MICHELE da Cesena

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MICHELE da Cesena

Carlo Dolcini

MICHELE da Cesena. – Nacque nel tardo secolo XIII (l’anno 1270, correntemente indicato, è una semplice congettura). Forse appartenne al casato Foschi e nacque a Ficchio, minuscolo insediamento della pianura cesenate, lungo il corso inferiore del fiume Savio.

Anche se tramandate da una posteriore tradizione, queste notizie non sono da trascurare perché non avevano un valore celebrativo, ma si riferivano alla vita di un francescano in rivolta contro due papi di Avignone e morto senza riconciliarsi con la Chiesa.

Entrato nell’Ordine francescano, M. potrebbe avere ricevuto l’avviamento filosofico e teologico presso il modesto Studium di Cesena, annesso al convento e alla chiesa di S. Francesco, nel luogo attualmente occupato dalla Biblioteca Malatestiana.

Nel 1316 era maestro di teologia a Parigi (ma le sue opere esegetiche e dottrinali, studiate ancora da Tritemio e da altri eruditi della prima Età moderna, sono attualmente disperse). In quel periodo l’Ordine francescano era da un biennio privo del ministro generale dopo la morte di Alessandro Bonino, avvenuta nel 1314, e appare singolare l’identica vacanza della suprema autorità della Chiesa, dove Giovanni XXII fu eletto due anni dopo la morte di Clemente V, avvenuta nel 1314.

Riunito a Napoli il capitolo generale composto da 52 padri, il 29 maggio 1316 l’assente M. fu eletto ministro generale al primo scrutinio, con 28 voti a favore e con soddisfazione di Roberto d’Angiò re di Sicilia e della regina Sancia d’Aragona Maiorca, la cui devozione a M. è più volte documentata.

La stima goduta da M. e il suo energico impegno nel riformare l’Ordine e nel migliorare le missioni evangeliche sembravano preludere a un periodo di forte risonanza. Ma si pararono subito le lacerazioni ancora aperte a causa della divisione tra i gruppi spirituali e conventuali. Da parte di M. fu mantenuta una linea sfavorevole alle frange estreme, anche dopo la condanna dei fraticelli di Narbona e la censura delle opere, giudicate ereticali, di Pietro di Giovanni Olivi.

Una difficoltà ancora più accentuata, presto modificatasi in congiuntura polemica e di lunga durata, sorse nella Pentecoste del 1322. Il capitolo generale dell’Ordine, riunito a Perugia, aveva formulato una nuova definizione sul controverso tema della povertà: Cristo e gli apostoli nulla avevano posseduto in proprio o in comune con diritto positivo di proprietà e dominio ma con una facoltà speciale, l’uso di fatto.

Contro quella definizione, non collegata alla sofferta esperienza degli spirituali ma alla tradizione bonaventuriana, si oppose con crescente energia Giovanni XXII con tre bolle (Ad conditorem canonum; Quia quorundam; Cum inter nonnullos) che due secoli più avanti entreranno in corpore iuris (Extravagantes Iohannis XXII, tuttavia considerate alla stregua di una collezione privata). Una volta stabilito che la carità e non la povertà rappresentava il vincolo della perfezione apostolica, la nuova teoria dell’uso di fatto era respinta come ereticale. Sul piano pratico Giovanni XXII si rifiutava di accogliere la riserva di dominio della Sede apostolica sui beni dell’Ordine francescano, che invece avrebbe dovuto fruirne con il titolo di proprietà in comune.

La polemica ebbe effetti dirompenti. Da una parte M. e i suoi collaboratori, fra i quali spiccava Bonagrazia da Bergamo, autore del Tractatus de Christi et apostolorum paupertate (1322), avevano intrapreso una via difforme rispetto alla società del loro tempo nel valutare l’uso di fatto come facoltà per tutti di fruire delle cose necessarie per vivere, sul fondamento del diritto di natura. Era indubbiamente «la leva demolitrice sul piano del diritto di tutta la tradizione tomistico-medievale» (Grossi, pp. 350 s.). L’intransigenza e la durezza di Giovanni XXII, d’altra parte, dipendevano dal concreto timore di conseguenze incalcolabili che avrebbero potuto travolgere il patrimonio della Chiesa e la sua struttura economica e finanziaria.

Convocato nel 1327 ad Avignone, M. comparve il 9 apr. 1328 alla presenza di Giovanni XXII, che dichiarò eretica la definizione del capitolo di Perugia del 1322. M. disse che quella teoria era cattolica, fedele alla tradizione e si accordava con la decretale Exiit di Niccolò III (1277); altrimenti i pontefici successivi, come Bonifacio VIII che aveva inserito quella decretale nel Liber sextus (1298), sarebbero stati eretici. Nel riprendere M., il pontefice dichiarò che egli era stolto, temerario, tiranno, favoreggiatore di eretici e serpente nutrito nel seno della Chiesa. Gli comandò inoltre, sotto pena di scomunica e di privazione del suo grado, di non uscire dalla corte papale senza speciale licenza.

Il 13 apr. 1328 M. fece diffondere un appello segreto contro il pontefice. Tenuto in condizione di prigionia, il 26 maggio M. fuggì da Avignone insieme con il procuratore dell’Ordine, Bonagrazia da Bergamo, e con qualche altro frate a lui rimasto fedele, come Guglielmo di Ockham che, convocato due anni prima dal pontefice dopo una denuncia contro il suo insegnamento oxoniense, aveva aderito in pieno alla protesta del suo ministro generale.

Sfuggiti al controllo di Giovanni XXII, dopo un viaggio periglioso per terra e per mare il 9 sett. 1328 i michelisti ripararono a Pisa. Qui, due settimane dopo, giunse l’imperatore Ludovico il Bavaro con il suo esercito e con il suo consigliere Marsilio Mainardini da Padova (Giovanni di Jandun era morto a Todi nel mese di agosto).

Essi venivano da Roma dove, tra il gennaio e il maggio 1328, avevano avuto luogo l’incoronazione popolare dell’imperatore, la deposizione di Giovanni XXII e l’elezione al pontificato del francescano Pietro Rainalducci, con il nome di Niccolò V.

Nonostante l’opposizione contro Giovanni XXII, che li accomunava, Marsilio e i francescani dissidenti non si intesero veramente mai e non provarono a fondere le loro dottrine, per quanto in due successivi appelli di M. si avvertano analogie, talvolta anche letterali, con argomenti del Defensor pacis a proposito della translatio Imperii e della negazione della giurisdizione coattiva del pontefice (Dolcini).

Conosciuta la sentenza di deposizione imperiale di Giovanni XXII, elaborata da Marsilio e Giovanni di Jandun e pronunciata davanti alla chiesa di S. Pietro il 18 apr. 1328, M. e i suoi confratelli si disposero a riscrivere un documento radicalmente nuovo, privo di tesi politiche e addensato sulla questione della povertà. Dopo avere viaggiato per l’Italia padana insieme con Ludovico IV il Bavaro nel 1329, Marsilio e i michelisti si rifugiarono a Monaco, presso l’imperatore.

A partire dal 1328 cominciarono a diffondersi nell’Europa cristiana gli appelli, a volte compositi ed estenuanti, come quelli del 18 sett. 1328 e del 26 marzo 1330, di M. contro Giovanni XXII. Insieme con gli argomenti polemici al riguardo della povertà assoluta dei francescani, quegli appelli contenevano novità di ordine ecclesiologico e politico, come la tesi sul regno di Cristo, che non fu temporale e terreno ma celeste ed eterno, e la negazione degli argomenti tradizionali (le due spade, il trasferimento dell’Impero da Oriente a Occidente) a sostegno della plenitudo potestatis del pontefice.

Nuova e originale nei suoi effetti pratici, anche se fondata sul recupero di canoni del Decretum di Graziano, era la teoria sul papa eretico che, come tale, risultava immediatamente scomunicato, inferiore a qualunque cattolico e deposto sul fondamento di un libero esame delle sue tesi da parte dei fedeli. Si manifestava, in sostanza, una teoria della infallibilità papale, tuttavia diversa da quella che sarebbe stata affermata nel concilio Vaticano I (1869-70) e centrata sulla tesi che ogni pontefice era vincolato alle definizioni dei suoi predecessori, qualora fossero approvate dalla Chiesa universale e da un concilio generale (Tierney).

Come ha rilevato Becker dopo un esame delle minute e delle versioni ufficiali degli appelli dei michelisti (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 4009), l’autore di quei documenti polemici, accompagnati dal sigillo di M., era Bonagrazia da Bergamo. Ma intanto, a partire dal 1328 nacquero le opere politiche di Ockham, a sostegno delle tesi del suo ministro generale, ma anche con una dimensione sempre più personale e specializzata nel profilo dottrinale.

Da parte di Giovanni XXII fu lanciata la sentenza di scomunica e deposizione contro Michele. Mentre l’Ordine francescano era agitato da polemiche e fratture, almeno per qualche anno fu diffuso e non facilmente reprimibile il consenso interno verso la causa e la figura di M., e particolarmente nell’Italia centrosettentrionale. Pensando alla sorte di M. e dei suoi confratelli, il coevo cronista Giovanni di Winterthur scrisse con malinconia che essi erano i migliori dell’Ordine. E intanto, nel 1331, un capitolo tenuto a Perpignano elesse un nuovo generale dei francescani, il francese Guiral Ot (Geraldo Odoni).

Nemmeno l’elezione di un nuovo pontefice (Benedetto XII, dicembre 1334) portò a una riconciliazione. Fallito nel 1336 un compromesso di accordo tra il papa e l’imperatore, continuarono le polemiche, nelle quali ormai era in prima linea Guglielmo di Ockham con il suo poderoso Dialogus.

L’ultimo appello di M. fu pubblicato a Monaco il 23 ag. 1338 e non si hanno notizie su di lui posteriori al 1342.

Deve considerarsi come una falsificazione del secolo XVII un suo testamento, abusivamente inserito in due codici della Biblioteca Malatestiana di Cesena (D.VIII.5; D.XIX.2: quest’ultimo contenente la prima parte del Dialogus de credentibus fautoribus di Ockham), con il quale M. avrebbe dichiarato il pentimento per le sue azioni e il desiderio di essere nuovamente accolto nella Chiesa avignonese (Carlini).

M. fu personaggio controverso nelle polemiche, nuovo ed estremo nel suo ideale pauperistico, a tratti ravvisabile nel romanzo di U. Eco Il nome della rosa (Milano 1980). Una fonte, pressoché tralasciata, risale a uno dei compositori degli Annales Caesenates, il notaio Guido di Monteleone, che scrisse le sue notizie mentre M. dimorava in Baviera, presso l’imperatore. Dopo un omaggio al valore intellettuale di M., accompagnato da una censura del suo agire, il notaio cronista offre una sintesi del suo pensiero: secondo Guido, M., già in vita nominato in forma diminutiva («Michilinus»), nel volare più in alto di quello che era lecito aveva insegnato come Gesù fosse vissuto senza alcuna proprietà, e così doveva essere per il pontefice romano, che non poteva disporre della spada temporale nel dover essere il vicario di Cristo («hic volens volare altius quam debeat talem opinionem eructavit […] et per mundum voluit predicari quod Christus proprium non habuerat et sic neque summus pontifex proprium habere debebat, neque uti poterat galdio temporali cum sit in terra vicarius Ihesu Christi»).

Nel secolo scorso la vicenda di M. è stata riproposta in un’unica biografia, pubblicata nel 1912 da Armando Carlini, che sarebbe divenuto un filosofo idealista e cattolico di prima linea nel corso della prima metà del Novecento. Nella prefazione al volume, Renato Serra sosteneva che capire un individuo come M., tragicamente agitato nel mondo storico, voleva dire valutare la forza ideale di cui era portatore, senza ricorrere a schemi tradizionali. Per quanto questa esperienza non abbia trovato ripetizioni, il suo interesse per M. portava a comprendere una vita e un pensiero, rivivendoli nel contatto esistenziale con il personaggio studiato.

Fonti e Bibl.: M. non ha lasciato un corpus sistematico di interventi e riflessioni; nel volumetto di C. Dolcini, Il pensiero politico di M. da C., 1328-1338, Faenza 1977 (ried. in Id., Crisi di poteri e politologia in crisi, Bologna 1988, pp. 147-221), si trova un tentativo di analisi del linguaggio politico di M., insieme con qualche comparazione con Marsilio e Guglielmo di Ockham. Ulteriori indagini in Id., Nuove ipotesi e scoperte su Dante, Marsilio e M. da C. Il nodo degli anni 1324 e 1330, in Etica e politica: le teorie dei frati mendicanti nel Due e Trecento. Atti del XXVI Convegno internazionale, Assisi … 1998, Spoleto 1999, pp. 279-297. Annales Caesenates, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XIV, Mediolani 1729, coll. 1147 s.; Die Chronik Johanns Winterthur, a cura di C. Brun - F. Baethgen, in Mon. Germ. Hist., Script. rer. Germanicarum nova series, III, Berolini 1924, pp. 95-97, 192; J. Tritemio, Opera historica …, Francofurti 1601, p. 308; A. Carlini, Fra Michelino e la sua eresia, Bologna 1912; H.-J. Becker, Zwei unbekannte kanonistische Schriften des Bonagrazia von Bergamo in Cod. Vat. lat. 4009, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XLIV (1966), pp. 219-276; J. Miethke, Ockhams Weg zur Sozialphilosophie, Berlin 1969, ad ind. (con ricca bibl.); P. Grossi, Usus facti. La nozione di proprietà nell’inaugurazione dell’Età nuova, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, I (1972), pp. 287-355; B. Tierney, Origins of papal infallibility, 1150-1350. A study on the concepts of infallibility, sovereignity and tradition in the Middle Ages, Leiden 1972, ad ind.; R. Lambertini, La povertà pensata. Evoluzione storica della definizione dell’identità minoritica da Bonaventura ad Ockham, Modena 2000, ad ind.; P.G. Peruzzi, Il «Liber minoricarum decisionum» di Bartolo da Sassoferrato. Ricerche sul problema della povertà francescana nel secolo XIV tra Bartolo e Baldo degli Ubaldi, in Pensiero politico medievale, III-IV (2005-06), pp. 23-140.

C. Dolcini

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