorso nel 1516, la facciata di San Lorenzo a Firenze; poi, annullato nel 1520 il contratto per la facciata, il progetto per una cappella in San Lorenzo destinata ad accogliere le tombe di Lorenzo e Giuliano, mancati prematuramente, e quelle dei magnifici Giuliano e Lorenzo di Piero, ancora in attesa di degna sepoltura. Morto Leone X nel 1521, il cardinal Giulio continuò a seguire Michelangelo nella creazione della Sagrestia Nuova, capolavoro di architettura e di scultura mai veramente finito dall’artista, e tuttavia ai vertici dell’arte universale. Nel frattempo aveva scolpito, in due versioni, il Cristo risorto per Santa Maria sopra Minerva e portava avanti (senza finirle) le statue per la tomba di Giulio II, quattro Prigioni e il gruppo della Vittoria.

Nel 1527, la situazione politica nella penisola italiana fu profondamente alterata. Calato l’esercito di Carlo V, responsabile dell’atroce Sacco di Roma del 1527, i Medici furono di nuovo cacciati da Firenze. Sotto la minaccia dell’assalto imperiale, la città provvide a rinforzare le sue difese e a Michelangelo fu assegnato l’ufficio di governatore delle fortificazioni. L’artista, riluttante, per cinque mesi si era rifugiato a Ferrara prima di accettare, temendo sanzioni da parte della Repubblica.

In quel periodo aveva dipinto per il duca Alfonso I d’Este, che da anni desiderava un suo quadro, una Leda e il cigno, di cui l’originale si crede perduto: mai consegnato al duca bensì donato all’assistente Antonio Mini, pare venisse bruciato alla corte di Francia alla fine del XVII secolo, ma è noto da disegni preparatori, copie, derivazioni dipinte e a stampa. La Leda recumbens avvolta dal cigno-Giove in un amplesso di conturbante naturalismo, corrisponde all’ideale eroico di bellezza muliebre coltivato da Michelangelo in pittura e in scultura, mostrando particolari affinità con la Notte della Sagrestia Nuova di San Lorenzo.

Alla caduta della Repubblica, nel 1530, dovette nascondersi per sfuggire all’ira del papa, ch’era dal 1523 Clemente VII, già cardinal Giulio de’ Medici. Questi, riconciliatosi con l’imperatore, aveva riconquistato Firenze per la famiglia e perdonò Michelangelo affinché tornasse a lavorare in Sagrestia Nuova. Per il commissario papale Baccio Valori l’artista scolpì allora il David-Apollo poi entrato nelle raccolte medicee.

Col nuovo signore di Firenze, Alessandro de’ Medici, Michelangelo sentiva tutto il disagio della propria posizione antimedicea, tanto da orientarsi sempre più decisamente verso Roma, dove già coltivava amicizie importanti nella sua vita affettiva, tra le quali specialmente quelle con Tommaso de’ Cavalieri e Vittoria Colonna.

Nel tempo estremo della sua vita, Clemente VII lo volle a Roma per dipingere la parete d’altare della Cappella Sistina e fu così che Michelangelo non tornò più a Firenze, trascorrendo a Roma gli ultimi trent’anni della sua lunga vita.

«Per amore e non per obrigo»

Fin dalla gioventù, tra Firenze e Roma, Michelangelo rese disponibili disegni e cartoni di sua invenzione e di sua mano ad altri artisti, amici o assistenti, affinché li traducessero in pittura. Oltre al barbiere del cardinal Riario, ne beneficiarono sicuramente Jacopo Pontormo, Sebastiano del Piombo, Ascanio Condivi, Marcello Venusti, Daniele da Volterra. Ad altri, ammiratori e richiedenti ostinati, Michelangelo contrappose concessioni riluttanti o dinieghi (e nel caso di Pietro Aretino, negandogli dei disegni se ne attirò il pericoloso rancore). Ben diversi i casi di disegni amorosamente eseguiti e liberamente donati come pegno d’amicizia, che, definiti dagli specialisti presentation drawings – disegni d’omaggio – si distinguono entro il corpus michelangiolesco per l’alto grado di finitezza che li differenzia dagli appunti, schizzi e studi compositivi.

Risalgono agli anni fiorentini le «teste divine» donate agli amici, tra i quali Gherardo Perini; e si ritiene che potesse essere un dono per Andrea Quaratesi il misterioso soggetto all’antica Saettatori che mirano a un’erma (Windsor Castle, Royal Library, inv. 12778).

Ma Michelangelo perfezionò il genere del disegno d’omaggio per Tommaso de’ Cavalieri, il gentiluomo romano incontrato nel 1532 e frequentato, con fedele amicizia, fino alla morte. Tra le «carte stupendissime» dedicate al Cavalieri vi sono i quattro fogli ricordati da Giorgio Vasari: il Ratto di Ganimede (Cambridge, Fogg Art Museum, Harvard University Art Museums, inv. 1955.75), la Punizione di Tizio (Windsor Castle, Royal Library, inv. 12771), la Caduta di Fetonte (Windsor Castle, Royal Library, inv. 12766) e un Baccanale di putti (Windsor Castle, Royal Library, inv. 12777). Al Cavalieri appartenne anche il foglio con le Due Cleopatre (Firenze, Casa Buonarroti, inv. 2F recto e verso).

Risalenti agli anni 1533-1535 circa, raffigurano soggetti mitologici e allegorici densi di significati morali, di complessa interpretazione, che in linea generale mettono in guardia contro i rischi della tracotanza e dell’eccesso, seguiti dalla punizione: il solo Ganimede allude all’ascesa di un giovinetto amato. Nello stesso decennio, tra il 1535 e il 1536, si colloca l’invenzione nota come Sogno della vita umana, in un disegno autografo (Londra, Courtauld Institute Galleries) forse anch’esso donato al Cavalieri. Un atletico giovane nudo, reclino, appoggiato al mondo, vien risvegliato dallo squillo d’un araldo alato, angelo del Giudizio o Fama, mentre ancora permangono intorno a lui, nelle nebbie della visione, allegorie dei Vizi capitali. Tra i presentation drawing di questo periodo vengono inclusi anche i fogli con Tre fatiche di Ercole (Windsor Castle, Royal Library, inv. 12770) e Sansone e Dalila (Oxford, Ashmolean Museum, inv. P.II n. 319).

A un’altra profonda amicizia sono da collegare celebri disegni d’omaggio di soggetto sacro: quelli donati a Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, che l’artista frequentò dal 1531 alla morte di lei, nel 1547, nel segno di un’intensa e condivisa ricerca spirituale. A richiesta di lei, l’artista disegnò verso il 1531 un Noli me tangere (l’incontro fra la Maddalena e Cristo risorto) che altri artisti, fra i quali Pontormo, tradussero in pittura. Alla marchesa, donna e poetessa di viva sensibilità partecipe dei dibattiti religiosi del ‘circolo di Viterbo’, Michelangelo donò il Crocifisso vivo tra due angeli dolenti (1538-1541; Londra, British Museum, inv. 1895-9-15-504), che ella osservò ammirata «al lume et col vetro et col specchio»32. Il disegno con la Pietà (Boston, Isabella Steward Gardner Museum, inv. 1.2 o/16 [14.0/60]), descritto dal Condivi, scaturisce da una dolente meditazione sul sacrificio di Cristo e sulla partecipazione della Madonna alla Redenzione, che Michelangelo portò anche nella scultura con le tragiche Pietà marmoree, Bandini a Firenze, Rondanini a Milano. Ancora un’invenzione di soggetto evangelico per la Colonna fu l’incontro fra Cristo e la Samaritana al pozzo, a completare con la Madre e la Maddalena la triade delle presenze femminili nella vita di Cristo, che ispirò le fervide meditazioni e le creazioni poetiche della marchesa.

Il Giudizio Universale: l’avvio dell’impresa

Michelangelo aveva ultimato la Volta Sistina nel 1512, e da allora non erano mancate le traversie nella Cappella: la perdita di due storie quattrocentesche in un crollo (1522), il danneggiamento della parete d’altare per un principio d’incendio (1525), la chiusura delle due finestre in quella stessa parete.

A partire dal luglio del 1533 Clemente VII venne impegnando Michelangelo nel suo proposito di dipingere la parete d’altare con un nuovo soggetto, che fu infine individuato nel Giudizio Universale: un percorso di riflessioni e, forse, di ipotesi scartate, che non sembra sostenere la teoria pur autorevolmente avanzata, del programma iconografico unitario per l’intera Cappella svolto in piena coerenza da un pontefice all’altro. L’artista era riluttante ad accettare la sfida della grande parete, che lo avrebbe distolto ancora una volta dagli impregni presi per la tomba di Giulio II, ma dopo la morte del papa Medici (25 settembre 1534), il successore Paolo III gli confermò irrevocabilmente l’incarico, tacitando i Della Rovere.

Benché siano scarsi i disegni preparatori dell’insieme giunti fino a noi, sono sufficienti a dimostrare che, dopo aver tentato di mantenere gli affreschi quattrocenteschi, compresa l’Assunta del Perugino, e le due lunette dipinte da lui stesso con Abraam, Isaac, Iacob e Iudas e Phares, Esron e Aram, maturò la decisione di demolirli per disporre dell’intero spazio.

Secondo i suoi biografi Michelangelo, approntati i disegni e i cartoni necessari, lasciò che fosse l’amico Sebastiano del Piombo a curare la preparazione della parete, per cui furono allestiti i ponteggi nell’aprile 1535. Ma trovando poi una «incrostatura» predisposta per la pittura a olio, si rifiutò di lavorare e richiese che si facesse una foderatura di mattoni sulla quale stendere l’arriccio, questa volta adatto per l’affresco, il «buon fresco» della tradizione toscana che egli stesso aveva applicato, con successo dopo le incertezze iniziali, nella Volta. L’episodio causò la rottura del legame d’amicizia che aveva unito, con ricadute professionali, il Fiorentino e il Veneziano. Alla fine di questa complessa trattativa col papa, Michelangelo ottenne la carica ben remunerata di supremo architetto, scultore e pittore del Palazzo Apostolico e la commissione del Giudizio. Il cantiere entrò in attività dal 25 gennaio 1536 e già a maggio, se non prima, Michelangelo si procurava i colori, a partire dal costoso azzurro «oltramarino»33. Paolo III si recò di persona allo studio di Michelangelo a Macel de’ Corvi a prender visione del progetto34.

Ma chi aveva diretto, o affiancato Michelangelo nella messa a punto del possente, anzi «terribile» soggetto? E da quali precedenti, nel vasto panorama dei Giudizi già dipinti nella Penisola e a Nord delle Alpi, poteva aver tratto ispirazione?

Fonti dottrinarie, poetiche, iconografiche

Come per la Volta, è difficile se non impossibile risalire a nomi, titoli, opere alle quali Michelangelo possa essersi riferito con certezza. Dato per scontato Giovanni Evangelista, autore dell’Apocalisse, Dante è lo scrittore che i contemporanei subito chiamarono in causa; la Commedia il testo (familiare all’artista) che indicarono come fonte. E certo, anche prescindendo da citazioni letterarie come Caronte e Minosse, sono la grandiosità del concetto, l’intensità dell’orrore nei condannati, il sollievo ancora incredulo dei salvati, la maestà terribile dei Novissimi nello scenario ultraterreno, che captano e restituiscono in termini figurativi la visione teologica e poetica dell’Alighieri. E per fonte figurativa, tra i pur tanti Giudizi preesistenti – anche di fiorentini come i maestri dei mosaici del Battistero, Buffalmacco a Pisa, Giotto a Padova, Beato Angelico nei dipinti su tavola, e più di recente Fra’ Bartolomeo a Firenze – fu Vasari a indicare gli affreschi di Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto, ultimati nel 1502, all’origine delle folle di risorti ignudi, tra angeli e demoni che ruotano attorno al Cristo Giudice nella gran parete Sistina.

Merita tuttavia portarsi nelle vicinanze di tempo e di circostanza, per individuare – come propone Bussagli35 – un’ulteriore e verosimile fonte di ispirazione nel poema Iudicium Dei supremum de vivis et mortuis (1506), di Giovanni Antonio Sulpizio detto il Verolano, l’umanista che era stato maestro di retorica latina del papa, al secolo Alessandro Farnese. Il testo getterebbe luce specialmente su alcune scelte iconografiche inusuali di Michelangelo, che i censori del Giudizio accusarono di implicazioni eretiche: il Cristo glabro e apollineo, assimilato al Sole dal Verolano; gli angeli apteri, ovvero senz’ali a causa della loro contiguità con i diavoli dovuta alla comune origine prima della caduta di Lucifero e dei suoi seguaci. Se si condivide questa ipotesi, il papa stesso avrebbe potuto indicare a Michelangelo il testo di riferimento e, in coerenza con tale scelta, difendere poi l’affresco da chi accusava l’artista di aver introdotto ‘anomalie’ iconografiche in un soggetto così alto, in una sede ecclesiale così sommamente rappresentativa.

Spazio e figure

I due disegni noti (Bayonne, Musée Bonnat, inv. 1217 recto; Firenze, Casa Buonarroti, inv. 65 F recto) per la parte centrale della complessa composizione, databili entro la metà del 1534, rivelano che Michelangelo si concentrò fin dall’inizio sulla figura di Cristo giudice, attorniato dalla Madonna e dai santi su nuvole e da una folla turbinante e agitata, e che previde il flusso ascendente dei risorti sulla sinistra e quello discendente dei dannati sulla destra, con un effetto che ricorda la composizione del suo primo maestro di scultura, Bertoldo di Giovanni, nella dimensione minima della Medaglia di Filippo de’ Medici.

Michelangelo finì l’opera nel 1541, dopo cinque anni d’intenso lavoro. Tra i pochi aiutanti che aveva avuto il più assiduo fu Francesco Amadori detto l’Urbino, che probabilmente dipinse alcune figure nella zona in basso a sinistra con i risorti, di conduzione mediocre; un limitato intervento che forse coincise con l’assenza di Michelangelo in seguito a una brutta caduta dal ponteggio, si crede nei primi mesi del 1541. La grande opera pittorica è dunque sostanzialmente tutta autografa.

La parete risulta dipinta a buon fresco, ma con estese applicazioni a colla del prezioso oltremare naturale, la tinta dominante nel fondo, che ricorre anche nelle vesti e nei riflessi sulle superfici bianche. Si ritrovano nell’opera pentimenti e rifacimenti di parti, e perfino modifiche di pose e atteggiamenti di alcune figure.

Alla prima impressione, il Giudizio trasmette sensazioni sconvolgenti e confuse all’insegna del movimento simultaneo, sia delle masse, sia dei gruppi, sia degli individui, in un vuoto azzurro privo di punti di riferimento se non in basso, dove si attestano luoghi terreni e ultraterreni. La semplice descrizione dunque di quell’immensa composizione – finestra aperta su uno spazio immaginario, teatro di eventi trascendenti – ha sempre costituito una sfida per i commentatori, tanto che perfino Vasari incontrò notevoli difficoltà. Un attendibile percorso visivo fu invece suggerito dal Condivi, certo grazie alle indicazioni di Michelangelo stesso, anzitutto dividendo idealmente il campo in cinque parti – «destra e sinistra, superiore e inferiore e di mezzo»36 – e portando l’attenzione sulla mezzeria dove gli angeli tubicini fungono da cerniera concettuale fra Cristo sopra e la Bocca dell’Inferno sotto. Gli angeli meritano inoltre d’esser menzionati per primi, perché quali veri e propri araldi annunciano l’inizio del secondo dei Novissimi, che vediamo svolgersi nell’arco d’una giornata tremenda e decisiva. Gli angeli mostrano anche i libri delle coscienze, grande quello dei peccatori, piccolo in confronto quello dei giusti.

Nell’alba pallida della dies tubae et clangoris (secondo l’inno di Tommaso da Celano, Dies irae, dies illa), al richiamo delle trombe rispondono i defunti: è la resurrezione della carne, che si svolge con accenti macabri e patetici nella spoglia pianura in basso a sinistra, la brulla Valle di Giosafat. Scheletri avvolti nei sudari escono dalle tombe e dalle fosse, riprendono la carne, iniziano ad ascendere verso il giudizio. Unica figura discordante è quella di un religioso tonsurato in saio, che assiste i resuscitati. I risorti in parte ascendono verso la salvezza, in parte, ghermiti dai diavoli, vengono avviati alla dannazione. Dalla Valle contigua alla Bocca, il percorso delle anime ascendenti conduce al Cristo Giudice: «Sopra li Angioli delle trombe è il Figliuol de Iddio in maestà, col braccio e potente destra elevata, in guisa d’uomo che irato maledica i rei e li scacci dalla faccia sua al fuoco eterno, e con la sinistra distesa alla parte destra par che dolcemente raccolga i buoni» scrisse il Condivi con perspicacia, certo istruito da Michelangelo stesso37. La duplicità del gesto di Cristo è sfuggita a molti commentatori, a partire da Vasari, che vi scorse solo l’ira contro i peccatori38, mentre il Giudice emette anche, e non meno chiaramente, sentenze di misericordia verso i giusti chiamandoli a sé con mossa rassicurante. Esecutori delle sentenze, gli angeli aiutano a salire gli eletti e ricacciano i reprobi, che dal canto loro sono tirati dabbasso a opera dei diavoli. Nel settore dei beati, collaborano con gli angeli anche altre figure, da ritenersi uomini e donne più sicuramente e speditamente salvati, che aiutano i pericolanti a salvarsi a loro volta, in un ruolo di cooperatori, adiutores, ispirato a un passo fondamentale di san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (3, 9). Come potente strumento di salvezza ha una speciale evidenza il rosario, corona di preghiere introdotta da san Domenico nel 1214, capace di far salire due risorti insieme. È un’intensa, partecipe resa visiva della comunione dei santi contenuta nel Credo.

Dall’altra parte i dannati sprofondano in atti disperati e rabbiosi, già tormentati da diavoli orridi e beffardi che li trascinano vero l’Inferno, dove approdano altri reprobi spinti a terra dal traghettatore Caronte per subire il giudizio di Minosse, che in atto dantesco «avvinghia» un serpente mordace al corpo nudo. Come è noto, nel giudice infernale (che ha le orecchie asinine del falso intendente d’arte) Michelangelo raffigurò il maestro delle cerimonie Biagio da Cesena, che aveva criticato davanti al papa l’eccesso di nudi nell’affresco.

Si è ritenuto che nella potente composizione non vi sia una successione cronologica, ma che tutto sia «presente» nella sospensione che precede la sentenza, e che «comunica un’angosciosa incertezza» della salvezza finale39. Ma un’attenta visione della pittura sembra suggerire altro: il Giudizio si viene svolgendo a ogni verdetto emesso, di assoluzione e di condanna, e l’umanità si divide tra chi è già stato giudicato e raggiunge la sua destinazione, e chi invece resta sospeso e conteso. Ora per ora in quella fatidica dies, l’ultima giornata del tempo terreno, l’umanità giudicata s’inoltra nella dimensione ultraterrena e atemporale dell’Eternità.

Cristo domina l’Empireo al centro d’un alone splendente, del quale partecipa la Madre Maria: colto nell’atto di alzarsi a emettere la duplice sentenza, ruota il busto poderoso e china la testa, abbassando lo sguardo con severità sui reprobi. Il gesto compassionevole della mano sinistra richiama una corrente di eletti provenienti da un’insondabile profondità, che premono per raggiungere il primo piano40. Al tempo stesso Egli con quella mano accenna alla piaga del costato: simbolo duplice (come il gesto, come l’ostensione in alto degli strumenti della Passione), che incoraggia i giusti e spaventa i peccatori. Glabro, e modellato sulla bellezza eroica delle statue ellenistiche – tra le quali si nomina sovente l’Apollo del Belvedere, ma non va dimenticato il Torso Gaddi visibile a Firenze – il Cristo michelangiolesco rappresenta una potente innovazione rispetto a qualsiasi precedente; così come è singolare la posa della Madonna, notata dal Condivi: «timorosetta in sembiante e, quasi non bene assicurata dell’ira e secreto de Iddio» 41 e da Vasari: «non senza gran timore della Nostra Donna che, ristrettasi nel manto, ode e vede tanta rovina»42. La Madonna sembra infatti rinunciare al Suo ruolo di Avvocata dell’umanità (che si riconosceva invece nella posa a braccia spalancate prevista per Lei nel disegno di Casa Buonarroti) e ripararsi in se stessa, come turbata della vista dei peccatori che la Sua intercessione presso il Figlio non è riuscita a salvare.

Una compagine di grandi santi si avvicina con reverenza e rispetto al Giudice: tra loro vi sono Giovanni Battista il precursore, Pietro (che riconsegna le chiavi, esaurito il suo ruolo di Vicario), con l’altro principe della Chiesa Paolo e, ai piedi del Giudice, i grandi martiri Lorenzo (arso vivo) con la graticola, Bartolomeo (scuoiato) con il coltello e la pelle floscia. In questa macabra insegna del martirio si riconosce l’autoritratto di Michelangelo, carico di amara ironia da parte dell’artista, che rappresenta se stesso come una vuota spoglia, sfruttata ed esausta. Altri santi ed eletti sono denotati dai loro attributi: Simone Zelota, il ladrone buono Disma, il Cireneo, Sebastiano, Biagio e Caterina, questi ultimi due in parte ridipinti per ‘vestirli’ nell’intervento di censura subìto successivamente dal Giudizio. L’addensamento dei santi a sinistra di Cristo è più fitto e occupa un livello intermedio rispetto alla parte simmetrica a destra, dove approdano i beati. In un cielo vuoto scandito solo da isole di nubi, le figure si dispongono in coppie, gruppi, sciami, costruendo architetture di corpi – muscolosi e risoluti quelli in primo piano, evanescenti e indistinti quelli verso lo sfondo – e con esse circoscrivendo le azioni, scandendo le distanze e suggerendo la profondità. Alcuni dei salvati si cercano e si riuniscono esprimendo la letizia con abbracci e baci. Ma la maggioranza porta nel volto i segni della prova subìta, cosicché non tanto la gioia, quanto il sollievo per l’immenso pericolo scampato, il terrore retrospettivo per il rischio corso, l’abbacinato stupore per la visione del proprio destino ultraterreno, splendido e tuttavia sconvolgente, traspaiono dai corpi protesi, dai lineamenti contratti, dagli occhi sgranati. Nella pittura di Michelangelo, simili temperie emotive avevano connotato la precipitosa risalita dei soldati della Battaglia di Cascina e la speranzosa arrampicata di un nuotatore sull’isolotto del Diluvio: e molti dei beati, infatti, paiono naufraghi ai quali lo sfinimento preclude ancora il godimento della salvezza.

La potente scena del Giudizio – il cui tema sonoro, dopo gli squilli di tromba angelici, è la voce di Cristo su un sottofondo di armonie celesti, di urla e stridor di denti – culmina in alto nelle due lunette con gli angeli che mostrano gli strumenti della Passione. Quasi vessilli alzati dalle atletiche coorti celesti che volano senz’ali, quei simboli di Redenzione confortano i giusti e atterriscono i reprobi.

Quanto il Giudizio esaltasse l’umanità in tutte le sue potenzialità esteriori e nello sfumato universo dei suoi affetti interiori, lo colsero immediatamente i contemporanei a cominciare da Giorgio Vasari, al quale si deve un lungo panegirico dell’opera e dell’artista: «questo uomo singulare non ha voluto entrare in dipignere altro che la perfetta e proporzionatissima composizione del corpo umano et in diversissime attitudini; non sol questo, ma insieme gli affetti delle passioni e contentezze dell’animo, bastandogli satisfare in quella parte [...] e mostrare la via della gran maniera e degli ignudi, e quanto e’ sappi nelle dificultà del disegno; e finalmente ha aperto la via alla facilità di questa arte nel principale suo intento, che è il corpo umano, et attendendo a questo fin solo...». Ma se alla maestria suprema nel disegno da parte di Michelangelo si devono sia la struttura segreta eppure solida delle diverse parti, sia le variazioni innumerevoli nella figure, è dal dominio della luce – radente e vivida nel primo piano, decrescente e azzurrata verso il fondo – che dipende l’effetto di gradualità prospettica umana, dalla tridimensionalità scultorea all’informe vaghezza dell’indistinto. E in coerenza con il diverso grado d’illuminazione, il colore, come rivelò la pulitura nel restauro degli anni 1990-1994, risplende in primo piano negli incarnati dalle varie intonazioni, nelle epidermidi diaboliche, nei panni vivaci, mentre si attenua nella lontananza, dove i campi chiari – occhi, canizie, sudari – accolgono i riflessi azzurri del cielo di lapislazzuli.

Ricezione del Giudizio

Ammirazione esaltata e profondo sconcerto accolsero la scopertura del Giudizio, il 1° novembre 1541, Ognissanti, ventinove anni dopo l’inaugurazione della Volta. L’amico letterato Anton Francesco Doni si azzardò a prevedere che Dio stesso, nel giorno del Giudizio, avrebbe imitato la parete sistina43.

Giorgio Vasari seppe captare la reazione di smarrimento che prova l’osservatore, anche se artista o esperto d’arte, di fronte all’affresco: «fa scuotere i cuori di tutti quegli che non son saputi, come di quegli che sanno in tal mestiero [...] mena prigioni legati quegli che di sapere l’arte si persuadono; [...] trema e teme ogni terribile spirito, sia quanto si voglia carico di disegno [...] i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone. [...] Certo fato bonissimo hanno a questo secolo nel suo nascere gli artefici, da che hanno veduto squarciato il velo delle difficultà di quello che si può fare et imaginare nelle pitture e sculture et architetture»44.

Ma l’entusiasmo non fu generale. La comunità cattolica, segnata dai dolorosi scismi d’Oltralpe, era pervasa da un’ansiosa e fervida aspettativa di riforme moralizzatrici della Chiesa che fu all’origine della convocazione del Concilio di Trento (1545-1564): e a molti prelati – a partire dai cardinali teatini – parvero eterodosse le innovazioni di Michelangelo ed eccessivi i nudi, per il numero e per il risalto. Un suo sostenitore, il temuto letterato Pietro Aretino, passò dalla parte dei censori attaccando con violenza, a partire dal 1545, la «licenza» e l’«empietà». Il dibattito si allargò, anche grazie alla rapida diffusione di copie dipinte e di incisioni in tavole uniche o in fogli separati. A breve si sarebbero espressi negativamente anche Ambrogio Catarino Politi, il predicatore che pure Michelangelo aveva ascoltato con Vittoria Colonna tra il 1538 e il 1539; i cardinali Pole, Contarini, Sadoleto, Carafa (il futuro Paolo IV); il grande pittore El Greco; lo scrittore Giovan Andrea Gilio.

Il proposito di «emendare» il Giudizio si affacciò al tempo di Giulio III e di Paolo IV, ma toccò infine al Concilio di Trento a esprimersi in modo risolutivo, cosicché appena morto Michelangelo (18 febbraio 1564) furono intrapresi interventi di copertura delle pudenda con «brache» per mano di Daniele da Volterra, fedelissimo seguace del Buonarroti. Egli inoltre dipinse su porzioni d’intonaco nuovo san Biagio e santa Caterina, introducendo gli abiti. Altre e più rozze «brache» furono distribuite nei secoli seguenti, fino a raggiungere il numero di quarantadue modifiche, di cui le ventuno ritenute cinquecentesche furono mantenute nell’ultimo restauro e le altre ventuno rimosse45.

Il restauro concluso nel 1994 comportò, oltre alla rimozione delle «brache» spurie, una pulitura che tolse la mistura di nerofumo, polvere e colle alterate diffusa sulla superficie, permettendo il ritorno alla visibilità della composizione fino ai minimi dettagli, nella vicinanza e nella lontananza. Una breve descrizione del XIX secolo lascia intendere quanto la parete fosse prima offuscata: «è come una sterminata scultura sur un fondo scuro, misteriosamente rischiarato qua e là da una luce non descrivibile»46. Risulta ora evidente lo schema delle linee d’unione fra le diverse porzioni di pittura murale azzurra del cielo, per attenuare il quale Michelangelo poté forse eseguire stesure a secco, in seguito perdute.

La ritrovata leggibilità, tempestivamente testimoniata e diffusa da nuove campagne fotografiche, consente una visione più particolareggiata e autentica della parete, confermando la suprema altezza inventiva e pittorica del Giudizio Universale, intessuto di sottigliezze dottrinarie non meno che di arditissime conquiste artistiche.

La Cappella Paolina

Nel 1541 Michelangelo, giunto a conclusione del Giudizio, poté riprendere i lavori di scultura per la tomba di Giulio II che, con l’aiuto di Raffaello da Montelupo e d’altri collaboratori, portò a compimento in San Pietro in Vincoli, sia pure in forma assai ridotta rispetto al grandioso progetto originario, nel febbraio 1545.

In quegli anni si veniva costruendo nel Palazzo Apostolico la cappella privata del papa, dedicata a san Paolo, con il progetto e la direzione di Antonio da Sangallo: mentre si completavano i lavori architettonici e d’arredo, Paolo III incaricò Michelangelo di affrescare alle pareti, l’una di fronte all’altra, la Conversione di Saulo e la Crocifissione di San Pietro, anche se per la seconda pare che all’inizio si fosse pensato a una Consegna delle chiavi. Almeno fin dal novembre del 1541, quindi in sequenza cronologica serrata con il Giudizio sistino, Paolo III intendeva affidare quel lavoro all’artista, sessantottenne e di salute malferma47, ma la dipintura della Conversione iniziò solo nel novembre del 1542. L’impresa subì interruzioni per vari motivi: malattie di Michelangelo, il suo nuovo incarico di architetto di San Pietro e della piazza del Campidoglio, un incendio nella cappella. L’ultima visita di Paolo III al cantiere ebbe luogo il 13 ottobre 1549 (poco prima della sua morte), quando la Crocifissione era quasi ultimata; i due riquadri erano finiti nel 1550, sotto Giulio III.

La cappella ospitava funzioni di altissima importanza nella vita religiosa del palazzo. Oltre che accogliere il Santissimo Sacramento (come ancor oggi), ospitava il Sepolcro della Settimana Santa e la macchina delle Quarant’Ore. Fino al 1670 vi si svolsero le votazioni del conclave e in essa il papa, appena eletto, veniva vestito dei paramenti pontificali e riceveva l’omaggio del collegio cardinalizio.

La sua ornamentazione proseguì dopo Michelangelo con gli stucchi della volta e delle pareti di Prospero Fontana e d’altri, e le pitture murali di Lorenzo Sabbatini e Federico Zuccari, dedicate agli Atti degli apostoli Pietro e Paolo, negli anni tra il 1573 e il 1585, sotto il pontificato di Gregorio XIII. In ragione di questa cruciale centralità della cappella, l’esegesi delle due scene michelangiolesche si è orientata alla ricerca delle fonti antiche e moderne in rapporto alle funzioni dell’ambiente48. In particolare è stato notato che la criticata asimmetria delle due composizioni, il cui fulcro iconografico non occupa il centro, dipende da un espediente prospettico messo in atto da Michelangelo per adeguarle alla visione dinamica di chi cammina verso l’altare.

Assistito dal fido Francesco Amadori, detto l’Urbino, e dallo scalpellino Tommaso Boscoli (attivo al suo fianco anche per la tomba di Giulio II), Michelangelo lavorò con discontinuità e con fatica. Sebbene la base delle due scene sia il «buon fresco» con i suoi vividi colori e la sua salda tenuta, guidato dai cartoni trasferiti a incisione o più spesso a spolvero, non mancano indizi che fanno supporre un controllo allentato da parte dell’artista. Lo schema delle giornate risulta fitto e incoerente, le linee d’unione tra le giornate appaiono poco curate, i ritocchi a secco sono numerosi.

«Queste furono l’ultime pitture condotte da lui d’età d’anni settantacinque – riferì Vasari – e, secondo che egli mi diceva, con molta sua gran fatica, avenga ché la pittura, passato una certa età, e massimamente il lavorare in fresco, non è arte da vecchi»49.

La Conversione di Saulo

Benché eseguite in successione, nello spazio relativamente stretto della cappella, le due scene si osservano con un certo grado di simultaneità, passando dall’una all’altra e, se si cammina lungo l’asse longitudinale, apprezzando il dinamismo trasfuso da Michelangelo in queste scene di massa, con oltre cinquanta figure ciascuna.

Nella Conversione, per la cui iconografia la fonte sono gli Atti degli Apostoli (9, 1-19), l’implacabile persecutore dei primi cristiani Saulo di Tarso viene mostrato mentre con il suo seguito si reca nella città di Damasco. La luce e la voce di Cristo lo folgorano, accecandolo e gettandolo a terra: «all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”». Era da tempo entrata nelle convenzioni iconografiche del soggetto la rappresentazione del gruppo come un drappello di soldati romani e di Saulo a cavallo. Michelangelo inserì la scena fra le paraste scanalate di ordine corinzio, aprendo al di là di esse la vista di una vuota campagna dove, unico punto di riferimento, si scorge sulla destra Damasco, evocata nelle sue nobili architetture da tocchi evanescenti di pittura d’impronta antichizzante. L’evento è colto nell’attimo in cui si toccano, nel drammatico dialogo, le sfere del divino e dell’umano. In alto si manifesta Gesù Cristo, impetuoso come un vessillo rosso al vento nella sua discesa dall’alto dei Cieli, emanando una potenza che raggiunge Saulo con la luce e con la voce, schiantandolo. Attorno a Lui levita tra le nuvole un’autentica folla. Vi sono possenti angeli senz’ali apparentati con quelli del Giudizio che, ignudi, convergono verso Cristo; ma anche figure d’altro tipo e d’altra età, varie negli abiti e nelle fogge, per le quali ho proposto e confermo l’identificazione con le anime dei cristiani perseguitati da Saulo che, affacciate dal Cielo, assistono stupite e intente alla sua prodigiosa conversione50. Cristo stesso ne addita un gruppetto con l’indice teso della mano sinistra, mentre con la destra scocca la corrente luminosa in una duplicità di atteggiamento complessa e tuttavia persuasiva, che riprende l’analogo tema nel Giudizio sistino e che, come quello, tende a passare inosservata. Da terra, disarcionato e accecato, Saulo si protende verso la voce soprannaturale che anche i compagni odono, a loro volta atterriti dal prodigio. Sostenuto mentre tenta di rialzarsi, ha le sembianze di un anziano canuto e barbuto, secondo un’iconografia così raramente attestata, che si è pensato potesse adombrare il ritratto di Paolo III, allora più che settantenne. La struttura potente del corpo, nella posa riversa, presume un modello antico del ‘tipo’ del dio fluviale, noto a Michelangelo da celebri esempi presenti in Roma, come Marforio nel Foro di Augusto presso il tempio di Marte Ultore e più ancora i cosiddetti Nilo e Tevere, che egli stesso avrebbe fatto collocare presso la scala del Palazzo Senatorio in Campidoglio.

Sul manipolo militare sparpagliato si erge in fuga il cavallo fuori controllo, nervoso indicatore prospettico della profondità spaziale; un pentimento ritrovato nel corso del restauro mostra che la sua posizione originaria era diversa, e che solo in corso d’opera l’artista gli conferì quell’andamento brusco verso destra, che lo contrappone a Cristo. I compagni di Saulo, vedendo la luce senza udire la voce, manifestano una varietà di reazioni che va dal panico alla premura per il caduto, allo stupore e perfino all’indifferenza, come i soldati in basso, ascendenti da un imprecisato borro verso la pianura e ancora del tutto ignari dell’evento.

Quella dei militari e degli spiriti celesti nella Conversione è ancora l’umanità turbata ma vigorosa che si era vista nel Giudizio, formante a sua volta un’architettura di corpi intessuta di contrappunti cromatici, grazie agli incarnati saturi e ai panni contrastanti e squillanti, che il restauro ultimato nel 2009 ha fatto riemergere sotto spessi strati di sostanze alterate e scurite.

La Crocifissione di Pietro

Anche in questa scena il paesaggio è vasto e spoglio, con un profilo azzurro di montagne a delimitare un cielo pallido e un altopiano erto e brullo da cui si spicca uno sperone, là dove sta per essere conficcata, al contrario, la croce dell’Apostolo martire. Delle due ubicazioni che la tradizione medioevale assegnava al martirio di Pietro – il circo di Nerone sul colle Vaticano oppure «tra le mete di Romolo e Remo», ovvero sul Gianicolo, dove sarebbe sorto il tempietto di San Pietro in Montorio – è qui verosimilmente evocata la seconda.

Secondo la narrativa esposta negli Atti, e specialmente commentata da sant’Ambrogio, tutt’intorno si muovono gruppi di varia appartenenza e origine: cavalieri e soldati romani, seguaci cristiani, forestieri illustri venuti da Gerusalemme, visitatori dai Patriarcati d’Oriente a rappresentare l’Ecumene cristiana. La folla composita sale e scende per il poggio, servendosi anche di rustiche scale intagliate nella roccia, tracce delle quali furono ritrovate nel giardino e nelle strutture dell’Accademia di Spagna a Roma, sorta su quel terreno51. Per i tre soldati che salgono di spalle a sinistra, esiste un cartone originale autografo di Michelangelo (Napoli, Museo di Capodimonte, inv. 538).

Come in un mare agitato, correnti e gorghi si formano nello scontro dei gruppi diversi e in conflitto tra loro, dove la sola forma di governo spaziale è affidata alla variabile prospettiva dei corpi. Mentre da sinistra irrompe il manipolo dei cavalieri romani, attorno alla croce si addensano sia i carnefici nerboruti e brutali sia i cristiani sconvolti ma impotenti, i pellegrini scorrono salendo e scendendo con lenta determinazione, e infine in basso a destra quattro donne, emergenti da un’invisibile profondità, assistono al dramma con stupore inorridito.

Diversamente dal Giudizio e dalla Conversione, l’elemento divino è assente dalla Crocifissione: il cielo sopra Pietro, d’una tenera intonazione crepuscolare, ospita solo una lunga nube incombente. Sono dunque tutti mortali i partecipanti, a cominciare dal martire, che sulla croce forma il pernio di un ampio moto rotatorio messo in atto dagli sgherri, intenti allo sforzo di sollevare la croce per conficcarla nel foro già pronto. E se i carnefici hanno i volti deformati dalla loro fatica ottusa e crudele, è subitanea e violenta anche l’attitudine di Pietro, che sollevando un’ultima volta la testa lancia al di fuori del quadro (sul papa, sui cardinali, sui prelati della Curia) una penetrante occhiata d’ammonimento. Ancora una volta Michelangelo ha fissato la scena nell’istante fuggevole dell’acme: lo scatto del corpo vecchio ma possente di Pietro e il suo sguardo imperioso sono subitanei come il lampo e il richiamo di Cristo su Saulo.

La fierezza reattiva di Pietro, d’altronde, era un tratto del suo temperamento su cui gli evangelisti si erano soffermati e che gli artisti avevano colto mostrandolo, nell’Ultima cena, pronto a difendere Gesù col suo coltello. Michelangelo dipinse Pietro nudo e senza chiodi, innovazioni iconografiche subito criticate insieme con altri requisiti della scena ritenuti sconvenienti52 eche in seguito furono emendate facendo dipingere il perizoma e i chiodi, così come altri panni a mitigare i nudi più evidenti nella Conversione.

Nella folla, che ha ritrovato grazie al restauro il nitore delle forme e l’accesa cromia delle vesti – compreso l’intenso azzurro oltremare ottenuto con il lapislazzuli macinato –, si segnalano alcuni personaggi con ruoli riconoscibili. Nella terna dei cavalieri pagani, quello dal vistoso turbante blu parrebbe un autoritratto di Michelangelo, con tratti maturi ma non senili.Fra i cristiani annichiliti, il coraggioso giovane in tunica verde che accenna a ribellarsi, additando ai compagni la ferocia dei pagani e il martirio di Pietro, avrebbe i requisiti per esser identificato come Lino, volterrano di nascita e secondo papa dopo Pietro. Resta misteriosa la figura dell’alto incappucciato che scende con le braccia conserte, quasi sconfinando nello spazio dell’osservatore, che da alcuni vien ritenuto un autoritratto. La sua posa introspettiva suggerisce l’uscita di scena di un testimone, addolorato e riflessivo: è interessante il fatto che nel 1773 William Blake lo prendesse a modello per il suo San Giuseppe d’Arimatea fra le rocce di Albione. Nei due anziani ammantati di blu, si identificherebbero Apuleio e Marcello, che deposero Pietro morto di croce e lo seppellirono53.

Nelle quattro donne velate in primo piano, che mettono in scena il viscerale cordoglio femminile di ogni civiltà mediterranea, Michelangelo riversò i suoi ultimi colpi di pennello, a evocare la disperazione incredula di chi non riesce a staccare gli occhi dalla scena così come il dolore insostenibile di chi ne distoglie lo sguardo, lasciandosi sfuggire un grido o un gemito. «E questa è l’ultima opera che fin a questo giorno di lui s’è vista di pittura, – scrisse il Condivi tre anni dopo – la qual finì essendo d’anni settantacinque»54.

Con quest’ultima giornata di lavoro, dedicata a quattro figure femminili, Michelangelo chiudeva il suo rapporto con la pittura, ch’era similmente iniziato nel segno della donna per eccellenza: la Vergine Maria al centro della Madonna di Manchester e soprattutto, per riferirsi all’unica sua opera indiscussa di pittura, del Tondo Doni.

Michelangelo visse fino al 18 febbraio 1564, dunque ancora quindici anni, per quanto si sa senza più dipingere e, conclusa la tomba roveresca, dedicandosi a pochissime sculture: le Pietà Bandini e Rondanini (conservate rispettivamente a Firenze e a Milano), gruppi marmorei di drammatica intensità che trasmettono la memoria delle sue dolenti meditazioni sulla Redenzione e sulla morte. Negli anni estremi riprese in mano gli arnesi per sbozzare un piccolo Crocifisso in legno da donare al nipote Lionardo Buonarroti (Firenze, Museo di Casa Buonarroti). Riversò invece energie creative e immenso impegno nell’architettura sacra e secolare. La sistemazione di piazza del Campidoglio con il bronzeo Marc’Aurelio antico al centro, la direzione della Fabbrica di San Pietro e la progettazione della cupola, il cantiere di Palazzo Farnese, Santa Maria degli Angeli, Porta Pia furono gli obiettivi e gli scenari principali della sua attività senile, resa gravosa dall’età e dalle malattie, ma pur sempre creatrice d’invenzioni grandiose e di soluzioni innovative.

Michelangelo morì il 18 febbraio 1564 e a Firenze – dove la sua salma fu portata segretamente, trafugandola da Roma – il 14 luglio gli furono tributate solenni esequie in San Lorenzo: un privilegio da regnanti, mai toccato a un artista né prima né dopo, che proclamava agli occhi del mondo l’eccellenza divina da lui raggiunta nelle arti. Negli anni successivi, un elaborato monumento funebre sorse, a spese del nipote Lionardo, nella basilica di Santa Croce.

Benedetto Varchi, lo storico che per volere del duca Cosimo de’ Medici lesse l’orazione funebre di Michelangelo, ne parlò come di un «uno» e «quattro»: scultore, pittore, poeta, architetto. Quattro corone lo accompagnarono sul catafalco funebre. E tra i tanti elogi alla sua memoria, riprese il concetto quello di un tal Mario Bazanti: «questa piccola tomba racchiude quattro [uomini] egregi»55. In realtà, nella vita il Buonarroti si era proclamato a più riprese scultore. Michelangelo pittore, dunque, non esaurisce la grandezza di questo artista completo, padrone della materia come della parola.

E tuttavia, nella rigorosa coerenza del suo pensiero ispirato lo splendore della pittura include in filigrana la potenza della scultura, la maestà dell’architettura, le passioni riversate delle rime. Oltre alle singole arti, il composto d’esse raggiunse in Michelangelo un tenore altissimo che meritò l’esteso ricorso, da parte di Giorgio Vasari, all’eccezionale categoria critica della «terribilità»: prerogativa di un’espressione artistica di suprema potenza, che solo pochi artisti raggiunsero, e sempre attraverso la «difficoltà», in una ricerca instancabile del superamento dei propri stessi traguardi che aveva, come strumento principale, l’esercizio del disegno così strenuamente praticato nella Firenze rinascimentale dalla quale prese le mosse l’arte universalmente nota di Michelangelo.

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Venere e Amore. Michelangelo e la nuova bellezza ideale – Venus and Love. Michelangelo and the new ideal of beauty, a cura di F. Falletti, J.K. Nelson, catalogo della mostra, Firenze 2002

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La Sistina e Michelangelo. Storia e fortuna di un capolavoro, a cura di F. Buranelli, A.M. De Strobel, G. Gentili, catalogo della mostra (Rimini-Savona), Cinisello Balsamo 2003

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W.E. Wallace, Michelangelo: i significati nascosti nei capolavori dell’artista ribelle del Rinascimento, Milano, 2012

Note

1 G. Vasari, Le vite - Edizioni Giuntina e Torrentiniana, 1568, VI, p. 130, http://vasari.sns.it/cgi-bin/vasari/Vasari-all?code_f=print_page&work=le_vite&volume_n=6&page_n=130.

2 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, Roma 1553, a cura di G. Nencioni, con saggi di M. Hirst, C. Elam, Firenze 1998, pp. 8-9.

3 Vasari 1550, ed. 1986, p. 881; G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di P. Barocchi, 5 voll., Milano-Napoli 1962, I, p. 6.

4 Cadogan 2000, p. 162, fig. 172.

5 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 10.

6 Möseneder 1993.

7 Giovinezza di Michelangelo, a cura di K. Weil-Garris Brandt, C. Acidini Luchinat, J.D. Draper, N. Penny, catalogo della mostra, Firenze-Milano 1999, pp. 329-331, nota 45.

8 Christiansen 2009, pp. 13-14.

9 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 15.

10 M. Hirst, J. Dunkerton, Making and Meaning. The Young Michelangelo, catalogo della mostra, London 1994; ed. it. in M. Hirst, J. Dunkerton, Michelangelo giovane. Scultore e pittore a Roma, 1496-1501, Modena 1997.

11 L. Scorrano, Michelangelo «prigione", in «Studi rinascimentali», IX, 2011, pp. 107-113.

12 M. Hirst, J. Dunkerton, Making and Meaning, cit. alla nota 10, che ricordano sul retro della tavola un «numero d’inventario Borghese».

13 A. Cecchi, Niccolò Machiavelli o Marcello Virgilio Adriani? Sul programma e l’assetto compositivo delle “Battaglie” di Leonardo e Michelangelo per la sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio, in «Prospettiva», LXXXIII-LXXXIV, 1996, pp. 102-115.

14 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 22.

15 J. Burkhardt, Der Cicerone, Basilea 1855.

16 A. Natali, L’antico, le Scritture e l’occasione. Ipotesi sul Tondo Doni, in Il Tondo Doni di Michelangelo e il suo restauro, a cura di S. Meloni, Firenze 1985, pp. 21-37.

17 Acidini 2007; C. Franceschini, The Nudes in Limbo: the Michelangelo’s Doni tondo reconsidered, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LXXIII, 2010, pp.137-180.

18 Echinger-Maurach 1991.

19 J.W. O’Malley, Il mistero della volta: gli affreschi di Michelangelo alla luce del pensiero teologico del Rinascimento, in La Cappella Sistina: i primi restauri. La scoperta del colore, ed. it. a cura di M. Boroli, con fotografie di T. Okamura, Novara 1986, pp. 92-148, in partic., p. 148.

20 H. Pfeiffer, La Sistina svelata: iconografia di un capolavoro, Città del Vaticano-Milano 2007, p. 159, nota 1.

21 Chapman 2005, pp. 129, 130, 286.

22 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 31.

23 Id., p. 32.

24 Id., Postilla 22, p. XXII.

25 Del Bravo 1997, pp. 88-89.

26 L. Bignami, G. Bignami, I profeti e le sibille della Cappella Sistina: il Credo. Sciolto, dopo cinque secoli, l’enigma dell’affresco di Michelangelo, Città del Vaticano 2010.

27 G. Vasari, La vita di Michelangelo, cit. alla nota 3, I, pp. 48-49.

28 Id., I, p. 49.

29 Chapman

2005, pp. 134-137, 286.

30 G. Vasari, La vita di Michelangelo, cit. alla nota 3,, I, p. 46.

31 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 32; Vasari 1568, ed. 1962, I, pp. 51-52.

32 Lettera di Vittoria Colonna [in Roma] a Michelangelo [in Roma], 1538-1541 circa, in Il carteggio di Michelangelo, ed. postuma di G. Poggi a cura di P. Barocchi, R. Ristori, 5 voll., 1965-1983, IV, 1979, n. CMLXVIII, p.104.

33 Michelangelo. La Cappella Sistina. Documentazione e interpretazioni, con prefazione di F. Buranelli e saggi di F. Mancinelli, Città del Vaticano-Novara 1999-2002, 2 voll.

34 R. De Maio, Michelangelo e la Controriforma, Roma 1978, p. 38.

35 M. Bussagli, Giudizi modello. Alle radici del Giudizio Universale di Michelangelo, in «Art e Dossier», IX, 1994, 88, pp. 30-34; Id., Michelangelo e Sulpizio Verolano: la fonte letteraria del Giudizio Universale, in Il Rinascimento a Roma, Roma 2011, pp. 88-93.

36 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 49.

37 Id., p. 50.

38 G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di P. Barocchi, 5 voll., Milano-Napoli 1962, I, pp. 77-78.

39 M. Accomando Gandini, Il Giudizio Universale e la Cappella Paolina: riferimenti michelangioleschi al dibattito religioso cinquecentesco, Ascoli Piceno 2008, pp. 8, 14.

40 Kunz 2005, p. 158.

41 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 50.

42 G. Vasari, La vita di Michelangelo, cit. alla nota 39, I, p. 76.

43 Lettera di Anton Francesco Doni in Piacenza a Michelangelo [in Roma], 12 gennaio 1543, in Il carteggio di Michelangelo, cit. alla nota 33, IV, 1979, n. MVI, pp. 160-163, in partic. p. 162.

44 Vasari 1550, ed. 1986, pp. 908-909.

45 Colalucci 1999, pp. 134-137.

46 G. Mongeri, Michelangelo Buonarroti, ricordo al popolo Italiano, Firenze 1875.

47 L. Steinberg, Michelangelo’s last paintings: the conversion of St. Paul and the crucifixion of St. Peter in the Cappella Paolina, Vatican Palace, London 1975.

48 Hemmer 2003, Kuntz 2010; C. Valenziano, S. Paolo e S. Pietro di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano, Città del Vaticano 2010.

49 G. Vasari, La vita di Michelangelo, cit. alla nota 3,, I, p. 82.

50 C. Valenziano, S. Paolo e S. Pietro di Michelangelo, cit. alla nota 49, p. 56, segnala due possibili identificazioni: santo Stefano, protomartire perseguitato da Saulo, e il profeta Isaia.

51 Fehl 1973.

52 G.A. Gilio, Due dialoghi: nel primo de’ quali si ragiona de le parti morali, e civili appartenenti a’ letterati cortigiani [...]; nel secondo si ragiona de gli errori e degli abusi de’ pittori circa l’historie, per Antonio Gioioso, Camerino 1564, in Trattati d’arte del Cinquecento, fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, 3 voll., Bari 1960-1962, II, 1961, pp.1-115,, in partic. pp. 28, 45, 50-51, 95-98.

53 L. Steinberg, Michelangelo’s last paintings, cit. alla nota 48.

54 A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, cit. alla nota 2, p. 51.

55 G. Vasari, La vita di Michelangelo, cit. alla nota 3, I, pp. 150-151.

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