CRESCI, Migliore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

CRESCI, Migliore

Magda Vigilante

Nato a Firenze nel 1494, da una famiglia originaria di "Montereggi, in quel di Fiesole" e stabilitosi nel quartiere di S. Giovanni, "ove esercitò l'arte del tinger panni", ricoprì la carica di priore nel 1534. Suo padre - del quale però l'Oxilia non fornisce il nome - era figlio del rimatore Migliore.

L'avo del C., Migliore, nacque a Firenze nel 1428. Amico del Ficino e di insigni umanisti fiorentini, compose alcuni sonetti in volgare conservati manoscritti nella Biblioteca nazionale di Firenze: il codice Magl. VII, 1168, c. 72 reca il sonetto "Se mai meritamente infra costoro", scritto in morte del Burchiello; un altro componimento intitolato "La mente col pensier sempre mi porta" figura nel codice Magl. VII, 1029, c. 34v, ed è seguito da tredici sonetti per i quali non si accenna a mutamento di autore.

Nel 1466 Migliore ricoprì la carica di capitano a Volterra; nello stesso anno il Ficino inviò una lettera a Michele Mercati, dalla quale risulta che Migliore desiderava conoscere le traduzioni di alcune opere platoniche, già compiute dal Ficino. Infatti tra queste si trovava il dialogo De regno, che ben si confaceva a Migliore magistrato pubblico, in quanto vi si discutevano le forme e i modi del governare. Ci è stata tramandata inoltre una lettera filosofica del Ficino a Migliore, nella quale gli spiega la natura delle "irtutes civiles purgatories".

Dai documenti dell'Archivio di Stato di Firenze risulta che Migliore divenne priore di Firenze nel 1470; negli anni successivi egli appare inserito nella vita letteraria fiorentina, come documentano i suoi contatti con vari esponenti della cultura umanistica (oltre che con Donato Acciaiuoli e Naldo Nalal, con Alessandro Braccesi). Nel Secundus libellus elegiarum ad amicos del Braccesi, contenuto nel codice Ricc. 3021, figura infatti una poesia intitolata Descriptio horti Laurentii Medicis ad Bernardum Bembum equitem venetum apud Florent. legatum (E, VII), che rappresenta una specie di gara poetica tra il Braccesi e Migliore per descrivere le bellezze della villa medicea a Careggi; la seconda redazione del Libellus, a noi pervenuta nell'archetipo autografo (il codice Laur. 91 sup. 41) e nell'esemplare di dedica Vat. Urb. 741, riporta inoltre una poesia (E, VIII) indirizzata a Migliore, nella quale il Braccesi con motti arguti lo invita a cena insieme all'amico comune Naldo Naldi.

Le ultime notizie che possediamo su Migliore si riferiscono alla sua nomina a capitano di Castrocaro nel 1488, e a podestà di Montaione nel 1490.

Non si conosce la data della morte.

Oltre alla Storia d'Italia (dal 1525 al 1546), di cui ci sono pervenuti dieci libri pubblicati da U. G. Oxilia, scrisse un breve trattato sui doveri del principe, che si conserva manoscritto nella Bibl. naz. di Firenze (Magl. XXX, 147, c. 12).

L'opuscolo, preceduto da una lettera dedicatoria al granduca Cosimo, testimonia che il C., un tempo fautore della parte repubblicana fiorentina (come si desume da alcuni giudizi politici espressi nella sua opera storica), si adattò in seguito alla restaurata sovranità medicea e, forse, ne accettò i favori. Evidentemente, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, il C. (a somiglianza di altri storici fiorentini, quali il Segni e il Varchi), riconobbe nella vittoria della famiglia e nella condotta politica di Cosimo la pacificazione conclusiva di sanguinose lotte e contese, ma conservò il ricordo della eroica resistenza opposta dalla Repubblica fiorentina alle truppe spagnole e mercenarie di Carlo V, che descrisse con commozione nella sua Storia d'Italia, avvalorando il mito della libertà repubblicana, più tardi divenuto così vivo e operante nella tradizione storica del Cinquecento e del Seicento europei.

La Storia d'Italia riferisce gli avvenimenti accaduti dalla battaglia di Pavia al 1546; significativamente l'autore assume come terminus a quo della sua narrazione l'anno della disfatta di Francesco I (1525), che tanto impressionò i contemporanei, ma nell'economia generale dell'opera l'esposizione delle varie fasi e delle conseguenze caratterizzanti la gigantesca contesa in atto tra Carlo V e Francesco I non costituisce l'elemento fondamentale per interpretare le complicate vicende politiche di un periodo storico così tormentato. Sebbene la descrizione degli eventi storici non sia rigidamente subordinata alla divisione per anni, essa è tuttavia ancora lontana da una visione globale e comprensiva degli intimi nessi logici che collocano i singoli episodi in un quadro unitario.

Il C. intanto si propone di fornire la storia non di una città o di una regione, ma di un complesso di regioni (Oxilia, p. 19): quindi deve rappresentare circostanze e fatti che in un medesimo tempo si svolgono in luoghi diversi, e riprodurre anche l'ambiente storico sociale nel quale operano i suoi personaggi e si succedono gli avvenimenti. Il criterio impiegato dal C. per disporre la sua materia segue di preferenza l'ordine cronologico, che impedisce sovente la concatenazione razionale di eventi accaduti a distanza di tempo, e costringe l'autore ad interrompere frequentemente la narrazione per raccontare avvenimenti che in quel momento si svolgono altrove. Tale procedimento conferisce al racconto una certa naturalezza e tende ad affermarne la veridicità e l'originalità, ma comporta anche il continuo, stucchevole ripetersi delle espressioni comuni: "in questo mezzo", "nel mentre che", "intanto che", le quali deviano l'attenzione del lettore e denunciano uno stile alieno da ogni ricercatezza. D'altra parte il C. dichiara, nella lettera al granduca Cosimo premessa al trattato sui doveri del principe, che scrive con il solo sussidio della "benigna natura", coadiuvata da "vulghare studio"; mancano quindi alla sua prosa l'eleganza e la compostezza di periodi elaborati secondo i canoni umanistici.

Dopo aver sottolineato nella prefazione come "non è cosa che più veramente insegni ogni regola di vita quanto fa l'istoria universalmente ad ognuno", e dopo avere accennato "ai tanti travagli ed affanni d'Italia già più che ventidue anni seguiti", il C. immette il lettore nel vivo della narrazione storica, che egli vuole informata al principio della più assoluta imparzialità. Ma quando descrive l'assedio di Firenze (12 ott. 1529-12 ag. 1530) il C. non può frenare un palpito di commozione e di orgoglio nel ricordare le balde milizie giovanili "che più l'onor della patria che la roba o la propria vita stimavano" (IV, p. 86); mentre il dramma della cittadinanza, ormai stremata e ridotta a sospettare dello stesso generale, Malatesta Baglioni, gli ispira la seguente considerazione: "Tal che la misera fiorentina repubblica aveva tenuto un anno e mesi l'assedio, senza favore d'alcun principe, solo con le proprie forze; ed ora si trovavano essere minacciati dal medesimo loro generale" (V, p. 100). Tuttavia il C. non reprime un moto di sdegno solamente nel considerare la sorte della sua città natale, ma estende la sua invettiva fino a commiserare l'intera penisola: "Quinci si può conoscere che non arebbe il potentissimo Dio questa [la Francia] e l'altre barbare nazioni separate dall'amena e dilettevole Italia con sì alte montagne, se non fussero crudelissimi e veri nemici de' divisi Italiani; e si può pensare che Dio gli manda per flagello de' nostri animi, corrotti in tanti divisi pensieri" (II, p. 64).

Non di rado, quindi, l'autore interviene nella narrazione per esprimere le sue opinioni personali, o per ricavare dalle esperienze reali fornite dalla storia quegli insegnamenti morali, ai quali si devono ispirare sia l'azione politica del principe, sia la condotta generale dei popoli. Il racconto storico si intreccia alle riflessioni moralistiche e rivela, inoltre, uno scarso rispetto per le leggi della misura e della importanza degli argomenti trattati: il C. si dilunga a parlare minuziosamente di alcuni episodi marginali che precedettero o accompagnarono l'assedio di Firenze, mentre tralascia o allude appena a fatti politici di maggiore interesse, come il giudizio e l'autodifesa del gonfaloniere Niccolò Capponi; allo stesso modo i motivi per i quali Carlo V e Clemente VII si incontrarono a Bologna nel 1532 non vengono spiegati dallo storico, il quale preferisce ricordare dell'avvenimento gli spettacoli drammatici e le giostre in onore dell'imperatore, o il ricco abbigliamento dei cortigiani intervenuti al convegno.

Tuttavia le annotazioni del C. consentono una ricostruzione minuziosa della società con i suoi usi e abitudini, e offrono pertanto un materiale interessante per lo studioso di storia della cultura e del costume. Né mancano allo storico una certa vivacità di stile e gusto dell'ironia nel rappresentare alcuni particolari di eventi storici memorabili come il sacco di Roma: "Così durato il saccheggiare e far prigioni dieci giorni, si vedevano poi i lanzi andar per Roma vestiti da vescovi e da cardinali, con cappelli rossi e mitrie in testa, con quelle gran vesti rosse, in su bellissime mule, dando la benedizione a chi per la strada scontravano..." (II, p. 59). Ad un senso del favoloso si ispira, invece, la descrizione del violento temporale che colpì Roma nel 1530, quando il Tevere "si alzò in molti luoghi quanto una picca..." (V, p. 104) e "un palazzo d'un messer Eusebio... fu visto miracolosamente sprofondare, andandosene sotto l'acqua, dentrovi il padrone e a quindici persone..." (ibid.); e con analogo sentimento di meraviglia e stupore è illustrato lo sbarco della flotta turca a Marsiglia, compiuto alla fine di giugno del 1543: "...faceva una bellissima vista di questi personaggi infedeli, tutti abbigliati di bellissime vesti di drappo, con piume grandissime in testa, di vari colori..." (X, p. 187).

Il C. inserisce infine nel corso della esposizione degli avvenimenti numerose orazioni, pronunciate da vari personaggi storici, che denotano come l'autore non ignori completamente i moduli letterari umanistici. Riguardo alle fonti dell'opera è certo che il C. tradusse e trascrisse alcune orazioni contenute nel De rebus gestis pro restitutione Francisci II Mediolanensium ducis (Mediolani 1531) di Galeazzo Capra, ma generalmente egli utilizza ricordi ed indagini personali senza ricorrere alle compilazioni di altri storici dell'epoca, dalle quali la sua Storia si differenzia per la presenza di numerosi particolari inediti.

Non si conosce la data della sua morte, avvenuta probabilmente dopo il 1546.

Fonti e Bibl.: G. Negri, Istoria degli scritt. fiorentini, Ferrara 1722, p. 409 (l'autore ritiene erroneam. che il Migliore storico ed il Migliore poeta siano la stessa persona); U. G. Oxilia, in M. Cresci, Storia d'Italia, in Miscell. di st. ital., s. 3XLIII (1907), pp. 1-44; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s. a., ad Ind. SuMigliore vedi: Arch. di Stato di Firenze, Spogli dell'Ancisa, LL, cc. 174-176; M. Ficino, Opera omnia, I, Torino 1962, pp. 618 ss.; V. A. Angelelli, Memorie stor. di Montaione in Valdelsa, Firenze 1875, p. 241; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento, Pisa 1891, pp. 258, 662; A. della Torre, Storia dell'Accad. platonica, Firenze 1902, pp. 542 ss., 564 ss.; A. Perosa, Storia di un libro di poesie latine dell'umanista fiorentino A. Braccesi, in La Bibliofilia, XLV (1943), pp. 7-12, 160.

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